Tecnicamente sono simulazioni a tre dimensioni derivate da modelli magnetoidrodinamici di fenomeni astronomici, rigorosamente ottenute a partire da dati scientifici e destinate in prima battuta agli astrofisici. Ma a guardarle sembrano opere d’arte. Ne parliamo con lo scienziato alla guida del team che le ha prodotte, Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo. Fotogrammi dalle sei visualizzazioni richieste dalla Nasa. Crediti: Inaf-Osservatorio astronomico di Palermo/Salvatore Orlando
Una protostella, una nova e vari resti di supernove. Tutte in 3D, tutte coloratissime. Sono le animazioni scientifiche selezionate la settimana scorsa dal team del telescopio Chandra e riprese in home page sul sito web della Nasa. Una più affascinante dell’altra, non sfigurerebbero come videoinstallazione in una galleria d’arte contempoanea. Portano tutte e sei la firma di un astrofisico dell’Inaf di Palermo, Salvatore Orlando, e dei suoi colleghi.
Cosa si prova a vedere le proprie opere in home page sul sito della Nasa? «Intanto vorrei precisare che i modelli sono stati sviluppati e pubblicati su riviste specializzate nel corso degli anni per studi riguardanti diversi fenomeni astronomici e sono frutto della collaborazione di ricercatori dell’Inaf – in particolare, dell’Osservatorio astronomico di Palermo – con colleghi di diversi istituti in Italia (tra cui l’Università di Palermo) e all’estero. Ovviamente fa sempre piacere quando qualcuno apprezza il tuo lavoro, chiunque esso sia. Certo la Nasa ci ha dato la possibilità di avere grande visibilità a livello internazionale. Per essere precisi, però, la Nasa ha ripreso dei modelli che noi abbiamo pubblicato negli scorsi mesi su Sketchfab, una piattaforma largamente utilizzata per la diffusione di modelli 3D per la realtà virtuale e la realtà aumentata».
Animazioni scientifiche ma al tempo stesso, in un certo senso, anche opere d’arte. Partiamo da questo secondo aspetto. Da dove emerge la notevole componente estetica di queste rappresentazioni? Solo dal codice, o è stato necessario un intervento umano? «I codici numerici che utilizziamo – tra cui vorrei menzionare il codice Pluto, sviluppato in Italia presso l’Università di Torino in collaborazione con l’Osservatorio astronomico di Torino – sono codici magnetoidrodinamici per plasmi astrofisici che forniscono le distribuzioni spaziali delle quantità fisiche: densità, temperatura, velocità, campi magnetici… Ultimate le simulazioni, si rende necessario l’intervento umano per rendere la visualizzazione di queste quantità efficace nella rappresentazione del fenomeno – utile per ottenere informazioni dai modelli (ricordiamoci che i modelli sono sviluppati per la ricerca scientifica) – e gradevole nel momento in cui si desidera avvicinare modelli che, in genere, sono per addetti ai lavori, alla portata di tutti.
In cosa consiste? «L’intervento umano consiste essenzialmente nel selezionare una scena rappresentativa del fenomeno che si intende descrivere, mettendo in risalto le componenti fisiche più importanti attraverso la scelta dei colori, delle trasparenze, e più in generale delle caratteristiche degli elementi che si visualizzano».
E le competenze artistiche da dove arrivano? Non tutte dal corso di laurea in fisica, immagino… «Credo che si acquisiscano nel corso degli anni, quando si preparano le figure o i filmati da inserire negli articoli scientifici e che devono veicolare in modo possibilmente semplice ed immediato le informazioni da comunicare al lettore. È chiaro che poi intervengono anche i gusti personali nella scelta dei colori, nel modo di miscelarli insieme, e nella selezione delle componenti fisiche per la rappresentazione dei modelli».
Salvatore Orlando, astrofisico all’Inaf di Palermo
Veniamo alla scienza. Sono rappresentazioni pensate anzitutto per gli astronomi, ci stava dicendo. A cosa possono servire? «Le rappresentazioni pubblicate sul sito di Sketchfab fanno parte di un progetto avviato circa un anno fa presso l’Osservatorio astronomico di Palermo che ha lo scopo di creare un ambiente di analisi e visualizzazione di simulazioni astrofisiche di modelli magnetoidrodinamici che si basa sulla realtà virtuale. Il progetto si chiama 3DMap-Vr ed è stato recentemente presentato su Rnaas (Research Notes of the American Astronomical Society). Il laboratorio di realtà virtuale che abbiamo realizzato consente ai ricercatori di analizzare e visualizzare le simulazioni scientifiche in modo immersivo, integrando in tal modo la tradizionale rappresentazione su schermo e consentendo ai ricercatori di navigare e interagire con i loro modelli. Allo stesso tempo, abbiamo compreso che lo stesso strumento può essere utilizzato con grande successo per la divulgazione scientifica, in quanto permette ai non addetti ai lavori di “vedere” ciò che non si può visualizzare senza strumenti adatti, come la radiazione emessa in diverse bande spettrali, i campi magnetici, oggetti astronomici che si trovano a grandi distanze da noi e che i nostri telescopi non riescono a risolvere».
