domenica 28 ottobre 2012

Roba da Pdl!



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Siciliani! Nel nome di Luigi, Salvatore e Leonardo: regalateci un'utopia. - Sergio Di Cori Modigliani


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
(Salvatore Quasimodo)




Va presa molto alla lontana, perché noi italiani veniamo da lontano.
La novità geo-politica del momento viene dal continente americano, dall’altra parte  dell’Oceano Atlantico, soprattutto dal Sudamerica.
Noi europei, e soprattutto noi italiani, siamo in netto ritardo con gli appuntamenti della Storia. Gli americani (dal Canada al polo sud) hanno un grande vantaggio su di noi: sono giovani, dinamici, vivono proiettati nel futuro. Sono più leggeri, e quindi più coraggiosi, sfrontati, azzardano di più, cercano meno sicurezze, perché vogliono crescere in maniera spensierata. Noi, invece, ci portiamo appresso l’inevitabile peso del fardello dei millenni che ci hanno preceduto. Ma abbiamo un unico grandioso vantaggio, ed è su quello che dobbiamo puntare: il grandioso rovescio dovizioso di quella pesante medaglia. Perché dalla Storia, o ci si fa travolgere dal suo impietoso peso, oppure se ne traggono delle succose verità, esperienze, precedenti, suggestioni, bussole, mappe psico-geografiche collaudate nei lungi secoli che ci hanno preceduto.
Su questa prospettiva, ancora una volta, la Storia d’Europa si ripresenta fedele a se stessa. Parliamo qui dell’esito delle elezioni regionali in Sicilia il 28 ottobre.
Perché tutto ciò che ha determinato il destino dell’Italia è nato sempre prima in Sicilia.
Davvero un affascinante destino. Forse questo è il “Senso di essere un’isola”.
Come la Gran Bretagna per ciò che riguarda l’Europa continentale del settentrione.
La Sicilia è stata sempre l’avanguardia dei più importanti sommovimenti politici e culturali non soltanto negli ultimi 50 anni, bensì negli ultimi 2500 anni.
Quando l’Europa era ancora semi abitata, nel V. secolo avanti Cristo, e le popolazioni erano per lo più composte da piccole tribù locali la cui attività principale consisteva nel sopravvivere alla meglio, nell’isola siciliana,  gli abitanti, il giovedì sera, si radunavano a Segesta e Selinunte per  andare a godersi lo spettacolo colto della rappresentazione teatrale delle tragedie scritte da Eschilo e Sofocle. Dopo essersi sfogati in disperati pianti collettivi, ritornavano nelle piazze affollate a mangiare e ballare insieme,  dove rimanevano alzati fino a notte fonda a discutere sul Senso dell’esistenza. E da lì, poco a poco, famiglie dinamiche con il gusto del viaggio e dell’esplorazione, cominciarono a risalire la penisola, portandosi appresso i primi germi del dna culturale depositato in quella terra feconda che gli storici chiamano, da sempre, Magna Grecia.
La Sicilia, dopo l’affermazione dell’impero romano, divenne il centro propulsivo dell’incontro e scambio, sia commerciale che culturale, delle etnie e mercanti che provenivano dall’Africa, dall’Asia Minore e dagli imperi persiani e indiani. La Sicilia fu l’avamposto strategico, sia militare che culturale, dell’imperialismo romano. E fu la prima zona d’Europa a essere contaminata dal cristianesimo, già intorno al 50  dopo Cristo. Lì avvennero le prime grandi rivolte contro l’impero centrale di Roma per la ribellione e rivolta degli esattori locali che intorno alla fine del III secolo cominciarono a protestare con sempre maggiore virulenza. E quando crollò l’impero, nel 476, la Sicilia fu l’unica a non essere invasa dai barbari che provenivano dall’Europa dell’est, mantenendo la propria autonomia e indipendenza, posizionandosi come una delle zone più ricche e dinamiche dell’intero bacino del Mediterraneo. Per centinaia di anni, l’Europa venne attraversata da orde di barbari aggressivi che distrussero e devastarono tutto ciò che trovavano. A Roma, intorno all’anno mille, abitavano non più di 20.000 persone, per lo più pastori di greggi, piccoli contadini, e non esisteva nessun tipo di attività, nessun rapporto con il mondo esterno, mentre in Sicilia il fermento dei nuovi tempi produceva già i primi cambiamenti di una nuova epoca e di lì a breve avrebbe prodotto quella che i sociologi e gli antropologi inglesi definiscono “la più grande rivoluzione culturale mai verificatisi in Europa negli ultimi 1000 anni” prodotta e guidata da una poderosa nuova classe intellettuale siciliana. E’ stato in Sicilia che è nato l’Umanesimo, poi diffuso in Toscana. E’ stato in