venerdì 8 gennaio 2021

Renzi “rivuole” gli 007, ma perde l’arma “destra”. - Wanda Marra

 

Tra gli attacchi a Giuseppe Conte per i suoi rapporti con l’Amministrazione Trump e le penne un po’ abbacchiate dei populisti italiani, l’assalto al Congresso Usa ha più di una ricaduta sulla crisi politica nostrana. Tanto per cominciare, il governo di larghe intese, con tutti (o quasi tutti dentro), si allontana. E con questo il piano B di Matteo Renzi che non ha mai smesso di parlare con Matteo Salvini e di corteggiare FI e persino Fratelli d’Italia.

Ma Renzi, che si trova con un’arma spuntata, è deciso a cercare di volgere la situazione a suo vantaggio. E così sferra l’attacco finale a Giuseppe Conte, chiedendogli di nuovo di lasciare la delega ai servizi segreti nel nome della sicurezza nazionale.

Già da mercoledì sera i social renziani cominciano a condividere foto del premier italiano e di Donald Trump, mentre nelle chat gira il video in cui Conte sosteneva che il suo governo e l’Amministrazione Trump fossero uniti nel “cambiamento”. I renziani si scatenano quando Conte fa il suo tweet (“Seguo con grande preoccupazione quanto sta accadendo a Washington. La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche. Confido nella solidità e nella forza delle Istituzioni degli Stati Uniti”). Ieri mattina il premier, dopo che il Congresso americano ha certificato la vittoria elettorale di Joe Biden, interviene di nuovo: “Non vediamo l’ora di lavorare assieme al presidente Biden e alla vicepresidente Kamala Harris per promuovere insieme un’agenda globale di crescita, sostenibilità e inclusione”. Renzi in serata ci va giù diritto: “È stato importante che anche Johnson, altro uomo di destra, abbia detto parole durissime come Merkel”. Cita Veltroni, che ha criticato la scelta di Conte di non citare Trump esplicitamente, condannando i fatti. E affonda: “Non è che se uno è amico di Trump non dice parole chiare”. Nel pomeriggio, fonti Iv tirano in ballo il caso Barr, chiedendo “chiarezza” su quanto accaduto nell’estate 2019, con le visite di William Barr, Attorney general di Trump, in Italia. E ancora: “I fatti di Washington testimoniano che la sicurezza nazionale è tema centrale. Conte nel commentare quei fatti non ha citato Trump”.

Il riferimento è alle due visite di Barr in Italia nel 2019 quando avrebbe chiesto agli 007 italiani assistenza per cercare elementi al fine di screditare le indagini condotte dal Fbi per conto del super procuratore Robert Mueller sul Russiagate. L’amministrazione Trump voleva approfondire la pista investigativa secondo la quale lo scandalo delle mail private “rubate” dai russi a Hillary Clinton e poi offerte all’entourage di Trump fosse una trappola ordita dai democratici americani. L’Italia era un tassello fondamentale perché a Roma scomparve il professor Joseph Misfud, l’innesco della prima inchiesta sul Russiagate.

Le richieste erano arrivate a Roma già a giugno 2019 per canali diplomatici. Entrambi gli incontri, uno il 15 agosto e uno il 27 settembre, si svolsero nella sede del Dis, guidato dal fedelissimo di Conte, Gennaro Vecchione. Al primo parteciparono Barr e Vecchione. Al secondo erano presenti, oltre a loro, il procuratore John Durhan, e i direttori delle agenzie operative, Mario Parente (Aisi) e Luciano Carta (Aise). Di fronte al Copasir, Conte tenne a precisare di non aver mai parlato, né dal vivo, né al telefono, con Barr. E sostenne che di fronte alla richiesta degli americani non si poteva dire di no, che non c’erano sospetti sugli 007 italiani e che alla fine la nostra intelligence risultò estranea agli eventi in questione.

Conte finisce nel mirino per i buoni rapporti con l’ ex presidente degli States, che durante il G7 di Biarritz gli fece un endorsement decisivo, chiamandolo “Giuseppi”. Ma il governo ha sempre tenuto rapporti istituzionali con gli Usa. Ieri fonti diplomatiche italiane fanno sapere che Biden e Harris hanno accolto con soddisfazione il messaggio del premier. Ma Renzi alza la posta della trattativa, cercando di porsi come l’uomo di Biden: che la delega ai Servizi venga data a uno dei collaboratori stretti del premier sembra non bastare. La crisi si fa sempre più buia, mentre Luigi Di Maio accetta di riferire in Parlamento sui fatti americani dopo la richiesta dei dem, Andrea Marcucci e Filippo Sensi.

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