Avete già avuto occasione di mostrarli in pubblico? «Sì, certo. Negli eventi dedicati alla divulgazione scientifica in cui abbiamo messo a disposizione i nostri apparati per la realtà virtuale e i nostri modelli, la risposta da parte delle persone è stata di grande entusiasmo. Il pubblico ha avuto la possibilità di esplorare strutture magnetiche della corona solare, di avvicinarsi a getti protostellari e dischi di accrescimento attorno a stelle giovani, ammirando il processo di formazione di una stella, di vedere da vicino drammatiche esplosioni di nove e supernove e di viaggiare attraverso il materiale stellare espulso a seguito di questi eventi e che interagisce con il mezzo circumstellare e interstellare per migliaia di anni. Grazie a questi strumenti, il pubblico ha potuto comprendere in modo semplice i modelli fisici sviluppati e, più in generale, i fenomeni astronomici studiati, ma anche il tipo di lavoro che viene svolto dai ricercatori».
I dati di partenza da quali telescopi e strumenti provengono? «I modelli si basano su osservazioni e dati raccolti da diversi strumenti astronomici operanti in varie bande spettrali. Abbiamo usato dati raccolti in banda radio, infrarosso, ottico, ultravioletto, X e gamma. Per esempio, giusto per menzionare qualche strumento che opera in banda X, oltre ai dati di Chandra abbiamo usato anche quelli di Xmm-Newton, ma anche di satelliti precedenti e non più operanti, come Rosat e Asca».
Chi volesse vedere la collezione completa, dove può cercare? «Come dicevo prima, in realtà i sei modelli che la Nasa ci ha richiesto sono già disponibili pubblicamente insieme a molti altri da noi sviluppati già da qualche mese sulla piattaforma Sketchfab. In particolare, abbiamo creato due gallerie di modelli accessibili pubblicamente da qualsiasi browser. La prima galleria – “Universe in hands” – si basa su modelli idrodinamici e magnetoidrodinamici sviluppati per ricerca scientifica e già pubblicati in riviste specializzate. La seconda – “The art of astrophysical phenomena” – è invece composta da “rappresentazioni artistiche” di vari fenomeni astronomici e, chiaramente, si basa molto sulla fantasia dello sviluppatore, sempre tenendo conto di ciò che sappiamo del fenomeno fisico rappresentato. In totale sono già disponibili 35 modelli e molti altri ne verranno aggiunti in futuro. I modelli possono essere visualizzati in modo tradizionale su schermo ma con la possibilità di interagire con essi, potendoli esplorare in tutti i modi. Se poi si ha a disposizione un equipaggiamento per la realtà virtuale, i modelli possono essere esplorati anche in modo immersivo, dando la possibilità al “cosmonauta virtuale” di viaggiare al loro interno».
A dispetto della sua disavventura in un duello, in cui l’avversario gli aveva staccato buona parte del naso, poi sostituito da una leggendaria protesi in argento (sembra che la disputa fosse sorta su un’errata predizione astrologica),Tycho Brahefu un uomo fortunato. Nella sua giovinezza aveva potuto osservare una rara eclissi di Sole, che l’aveva spinto a studiare astronomia; e tre anni dopo – all’epoca ancora non esistevano i telescopi – poté seguire una altrettanto rara congiunzione di Giove e Saturno che lo portò a correggere le tavole astronomiche allora in uso. Ma l’evento più fortunato della sua vita gli capitò una fredda notte di novembre del 1572. Appena ventisettenne, il giovane Tycho dalla finestra di casa, in Svezia, dov’era tornato per assistere il padre malato, notò in cielo una stella che non aveva mai visto prima. Gli bastò qualche osservazione più precisa per stabilire senza ombra di dubbio che si trattava di una stella nuova, una nova in latino. L’anno successivo pubblicò le sue osservazioni e considerazioni nel "De nova et nullius aevi memoria prius visa stella" (Sulla nuova stella mai vista prima a memoria d’uomo), prima che gli ultimi bagliori di quella strana apparizione svanissero per sempre, nel marzo 1574.
Tycho Brahe era stato il primo astronomo occidentale a riportare l’osservazione di una supernova. Gli storici della scienza hanno ricostruito finora sette osservazioni di supernove compiute in epoche storiche. Non sorprende che la maggior parte di esse vennero osservate in Cina, dove fino all’inizio del Rinascimento europeo la scienza astronomica era parecchio più avanzata di quella occidentale. Nel 1006 i monaci dell’abbazia di San Gallo in Svizzera avevano preso nota di un’altra supernova, ma all’epoca brancolavano nel buio del medioevo e, fermamente stretti alla concezione aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli, non accettarono l’idea che quella luce apparsa all’improvviso fosse davvero una nuova stella (a dispetto del fatto che la sua luminosità fosse davvero ragguardevole e che rimase visibile per diversi anni nei cieli dell’emisfero boreale).
Le supernove non sono un fenomeno comune nella nostra galassia. Sono l’esito spettacolare della morte di una stella di massa molto superiore a quella del Sole, quando il loro nucleo, rimasto a corto di carburante per continuare ad alimentare il processo di fusione nucleare, collassa sotto la spinta dell’enorme forza di gravità prodotta dalla loro massa. La materia negli strati più esterni della stelle viene espulsa in un’immane esplosione che produce una luminosità tale da superare quella dell’intera galassia, con le sue decine o centinaia di miliardi di stelle. Non c’è da stupirsi dunque se questa luce straordinaria, dopo aver viaggiato per diversi anni luce, arrivi talvolta ben visibile anche a occhio nudo fino a noi. Oltre alle supernove, gli astrofisici hanno teorizzato anche l’esistenza di “ipernove”. Un’ipernova rilascerebbe un’energia quasi cinquanta volte superiore a quella di una supernova, al punto da emettere in pochi secondi la stessa energia che il nostro Sole produce nell’intero arco della sua vita, circa 10 miliardi di anni.Ogni anno si osservano con potenti telescopi circa una decina di esplosioni di supernove nell’universo, e diverse potenziali “ipernove”. Nessuno di questi eventi, tuttavia, cade all’interno della nostra galassia. L’ultima supernova nostrana fu osservata nel XVII secolo da Keplero, dopodiché, se altre supernove sono esplose nella Via Lattea, i telescopi non sono stati in gradi di rilevarle (senza contare quelle che, in epoche più antiche, sono state visibili solo nell’emisfero australe, dove nessuno ne ha tenuto traccia).