Sicilia, intorno al 1260, che è stato gettato il germe del “dolce stil novo” che ha completamente capovolto l’immaginario collettivo dell’epoca, dando vita alla costruzione di una civiltà europea evoluta e colta. Lo stesso Dante Alighieri riconobbe la paternità siciliana del movimento, piazzando il suo leader e fondatore nel Purgatorio, dove ne parla in maniera davvero eccelsa. Fu un siciliano a gestire e cambiare completamente la prospettiva dell’idea del mondo in quell’epoca. Si chiamava Jacopo da Lentini e di professione faceva il notaio, ma in Sicilia era stato “formalmente” eletto come responsabile rappresentante di Federico II di Svevia, l’unica personalità che allora contava, in un’Europa spenta e addormentata. Grande viaggiatore curioso, aveva portato in Sicilia la tradizione del canto provenzale, e aveva introdotto tra i nobili dell’epoca il ritorno all’esercizio della cultura e delle arti lanciando il primo programma mai inventato sulla Terra di istruzione di massa. Cambiò la coscienza collettiva perché modificò gli status symbol: il più nobile e rispettato non era più colui che aveva più terre e più ricchezze, bensì colui che riusciva a diffondere il più alto grado di istruzione tra i propri schiavi dipendenti, i quali avevano la possibilità di guadagnarsi la promozione sociale sulla base di un merito culturale e scientifico acquisito. Se andate a Stratford on Avon, all’ingresso del museo locale destinato al Grande Bardo, trovate una curiosa placca accanto a un foglio originale dell’epoca “A Jacopo da Lentini, con eterna gratitudine, per avere inventato il sonetto d’amore”, firmato William Shakespeare. Risale a quei tempi l’amore per la Sicilia da parte degli inglesi.
Jacopo da Lentini inventò la poesia moderna, il sonetto, la ballata, la canzone d’amore, e codificò il concetto di galanteria “inventando” la seduzione tra maschio e femmina e quindi penalizzando lo stupro – in una lettera al Papa lo definì un attributo del diavolo e un insulto all’umanità di ogni cristiano - denunciando l’applicazione dello jus primae noctis, e l’imposizione del matrimonio come norma giuridica che non presupponeva l’approvazione da parte della femmina, considerata priva di anima e di capacità legale di comprendonio. Essendo il notaio del Papa e di Federico II di Svevia, era il custode della Norma: cambiò i contratti di matrimonio istituendo l’attribuzione di facoltà sentimentali alle donne, creando un nuovo modello d’immaginario collettivo maschile: la donna andava conquistata con la poesia e non con la forza. Tutte le accademie europee sono d’accordo già da molto tempo nell’aver identificato in lui il più importante “rivoluzionario mediatico” (tanto per capirsi) dell’epoca, vera e propria avanguardia di un movimento di pensiero che avrebbe prodotto i primi germi dell’Italia. Non è azzardato sostenere oggi che “L’Italia è nata nel 1265 in Sicilia”. Jacopo scriveva in siculo (i sonetti e le canzoni) e in latino la corrispondenza con papi e re. Ma ben presto “inventò” una nuova lingua di comunicazione per aumentare la relazionalità tra popolo e aristocrazia: la vulgata, cioè la lingua italiana. La prima sintassi della nostra lingua è nata lì, sulle spiagge siciliane, 747 anni fa. Dante Alighieri e le corti toscane furono i grandi raccoglitori, i divulgatori di quel preziosissimo seme che il grande fiorentino ebbe la geniale intuizione, e l’indubitabile talento, di raccogliere e farlo proprio..
Pensare a un’Italia senza la Sicilia è inconcepibile: è la nostra patria legittima.
Siamo tutti figli della Sicilia, in quanto italiani.
Lì è nato militarmente il Risorgimento verso l’unità d’Italia, lì è nato il primo nucleo originario del movimento fascista, nel 1919, attraverso la costituzione dei primi nuclei di contadini che combattevano contro la prepotenza dei latifondisti sotto la sigla “fasci siciliani di combattimento”, e lì è nato anche il primo nucleo di resistenza contro i nazisti; lì è nato l’attuale mondo moderno governato dalla cupola planetaria, quando nel 1943 Franklin Delano Roosevelt, raccogliendo le pressioni del generale Eisenhower, chiuse un accordo strategico con Lucky Luciano per garantirsi la copertura territoriale da parte della mafia locale nello sbarco dei marines, per liberare l’Europa dai nazisti. Lì si misero le fondamenta dell’accordo Stato-Mafie, e la criminalità organizzata venne promossa e accolta all’interno del mondo finanziario globale delle banche. Tutto ciò che oggi succede, e a noi sembra una novità, è semplicemente una logica conseguenza di scelte strategiche planetarie condotte e realizzate allora. Da lì, dalla Sicilia, a metà degli anni ’40 si posero le prime pietre del nuovo ordine mondiale che si sarebbe dovuto costruire sulle ceneri dell’impero tedesco hitleriano: un mondo suddiviso in zone di influenza e di competenza, gestito da un’oligarchia nascosta e clandestina che avrebbe potuto usare la criminalità organizzata come proprio braccio armato, vero e proprio esercito consolidato nel territorio, in rappresentanza dei colossi finanziari appartenenti alle grandi dinastie del privilegio.    