In passato, l’apparizione di una nuova stella nel cielo poteva essere fonte di perplessità, se non addirittura di terrore. Oggi costituirebbe uno spettacolo di straordinario interesse per scienziati e astrofili. Ma una supernova può mettere a rischio l’esistenza della vita sulla Terra? L’energia sprigionata da una supernova può arrivare a qualcosa come quattrocento miliardi di miliardi di miliardi di bombe termonucleari. Quella che vediamo sotto forma di luce è solo una piccola frazione dell’energia prodotta. La maggior parte di essa ci arriva infatti sotto forma di raggi X e di raggi gamma, fotoni ad alta energia che possono interagire con i costituenti della materia biologica producendo danni anche molto estesi a seconda della loro quantità: lo sappiamo bene, anche solo perché ricordiamo i cartelli esposti quando andiamo a farci una radiografia (che produce raggi X in quantità comunque irrilevante per la salute umana). Anche il Sole e la radiazione cosmica bombardano il nostro pianeta con grandi quantità di energia sotto forma di radiazione X e raggi gamma, ma non ce ne curiamo perché la Terra gode di una protezione naturale derivante dalla sua spessa atmosfera e soprattutto dallo strato di ozono atmosferico.
Le supernove che sono state finora osservate nella nostra galassia erano tutte sufficientemente lontane dalla Terra da non costituire alcun rischio. Quella di Tycho Brahe era distante tra gli 8000 e i 9000 anni luce. La più vicina, quella osservata dai monaci di San Gallo e dagli astronomi cinesi, distava pur sempre oltre 4000 anni luce. Sembra che circa undicimila anni fa l’emisfero australe sia stato sconvolto dall’apparizione di una supernova di luminosità estrema, probabilmente maggiore di quella della Luna piena. All’epoca non esisteva nemmeno la scrittura, per cui nessuno poté lasciarci testimonianze di quello straordinario spettacolo. Oggi ciò che resta di quella supernova è una pulsar, una potentissima sorgente di onde radio ma anche di raggi X e gamma. Questa supernova distava circa 1500 anni luce dalla Terra, e ciò spiega perché gli astrofisici sono convinti che quando esplose la sua luminosità fosse particolarmente intensa. Anche in quel caso, tuttavia, non produsse alcun danno agli esseri viventi sul nostro pianeta. Non tutto ciò che quella supernova ha espulso è arrivato già dalle nostre parti: il guscio più esterno di gas continua ad allargarsi dal nucleo della pulsar a velocità molto lente rispetto a quelle della luce e si trova attualmente a 800 anni luce dalla Terra. Si stima raggiungerà il nostro sistema solare tra non meno di 4000 anni, ma non avremo nulla di cui preoccuparci: sarà un innocuo sbuffo di gas che solo gli astrofisici del futuro potranno rilevare con i loro strumenti.
La domanda è: quanto vicina dev’essere una supernova, per costituire un serio rischio per la vita sulla Terra? Partiamo da una sicurezza: esiste una “zona rossa” con un raggio di 50 anni luce dal nostro sistema solare, all’interno del quale una supernova si trasformerebbe da straordinario spettacolo pirotecnico in un evento apocalittico. Per supernove così vicine, lo strato di ozono non sarebbe in grado di deflettere tutta la radiazione estremamente energetica che ci colpirebbe alla velocità della luce. Per metterci l’anima in pace, si tratta solo di capire se ci sono stelle comprese in questa “zona rossa” che possono diventare supernove. Siamo certi di conoscerle tutte, perché anche se ignorassimo la presenza di stelle molto flebili, soprattutto nane rosse, nelle vicinanze della Terra, certamente conosciamo tutte le stelle con una massa di almeno 1,4 masse solari (il cosiddetto “limite di Chandrasekhar”), cioè circa una volta e mezza il nostro Sole. Al di sotto di tale massa, infatti, alla fine della sua vita la stella non esploderà in supernova, ma seguirà il destino del nostro Sole: un’espulsione di massa esterna di portata piuttosto blanda che, come vedremo nel secondo capitolo, non produce effetti all’esterno del proprio sistema. Tuttavia, anche una massa più che doppia rispetto a quella del Sole è ancora poca roba. Secondo alcune stime, per preoccuparci dovremmo considerare stelle con una massa perlomeno otto volte quella del Sole. Ebbene, nessuna delle stelle nel raggio considerato arriva a questi livelli.
Questo ci rassicura sul futuro, ma pone qualche interessante quesito sul passato. C’è qualche possibilità che, nei quattro miliardi di anni che ci precedono, la Terra sia stata interessata da una vicina esplosione di una supernova? In uno studio del 1995 i fisici John Ellis e David Schramm (il primo del Cern di Ginevra, il secondo del Fermilab di Chicago) affrontarono l’ipotesi che una o più esplosioni di supernove vicine abbiano potuto produrre estinzioni di massa in ere passate sulla Terra. Nei loro calcoli essi stimano, innanzitutto sulla base della popolazione stellare nota nella galassia, che supernove che possono produrre qualche effetto sulla Terra esplodono in media ogni 70-240 milioni di anni. I entrambi i casi, comunque, ci sarebbe stata almeno una, e probabilmente più di un’esplosione di supernove vicine nel corso dell’eone Fanerozoico, l’attuale eone iniziato circa mezzo miliardo di anni fa. Queste esplosioni di supernove possono spiegare una delle “big 5”, le cinque grandi estinzioni di massa verificatesi nel corso dell’eone Fanerozoico? I due studiosi credono che l’ipotesi non possa essere esclusa. I loro calcoli dimostrano che un’esplosione di supernova nel nostro vicinato possa aver distrutto lo strato di ozono, esponendo gli organismi viventi sia terrestri che marini a un bombardamento di radiazione ultravioletta potenzialmente letale. Ad essere particolarmente colpiti sarebbero gli organismi che svolgono la fotosintesi, tra cui il fitoplancton. La maggior parte delle specie viventi, dunque, non verrebbe uccisa direttamente dalle radiazioni, ma dalla crescente scarsità di cibo e dal cambiamento ambientale: in un arco di tempo di trecento anni, la Terra andrebbe incontro a un repentino effetto serra, con un severo innalzamento delle temperature a causa dell’aumento di anidride carbonica dovuto all’indebolimento del processo fotosintetico. Altri studiosi parlano invece di un potenziale cosmic ray winter, un “inverno da raggi cosmici” (per parafrasare lo scenario dell’inverno nucleare), che quindi provocherebbe non un rialzo ma un rapido crollo delle temperature a causa dell’aumento della copertura nuvolosa del pianeta. Questa tesi si basa sulla considerazione che i raggi cosmici abbiano un effetto sulla formazione delle nubi, per cui un significativo aumento delle quantità di particelle altamente energetiche provenienti dallo spazio avrebbe l’effetto di trasformare il pianeta in un’unica grossa “palla di neve”.
Nel loro studio, Ellis e Schramm suggerivano di cercare eventuali tracce di passate esplosioni di supernove vicine sia nello spazio che sulla Terra, attraverso la ricerca di indizi che indicherebbero che in passato il nostro pianeta è stato investito dall’onda d’urto di una di queste stelle morenti. Lo stesso John Ellis, quattro anni dopo, firmava con Brian Fields, astronomo dell’Università dell’Illinois, un paper nel quale venivano prese in considerazione tracce di alcuni isotopi nei sedimenti dei fondali oceanici che potrebbero provenire da esplosioni di supernove: nel corso delle ultime, concitate fasi di fusione nucleare, nel nucleo delle grandi stelle vengono rapidamente sintetizzati tutti gli elementi più pesanti del ferro, poi espulsi nello spazio durante l’immane esplosione. Se il guscio di gas proiettato all’esterno della supernova raggiunge la Terra quando ancora non si è del tutto disperso negli abissi interstellari, parte di questi elementi potrebbero essere individuati negli strati geologici passati. Significative quantità dell’isotopo ferro-60 in alcuni depositi sottomarini potrebbero avere come unica spiegazione, secondo gli studiosi, l’origine extraterrestre: una supernova entro un raggio di 30 parsec sarebbe esplosa alcuni milioni di anni fa, e l’esplosione avrebbe investito la Terra provocando la caduta sul nostro pianeta di questo isotopo.
Per trovare la prova definitiva di una correlazione tra estinzioni e catastrofi
stellari, abbiamo bisogno che gli indizi raccolti sulla Terra siano corroborati da una “pistola fumante” nello spazio. Un residuo di una supernova vicina, per esempio. Nel 2001 Jesus Maiz-Apellaniz dello Space Telescope Science Institute di Baltimora ha individuato un potenziale candidato. Tra i 380 e i 470 anni luce dal nostro sistema solare esiste un insieme di stelle molto giovani, con pochi milioni di anni alle spalle, probabilmente nate tutte da una stessa nebulosa. Gruppi di stelle del genere sono noti come “associazioni OB”, dalle lettere con cui gli astronomi identificano le classi spettrali di questa tipologia di stelle giovani. L’associazione Scorpius-Centaurus è la più vicina a noi. È composta da una miriade di stelle, nate tutte da una stessa enorme nebulosa-madre, alimentata dai materiali di antiche esplosioni stellari. Una di queste esplosioni, in particolare, sarebbe occorsa circa tre milioni di anni fa. E poiché, come si è visto, un’estinzione minore ma con particolari ricadute sul fitoplancton è avvenuta sulla Terra circa nello stesso periodo, i conti sembrano tornare. Qualche anno dopo sia John Ellis che Brian Fields confermavano la correlazione tra l’ipotesi supernova e i depositi di ferro-60 sui fondali oceanici risalenti a tre milioni di anni. I due scienziati notano che, nell’arco di tempo durante il quale i resti della supernova avrebbero colpito il nostro pianeta, si sono verificate alcune estinzioni minori: in particolare una circa 13 milioni di anni fa, durante il medio Miocene, e un’altra più ridotta circa 3 milioni di anni fa, nel corso del Pliocene. Le evidenze geologiche e biologiche includono una forte riduzione dello zooplancton e del fitoplancton, con conseguente estinzione di diverse specie di animali che si cibavano di plancton. Incrociando queste prove con l’ipotesi supernova, tutto lascia ipotizzare che in almeno uno di questi due casi l’onda d’urto della supernova abbia spazzato via lo strato di ozono esponendo la Terra al bombardamento ultravioletto.