Ma già nel 1946, i siciliani, tutto ciò l’avevano capito. Così come avevano capito che l’avanguardia della lotta passava attraverso la lotta cruenta contro il latifondo e lo sfruttamento da parte dei padroni agrari. E lì, il nuovo potere democristiano al servizio dell’America business che investiva sull’Italia serva (il piano Marshall) usò subito la mafia come proprio braccio armato anti-sindacale. La strage di Portella delle Ginestre rimarrà sempre impressa nella memoria collettiva della nazione Italia, come la punta dell’iceberg delle intenzioni dei nuovi custodi dello status quo. Eppure, quelle vittime innocenti, autentici martiri di una lotta appena agli albori, non fu vana. Perché partì proprio dalla Sicilia l’inizio istituzionale del miracolo economico italiano. Fu nel febbraio del 1951, dopo un lunghissimo e franco colloquio tra Alcide De Gasperi e il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, che il leader democristiano si rese conto che l’Italia non sarebbe mai potuta entrare nella modernità se prima non fosse stata varata una gigantesca (e autentica) riforma agraria. E decise di accogliere il piano prospettato dai siciliani. Furono le lotte dei contadini siciliani e dei lavoratori edili a Gela, nel siracusano, nel messinese, che protestavano contro lo strapotere della nuova industria del cemento e del mattone, a dare il via alle grandi rivolte sindacali che poi infiammarono il paese, portando la nazione alla conquista di evoluti risultati nel campo del sacrosanto Diritto del Lavoro e Diritto al Lavoro. E fu sempre in Sicilia che iniziò la denuncia del consociativismo tra classe politica e mafia, di cui Pio La Torre prima, e Claudio Fava poi, divennero gli emblemi, entrambi assassinati. E fu lì, in Sicilia, il luogo in cui il nuovo ordine mondiale chiarì subito agli albori degli anni’70 –come mònito alla classe degli intellettuali e ai professionisti dei media- che i giornalisti ficcanaso che invece di aderire alle consegne dei partiti intendevano denunciarne la complicità con la mafia, sarebbero tutti finiti come Mauro de Mauro e nel decennio susseguente come Mauro Rostagno.  Lì avvenne la prima rivolta contro la dittatura del partitismo, già a metà degli anni’80, e per l’ennesima volta fu la mafia a prestare il proprio braccio militare per soffocare la rivolta nel sangue. E in Sicilia nacque l’humus che avrebbe poi determinato l’esplosione di tangentopoli, perché lì si inceppò il sistema, grazie alla centinaia di inchieste aperte dai siculi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che dal 1982 cominciarono a pestare senza tregua la corruzione locale, di cui scoprirono i tentacoli nelle affluenze derivate del settentrione, e ancora oltre. Senza i faldoni e i dossier delle loro precedenti inchieste, la Procura della Repubblica di Milano avrebbe potuto fare poco o nulla. Non è certo un caso fortuito che per Licio Gelli e la mala pianta dei piduisti fosse di strategica rilevanza promuovere subito ai più alti livelli “certi siciliani”.
Perché la Sicilia deve essere sempre “bonificata” prima, e i siciliani devono stare sotto il tallone di ferro proprio per impedire che germoglino, che prolifichino, che producano Cultura: è troppo forte la ricchezza del dna culturale locale, viene troppo da lontano e non può più essere sradicata, va semplicemente repressa e addormentata. E così, si sono susseguiti negli ultimi venti anni dei semplici ragionieri caporali, veri e propri “comandamenti” il cui compito consisteva nell’espoliare l’isola di ogni risorsa,  promuovere la nuova generazione criminale dentro al polmone finanziario settentrionale ed entrare in parlamento con gli avvocati siciliani per disossarlo di ogni funzione, in pratica abolendo ogni attività utile alla collettività.
Fino alla primavera del 2012.
Lì è di nuovo cambiato tutto.