C’è però un “ma”: per quanto relativamente vicina, l’associazione Scorpius-Centaurus è comunque ben al di fuori della zona rossa. In teoria, non dovremmo preoccuparsi di possibili supernove a una tale distanza di sicurezza. Tuttavia, gli astronomi hanno calcolato che le stelle del gruppo hanno un moto di recessione rispetto al Sole di circa 25 chilometri al secondo. Questo vuol dire che, a conti fatti, la supernova che cerchiamo era, tre milioni di anni fa, più vicina a noi di 200 anni luce. Comunque oltre la zona rossa, certo, ma abbastanza vicina da colpire duramente la vita sulla Terra. Non stiamo parlando di un’estinzione di massa, ma di un danno alla biosfera causato probabilmente da una temporanea dissoluzione dello strato di ozono. Ciò ci spinge a considerare la necessità di individuare, oltre a una zona rossa, anche una “zona arancione” all’interno della quale una supernova potrebbe, se non estinguere la vita sul nostro pianeta, metterla comunque a repentaglio. Quant’è grande questa “zona arancione”?
Per farci un’idea, vale la pena considerare uno studio più recente che compara i presunti tassi di esplosione di supernove locali con fenomeni geologici come le variazioni del livello dei mari. Secondo Henrik Svensmark del National Space Institute di Copenhagen, supernove vicine avrebbero avuto un ruolo decisivo nei cambiamenti climatici che hanno caratterizzato la storia del nostro pianeta negli ultimi 500 milioni di anni. I climatologi conoscono abbastanza bene le variazioni climatiche che la Terra ha subito nel corso dell’ultimo eone. Ciò che Svensmark ha fatto è di comparare queste epoche di forte variabilità, che durano diecimila o anche centomila anni, con i dati ottenuti dai suoi calcoli sul tasso di supernove nel nostro vicinato galattico. L’indicatore usato è quello della regressione marina, che avviene quando il mare si ritira ed espone il suo fondale all’aria aperta. Questi fenomeni sono ricostruibili attraverso lo studio dei fondali, che nelle epoche in cui si trovano liberi dalle masse d’acqua sovrastanti vengono coinvolti dagli stessi eventi della terraferma (alluvioni e altri eventi che provocano l’accumulo di sedimenti). È difficile spiegare a livello geologico alcune delle regressioni marine più rilevanti. Quella del Mediterraneo è facilmente spiegabile, dato che anche oggi la chiusura dello Stretto di Gibilterra avvierebbe un graduale processo di essiccamento del mare. Fenomeni in cui il livello del mare cala di oltre 25 metri sono di solito spiegati tirando in causa la formazione di grandi calotte di ghiaccio a velocità molto rapide. Comparando questi eventi alle previsioni riguardo le esplosioni di supernove vicine, emerge una covarianza abbastanza evidente (fig. 1).
A questo punto, dobbiamo cominciare a capire quante candidate a future supernove si trovano all’interno della presunta “zona arancione”. Abbiamo già escluso la possibilità di stelle candidate nell’arco di 50 anni luce, ma se estendiamo questo raggio troviamo in effetti qualche problema. La candidata più vicina è stata individuata nel 2002 da una studentessa di Harvard. Qualcuno si chiederà perché HR 8210, o IK Pegasi, non sia stata individuata prima. La stella in questione è in realtà una nana bianca, che ha esaurito il suo combustibile e non è individuabile attraverso i normali telescopi, ma rilevabile grazie alla produzione di energia in altre bande elettromagnetiche e al suo effetto gravitazionale. Una nana bianca non può esplodere in una supernova. I processi di fusione nucleare al suo interno sono terminati e non può avvenire la devastante reazione a catena che provoca il letale “canto del cigno” di una grande stella. Il problema è che questa nana bianca non è sola. Si trova in un sistema binario con un’altra stella di massa simile a quella del Sole. Addizionando le due masse, viene fuori un totale che è poco al di sopra del limite di Chandrasekhar. Questo vuol dire che, quando la stella compagna comincerà a esaurire il suo combustibile e a ingrandirsi fino ad arrivare alla condizione di gigante rossa, ingloberà al suo interno la nana bianca. A quel punto la massa totale avrà superato il limite fatidico, per cui tutta la vicenda si concluderà con l’esplosione di una supernova.Non necessariamente tali eventi sono collegati a estinzioni di massa. Sicuramente, un’improvvisa glaciazione non favorisce lo sviluppo della biodiversità; ma durante le ere glaciali, la vita è comunque sopravvissuta. Anche l’evoluzione del genere Homo è proseguita, tra qualche difficoltà. Questo vuol dire due cose: che da un lato l’esposizione della Terra ai residui di una supernova non è necessariamente letale; ma che, d’altra parte, anche supernove molto lontane – qui parliamo di un raggio di ben 300 parsec, dunque oltre 900 anni luce – potrebbero avere un impatto in termini di repentini cambiamenti climatici.
Non stiamo comunque parlando di cose che possono avvenire dall’oggi al domani. Il sistema binario appare effettivamente instabile ed è probabile che l’avvio della fase di espansione della stella compagna di HR 8210 non sia molto lontano nel tempo. Ma, considerati i tempi astronomici, questo potrebbe voler dire anche diversi milioni di anni. In effetti, i calcoli effettuati dall’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics in seguito alla scoperta del pericoloso sistema binario parlano di almeno un centinaio di milioni di anni o giù di lì. Possiamo quindi dormire sonni tranquilli, ed è una fortuna visto che la stella si trova ad appena 150 anni luce dalla Terra, quindi ben all’interno della “zona arancione”.
L’altro rischio è collegato alle ipernove. Cosa produce questi mostri stellari? Dobbiamo avere una stella di massa almeno 30 volte quella del Sole, che nel momento del collasso gravitazionale conseguente all’esaurimento del suo combustibile nucleare finisce per contrarsi al punto da produrre istantaneamente un buco nero. La produzione di un buco nero, nelle supernove ordinarie, avviene dopo un certo tempo, non istantaneamente dopo l’esplosione. Qui, invece, si avrebbe un’immediata formazione di un buco nero nel nucleo di quello che fino a poco prima era una stella gigantesca, capace di attirare in poco tempo buona parte della materia del sistema solare in cui si trova. Ai poli opposti del nucleo collassato della stella vengono emessi due getti estremamente concentrati di fotoni gamma, che costituiscono la traccia di energia individuabile dagli astronomi. Queste cosiddette collapsar, che producono un’ipernova, sono fortunatamente molto rare. Secondo alcune stime, ne esploderebbe una nella nostra galassia ogni 200 milioni di anni in media. Ma non abbiamo solidi elementi a conferma di questa stima.
Per capire quanto vicina dev’essere un’ipernova per crearci qualche grattacapo dobbiamo prendere in considerazione un’altra tipologia di eventi di straordinaria potenza, collegati alle ipernove. Il 2 luglio del 1967 due satelliti Vela, messi in orbita dagli Stati Uniti per monitorare l’osservanza del trattato per il bando dei test nucleari, individuarono un picco anomalo di raggi gamma. Sembrava proprio una delle firme di un’esplosione nucleare, che nella detonazione rilascia una gran quantità di fotoni ad alta energia. Ma qualcosa non tornava. Per esempio, non vennero individuate quantità di radiazioni superiori alla norma nelle aree dove si riteneva fosse stato effettuato il test nucleare clandestina. La notizia rimase segreta, soprattutto perché a quel primo segnale se ne aggiunsero altri. Alla fine, quando in totale erano stati raccolti 16 picchi di raggi gamma, gli scienziati di Los Alamos esclusero una loro origine terrestre. Non solo: la fonte sembrava bel lontana dal nostro sistema solare. Nasceva così l’enigmatica storia dei gamma-ray burst (GRB), o lampi gamma.
Oggi i GRB sono attentamente studiati da diversi satelliti e da un esercito di
astrofici, ma non ci sono ancora certezze sulla loro origine. Quel che sappiamo per certo è che tutti i lampi che sono stati osservati provengono da galassie molto distanti, in alcuni casi lontane miliardi di anni luce. Ciò ha portato a corroborare la tesi secondo cui tali lampi sarebbero il prodotto del collasso di materia all’interno di enormi buchi neri annidati al centro di antichissime galassie. La Via Lattea e probabilmente tutte le altre galassie possiedono enormi buchi neri al loro centro. Quando oggetti molto massicci, come per esempio le nane bianche o le stelle di neutroni, che sono estremamente dense, cadono nelle grinfie dell’attrazione gravitazionale di questi mostri giganteschi, emetterebbero un’intensa energia sotto forma di fasci di raggi gamma estremamente concentrati che mantengono la loro energia a scale enormi. Le grandi distanze rendono questi eventi, i più violenti dell’universo conosciuto, del tutto innocui. Anche se non ne è stato ancora osservato nessuno, non è però escludere l’ipotesi di GRB provenienti dall’interno della nostra galassia. E questo cambierebbe un pochino il quadro.
Difatti, gli astrofisici ritengono che, per quanto rari, eventi come la caduta di stelle di neutroni all’interno di buchi neri presenti nella Via Lattea non vadano esclusi. È vero, finora non ne abbiamo mai osservati. Ma potremmo rilevare degli indizi su GRB avvenuti in passato. Nel 2004 un satellite della NASA, Chandra, un vero e proprio osservatorio per l’analisi delle fonti di raggi X sparse nell’universo, individuò a 35.000 anni luce dal nostro sistema solare quelli che oggi si ritengono essere i resti di un GRB avvenuto all’interno della galassia. Si tratta di una nebulosa, catalogata come W49B, che pare essere il residuo dell’esplosione di una supernova con una singolare produzione di raggi X e gamma. È da escludere che da quelle parti vi sia un buco nero, perciò secondo i più recenti studi la stella che è collassata doveva essere un particolare tipo di supernova, di tipo Ib o Ic, che si caratterizza per la perdita del suo strato esterno di idrogeno prima del collasso finale. Ciò avviene perché solitamente lo strato di gas più esterno viene risucchiato da una stella compagna. La supernova in questione genera anche un GRB lungo l’asse di rotazione della stella, e la nebulosa W49B sarebbequindi sia il primo esempio di un’antica supernova di questo tipo nella nostra galassia che il primo caso di una fonte di lampi gamma internamente alla Via Lattea.
Potrebbe però esserci stato qualcosa anche più vicino a noi. Abbastanza vicino da colpire la Terra e produrre lo stesso effetto di un’esplosione ravvicinata di una supernova. Un fisico dell’Università del Kansas, Adrian Melott, e il suo gruppo di ricerca, che include anche tre astrofisici del centro Goddard della NASA, ritiene che 440 milioni di anni fa un GRB proveniente da molto vicino – astronomicamente parlando – ossia circa 6000 anni luce abbia investito la Terra causando un’estinzione di massa. L’estinzione del tardo Ordoviciano fu la seconda più grande estinzione di massa dopo quella del Permiano. Il 60% delle specie marine scomparve. Dopo una fase piuttosto calda sul nostro pianeta, le temperature crollarono e iniziò una rapida glaciazione che produsse tra le sue conseguenze un drastico calo del livello del mare. Ormai avrete imparato ad associare questi eventi alla possibile conseguenza della distruzione dello strato di ozono con conseguente esposizione della Terra ai raggi cosmici. Questa tesi è ancora troppo prematura, e gli studiosi delle estinzioni di massa continuano a prediligere l’ipotesi di una causa endogena per l’evento del tardo Ordoviciano (soprattutto una serie di violente eruzioni vulcaniche). Ma la causa esogena, cioè extraterrestre, non è da escludere.