Quando Mario Draghi ha ricevuto –in strettissimo riserbo- il rapporto confidenziale di Fitch e Standard & Poor’s in cui gli spiegavano che la Sicilia stava fallendo e la dichiarazione ufficiale del suo default avrebbe comportato una immediata reazione a catena sui mercati finanziari, prima quelli italiani,  la settimana dopo sarebbe toccato all’intera Europa. In poche settimane avrebbe finito per travolgere il continente: un buco di ben 9 miliardi di euro non sanabile.
Non sono riusciti a metterci una pezza.

Non è più possibile metterla, la pezza.
Hanno semplicemente rimandato la data.
La Sicilia, dallo scorso marzo, è già “tecnicamente” andata in default molto più profondamente della stessa Grecia, e gli analisti finanziari ne sono ben consapevoli.

E’ per questo che hanno indetto le elezioni: sono un referendum per cercare di capire “quanto” e “come” e “fino a dove” il popolo che vota ha capito il reale stato della situazione reale. Per sapere fino a dove possono arrivare impunemente.

Chiunque vinca tra Miccichè, Musumeci e Crocetta, sarà irrilevante, sono intercambiabili. Vincerà sempre e comunque Lombardo, il Grande Tessitore di sintesi in grado di saper interpretare e gestire gli interessi della BCE, dei grandi colossi finanziari, dell’attuale governo, dell’oligarchia fondiaria, dei rentier  parassitari siciliani e la criminalità organizzata delle grandi famiglie mafiose.

Ma se vince Grillo, l’onda d’urto la si sentirà fino alla Marmolada e fino alla cima del Monte Bianco.
Non perché Grillo, nel caso vincesse, abbia la benché minima possibilità di risolvere subito gli irrisolvibili problemi della Sicilia attuale, quanto piuttosto per il fatto che farà da diga, e l’ennesima emorragia sarà evitata, ai siciliani prima, e dopo qualche mese al resto del paese.
Non tanto per ciò che c’è nel programma di Beppe Grillo, quanto piuttosto per ciò che non c’è. Quello, davvero conta, e fa la differenza. Perché è la prima volta nella storia della Sicilia moderna che un leader politico e il movimento che lui rappresenta non offrono nulla. Perché sanno che non c’è nulla da offrire.
Chi vota per Grillo non otterrà mai neppure uno straccio di lavoro, nessun grillino, infatti, ha proposto lo scambio attraverso i suoi clientes. Ma se vincono gli altri, non ci sarà comunque uno straccio di lavoro per nessuno, perché nessuno tra Musumerci, Miccichè e Crocetta è in grado di mantenere neppure una delle promesse fatte in campagna elettorale, e niente di ciò che loro dicono ha un qualsivoglia legame con l’autentica realtà siciliana.
Da questo punto di vista, la crisi economica gioca a favore di un clamoroso esito elettorale. A Roma, e a Bruxelles, i soliti soldi a perdere, in cambio di voti, non ci sono più.
Non solo.
Inizieranno i licenziamenti a raffica, pena l’ufficiale commissariamento da parte dell’Europa, nel caso non lo voglia fare il governo nazionale.
E’ un’occasione storica da non perdere.
Chi pensa che votando per un certo candidato riuscirà comunque a ottenere anche un esiguo profitto o qualche vantaggio di posizione o un lavoro, ha fatto molto male i suoi conti. Nessuno avrà nulla.
I candidati, ad esclusione di Beppe Grillo, sono semplici esecutori fallimentari che devono esercitare una loro precisa e specifica competenza ai danni della popolazione siciliana.