Nel caso dei GRB, l’ordine di grandezza delle energie coinvolte rende evidente la necessità di individuare una “zona gialla”, più ampia certo della zona rossa e di quella arancione, ma anche legata a una probabilità molto più bassa che un evento al suo interno possa estinguere la vita sulla Terra. Le stime riguardo l’ampiezza di tale zona di rischio variano tra i 6500 e i 10.000 anni luce e la frequenza di eventi apocalittici, in cui cioè il fascio di un GRB sia puntato proprio in direzione della Terra, è stata calcolata in circa 1 evento ogni 700 milioni di anni. Questo dovrebbe farci tirare un sospiro di sollievo, almeno se ragioniamo in termini meramente statistici: se è vero che l’ultimo evento estintivo legato a un GRB è avvenuto nel tardo Ordoviciano, dunque 440 milioni di anni fa, per i prossimi 200-300 milioni di anni la probabilità di essere fritti da un lampo gamma proveniente dall’interno della nostra galassia resterà piuttosto trascurabile.
Tuttavia, scoperte molto recenti dimostrerebbero che il nostro pianeta è stato investito da un GRB solo pochi secoli fa. Se siamo qui a raccontarlo, vuol dire ovviamente che non si trattava di un lampo di energia tale da compromettere la nostra esistenza. Ma l’evento, se confermato, porterebbe a rivedere alcune nostre convinzioni. La storia è la seguente: nel 2011, un’équipe giapponese diretta da Fusa Myake, fisico delle alte energie della Nagoya University in Giappone, scopre che in alcuni cedri rossi giapponesi vecchi di migliaia di anni si trovano livelli insoliti di carbionio-14, un radioisotopo la cui presenza in natura può variare, in un anno, al massimo dello 0,05%, mentre in questo caso negli anelli risalenti all’VIII secolo dopo Cristo la percentuale è venti volte maggiore rispetto alla norma. Un fallout radioattivo in pieno medioevo? Data l’alta improbabilità dell’ipotesi, non resta che guardare al cielo. Quando i raggi cosmici colpiscono gli strati più esterni dell’atmosfera, gli atomi di azoto che si trovano lassù si legano con i neutroni provenienti dallo spazio formando il carbonio-14. Legandosi all’ossigeno, il carbonio forma l’anidride carbonica che, nella sua versione contenente il radioisotopo in questione, viene assorbita dalle piante nella fotosintesi. È quindi possibile trovarne tracce nelle piante secolari, come in questo caso.
Al gruppo di Myake non sfuggiva un particolare decisivo. Nel 2008, dei loro colleghi avevano rinvenuto in una carota di ghiaccio in Antartide – un campione del sottosuolo ghiacciato del Polo Sud, che permette di ricostruire la storia geologica della Terra – livelli eccezionali di berillio-10 risalenti più o meno alla stessa epoca: il 775 d.C. circa. Berillio-10 e carbonio-14 forniscono insieme due indizi significativi a favore dell’ipotesi che una violenta doccia di raggi gamma abbia colpito la Terra in quell’epoca. Il primo indiziato è stato il Sole. Un potentissimo brillamento solare potrebbe aver prodotto un’emissione di raggi gamma tale da produrre la “cascata” di radioisotopi sulla Terra. Ma la tesi è stata rapidamente abbandonata, per via delle elevatissime energie in gioco: il Sole avrebbe davvero dovuto dare spettacolo all’epoca, abbastanza da meritarsi un posto nelle cronache medioevali (spettacolari aurore boreali alle basse latitudini, visibili anche in Cina, dove – a differenza dell’Europa – in quell’epoca si tenevano registri astronomici, non sarebbero passati inosservati).
A questo punto l’unica possibilità era scrutare il cielo in cerca di “pistole fumanti”. Supernove, innanzitutto. L’ipotesi non è da scartare a priori: se una supernova fosse apparsa all’epoca nell’emisfero australe, non ci sarebbe stata nessuna civiltà sufficientemente sviluppata da documentare l’evento. Qualche settimana dopo la pubblicazione dello studio su Nature, uno studente di biochimica dell’Università della California a Santa Cruz inviò una lettera al prestigioso settimanale suggerendo un possibile indizio a favore dell’ipotesi della supernova. Sfruttando un archivio online di antichi documenti realizzato dall’Università di Yale, il giovane studente aveva scoperto che nella Cronaca anglosassone redatta alla fine dell’XI secolo durante il regno di Alfonso il Grande in Inghilterra c’è un riferimento specifico a un misterioso “crocifisso rosso” apparso nel cielo subito dopo il tramonto nell’anno 774. Potrebbe trattarsi dello spettro di una supernova, passata perlopiù inosservata per la sua posizione nel cielo che la rendeva difficile da osservare, se non al tramonto? L’interpretazione delle antiche cronache medievali non è semplice, ma la tesi suggestiva ha colpito diversi studiosi.
Resta il fatto che il picco davvero notevole di radioisotopi registrato potrebbe essere correlato solo a un evento di elevata intensità, per cui una supernova ordinaria è tendenzialmente da escludere, dato che sarebbe stata ben più visibile e avrebbe comunque lasciato una traccia evidente come sorgente di raggi X individuabile dalle moderne strumentazioni che scandagliano il cielo in questa banda. Due studiosi dell’Astrophysikalisches Institut dell’Università di Jena hanno puntato il dito su una sorgente GRB che, calcolatrici alla mano, stimano distante tra i 3000 e i 12.000 anni luce. Ma un momento: non ci troviamo, almeno per buona parte, all’interno della pericolosa “zona gialla”? Dipende dalla tipologia del fenomeno. Gli astrofisici di Jena confermano la stima di una pericolosità letale per GRB in un raggio di circa 6000-7000 anni luce che colpiscano direttamente la Terra. Ma stiamo parlando dei più comuni lampi gamma, i cosiddetti GRB lunghi.
Esiste però una seconda tipologia, più rara, di lampi che durano un paio di secondi appena, e che pertanto sono definiti GRB corti. L’energia che producono è inferiore, per cui potrebbero anche avvenire a distanze minori rispetto alla Terra senza mettere a rischio la biosfera. Anche se nessun evento del genere è finora stato individuato nella nostra galassia, il fenomeno che ha prodotto il picco dell’anno 775 potrebbe essere proprio un GRB corto in un raggio interno alla zona gialla. I due astrofisici stimano infatti che il rischio estintivo di un GRB corto sia nullo oltre i 3500 anni luce circa. Cosa produce questo tipo di lampi gamma? Non si sa ancora con certezza, ma sicuramente si tratta di eventi che coinvolgono mostri cosmici: una fusione tra stelle di neutroni, o tra due nane bianche, o tra uno di questi ultimi due e un buco nero. Simili collisioni producono un getto di raggi gamma ad altissima energia per poche frazioni di secondo, che potrebbero aver colpito la Terra in questo caso specifico. Analisi degli alberi plurisecolari dimostrerebbero che questo sia stato l’unico caso negli ultimi 3000 anni. Che tasso di frequenza possa avere un simile fenomeno, non è possibile stabilirlo con certezza. Se ne venissimo colpiti oggi, di certo sopravvivremmo come sono sopravvissuti i nostri antenati. Ma i satelliti in orbita geostazionaria intorno alla Terra andrebbero in tilt, provocando grossi contraccolpi alla nostra civiltà. E questo ci porta a riflettere su quanto la nostra civiltà tecnologica sia molto più vulnerabile rispetto al passato alle minacce provenienti dallo spazio.
La Nova del Delfino fotografata dal Virtual Telescope (fonte: Gianluca Masi, The Virtual Telescope Project 2.0)
Nuova luce in costellazione del Delfino, diretta dalle 22,00. (19.8)
E’ ben visibile dall’Italia l’esplosione stellare di agosto: una nuova luce si è accesa nella costellazione del Delfino, distante circa 97 anni luce dalla Terra e si può osservare a destra di Vega, una delle stelle più brillanti del cielo di agosto ed uno dei vertici del cosiddetto Triangolo Estivo insieme ad Altair e Deneb. Approfittando della graduale uscita di scena delle stelle cadenti, la stella è la nuova protagonista delle notti di agosto.
La scoperta, fatta dall’astrofilo giapponese Koichi Itagaki, è stata immediatamente confermata da più gruppi nel mondo e descritta in dettaglio dal gruppo italiano del Virtual Telescoper, coordinato dall’astrofisico Gianluca Masi e del quale fanno parte Francesca Nocentini e Patrick Schmeer. ‘’Si tratta di una Nova – spiega Masi – e attualmente brilla intorno alla magnitudine 4 - 4.5, dunque è visibile già ad occhio nudo, purché si osservi da fuori città''. Ma anche con il disturbo delle luci, aggiunge, è sufficiente un binocolo per vederla. Appassionati del cielo e associazioni di astrofili la stanno già fotografando. Per localizzarla più facilmente sono di aiuto le mappe celesti pubblicate dall'Unione Italiana Astrofili (Uai) e le mappe del Virtual Telescope.
A differenza di una Supernova, che è l’esplosione devastante che distrugge definitivamente una grande stella (o un sistema di due stelle) giunta alla fine della sua vita, una Nova come quella visibile in questi giorni è il frutto di un’esplosione non distruttiva. Le osservazioni condotte dall’Italia, spiega Masi, hanno permesso di capire che ''l’esplosione della Nova del Delfino è stata generata da un sistema di due stelle, una delle quali è una nana bianca''. Quest’ultima è stata gradualmente rifornita di idrogeno dalla compagna e ciò ha generato una forte instabilità che ha portato all’esplosione''. Contrariamente a quanto accade nell’esplosione delle Supernovae, in questo caso non è avvenuta nessuna distruzione irreparabile e il 'cuore' del sistema stellare è rimasto intatto.
La comparsa della stella di agosto non è solo una curiosità estiva: ''fenomeni di questo tipo – rileva Masi – permettono di vedere al lavoro meccanismi altrimenti impossibili da osservare, come quelli che permettono di comprendere nel dettaglio un’esplosione stellare''.
Per saperne di più è possibile seguire l’osservazione della Nova del Delfino condotta da Gianluca Masi in diretta streaming sul canale ANSA Scienza e Tecnica con il Virtual Telescope. L’evento, in italiano e in inglese, è in programma lunedì 19 agosto alle ore 22,00 e la durata prevista è di 90 minuti.