Se il popolo siciliano avrà questa consapevolezza, potrà godere di una libertà che non ha mai potuto esercitare dal 1946, sempre ricattati nel nome del bisogno, sempre illusi nel nome di una prospettiva, sempre ammaliati con il ricatto di una possibilità, di una speranza, di un forse domani. Non c’è nessun domani.
Lo scorso giugno Lombardo ha ottenuto 456 milioni di euro che sono serviti soltanto a pagare il 56% degli interessi passivi aggiunti e garantire la tenuta degli stipendi.
I conti veri (e su questo la BCE è molto attenta) son ben altri. E li dovranno trovare a Roma, dove useranno il solito giochino dell’odio anti-meridionalista per giustificare una necessaria manovra suppletiva per scadenze inderogabili, dato che ci sono almeno dieci colossi finanziari che vantano crediti per miliardi di euro e non intendono certo rinunciarci.

E’ una occasione unica per i siciliani per dare una spallata e regalare al resto d’Italia il “la” al paese continentale. Perché la Sicilia è sempre avanguardia in Italia. Perché la Sicilia ci ha regalato nel secolo scorso, certamente non a caso, tre giganti del pensiero e della Cultura, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo e Leonardo Sciascia. La poesia e la narrativa esistenziale è nata in Sicilia, prima con la tragedia greca, poi attraverso Jacopo nel medioevo e infine attraverso la rifondazione del romanzo e della poesia. La Sicilia è inoltre l’unica regione italiana dove c’è stato un imprenditore indipendente nel campo editoriale che ha messo su (dal nulla) un’impresa autonoma con i propri soldi e ha sfondato sul mercato senza mai cedere: Elvira Sellerio. In tutte le altre regioni, quelli che hanno avuto successo, dopo un po’ hanno ceduto, mantenendo soltanto il marchio ma vendendo le quote a Rizzoli o a Mondadori, la grande industria culturale responsabile della narcolessia massificata omologata.

E’ l’argomentazione sloganistica usata da Beppe Grillo nel corso della sua campagna elettorale, che fa la differenza.

Se n’è andato in giro per l’isola a dire a tutti “votate per voi”, ricordando che chi vota per lui non otterrà un bel nulla, se non la soddisfazione di aver recuperato la propria autonomia e sapere che sta facendo tremare il quartiere generale di chi gestisce il privilegio.
I siciliani hanno sempre votato per qualcuno che non faceva i loro interessi perché si sono ammalati di amnesia, dimenticando di essere sempre stati l’avanguardia della nazione, vittime della paura, della rassegnazione, dimèntichi di sé. E’ sulla paura che vince l’oligarchia. E’ su questa paura che investono, speculano e lucrano passando all’incasso.
Se in Sicilia vince uno dei soliti, il risultato verrà interpretato, gestito, e usato come semaforo verde per seguitare a organizzare un sistema scientifico di espoliazione di ogni minima risorsa rimasta ancora disponibile. E verrà considerato come un grande applauso nei confronti della classe “superiore” (così pensano di essere) da parte della classe “inferiore” (così pensano che i siciliani siano).

I siciliani hanno la possibilità di lanciare un segnale forte.
Di regalare un’utopia e un progetto al resto dell’Italia, di illuminare la strada per il resto degli italiani, come hanno sempre fatto.

Siciliani,  voi sapete come si fa, visto che fa parte della vostra Cultura.

E illuminateci a tutti.

L’Italia sta veramente nel buio pesto.
Si ascoltano voci delle più strane categorie urlare dentro un tunnel oscuro, ammaliati e ipnotizzati dal miraggio di una luce in fondo, che sanno tutti non è mai esistita e non c’è.

Abbiamo bisogno di un terremoto culturale, come quello che ci avete regalato a suo tempo con Luigi, Salvatore e Leonardo.

Restiamo in attesa.

Ne abbiamo davvero bisogno tutti, come nazione e come Stato.

sabato 27 ottobre 2012

Ergastolo per Salvatore Parolisi "Ha ucciso la moglie Melania.



Il caporale maggiore era l'unico imputato per l'omicidio e il vilipendio di cadavere della donna, uccisa con 35 coltellate il 18 aprile 2011. "Sono innocente". Tolta la potestà genitoriale. Risarcimento di un milione di euro alla figlia.


TERAMO - Salvatore Parolisi è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio della moglie Melania Rea,uccisa con 35 coltellate, il 18 aprile 2011 1, a Ripe di Civitella, in provincia di Teramo. Una decisione arrivata in serata, poco prima delle 20, dopo una giornata carica di tensione. A Parolisi sono state inflitte tutte le sanzioni accessorie, dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici alla perdita della potestà genitoriale. Inoltre dovrà pagare "la provvisionale di un milione di euro per la figlia Vittoria, 500mila per i genitori di Melania. La sentenza, con il rito abbreviato, è stata emessa dal gup Marina Tommolini dopo circa quattro ore di camera di consiglio. Il caporale non ha assistito alla lettura della sentenza. 

"Innocente, sono innocente", lo ha ribadito ai suoi avvocati Parolisi dopo la condanna. Al rientro nel carcere di Castrogno, alla periferia di Teramo, l'uomo è scoppiato in un pianto dirotto. 

Gli avvocati dell'imputato avevano chiesto l'assoluzione con formula piena. Per l'accusa il caporale degli Alpini meritava l'ergastolo 2: unico imputato dell'omicidio di Melania e del vilipendio del corpo della donna, la difesa ha replicato chiedendo l'assoluzione per non aver commesso il fatto. Nel corso dell'udienza la difesa ha parlato di insussistenza del reato di vilipendio del cadavere, prove scientifiche favorevoli, ora della morte non certa, testimoni a scoppio ritardato dopo aver letto sui giornali i fatti. I legali hanno ammesso alcune bugie di Parolisi "ma come uomo e marito, e non certo come assassino della moglie", ha detto Nicodemo. E ancora: "E' il classico processo da insufficienza di prove, se questo delitto fosse accaduto tra il 1930 e il 1989 Salvatore sarebbe stato prosciolto". Dopo la condanna i legali hanno detto: "Le sentenze non si discutono, si impugnano".

Il dolore dei familiari.  "Non ha vinto nessuno, non ha vinto nessuno", ha detto, con le lacrime agli occhi, il papà di Melania, Gennaro Rea. "E' la fine di un incubo, perché è stato trovato e riconosciuto l'assassino di Melania", ha detto Michele Rea, il fratello di Melania.

Parolisi era stato arrestato una prima volta a seguito di un provvedimento di custodia cautelare emesso il 18 luglio 2011, quando la competenza sulle indagini era ancora della Procura di Ascoli Piceno. Successivamente fu raggiunto, il 2 agosto dello stesso anno, da analoga misura restrittiva emessa dal gip di Teramo Giovanni Cirillo. Da allora è detenuto nel carcere 'Castrogno' del capoluogo.

Applausi per la sentenza. 
In casa Rea, a Somma Vesuviana, stanno arrivando altri parenti. Una delle zie di Melania Rea si è affacciata dal portone della casa dei genitori della donna uccisa dal marito ed ha urlato ai giornalisti: "Avete sentito". Ed ha fatto un breve applauso. La donna ha anche riferito che Vittoria, la mamma di Melania, non se la sente, al momento di rilasciare dichiarazioni.



http://www.repubblica.it/cronaca/2012/10/26/news/melania_il_giudice_in_camera_di_consiglio_la_sentenza_arriver_in_serata-45381272/?ref=HRER3-1

Raid dell'Fbi dal "socio occulto" di Berlusconi. - Paolo Biondani e Luigi Ferrarella



Perquisito da 50 agenti della polizia federale. Trovati a Los Angeles i timbri per simulare le firme dei contratti ad Hong Kong.

MILANO — Dall'Italia, la Procura di Milano chiede aiuto. E gli Stati Uniti lo danno, schierando in forze l'Fbi. Perché la risposta, alla richiesta di collaborazione giudiziaria formulata dai pm milanesi che indagano sulla compravendita all'estero dei diritti cine- tv del gruppo Fininvest- Mediaset, è una perquisizione molto «americana»: il procuratore distrettuale di Los Angeles, Jason Gonzales, ha infatti spedito in Sunset Boulevard 7655, dove lavora il produttore di Hollywood Frank Agrama, più di 50 agenti della divisione «reati dei colletti bianchi» della polizia federale. A sequestrare 10 computer, a svuotare ogni cassetto dei tre piani di uffici e a rovistare in tutti gli angoli della sua villa californiana in Canyon Back Road. L'«attorney» Gonzales ha ordinato il raid dopo essere stato convinto dagli elementi di prova fornitigli dai magistrati italiani e riassunti in un «affidavit» americano (che equivale a un mandato di perquisizione) che definisce Agrama «socio occulto di Silvio Berlusconi». È la stessa accusa ipotizzata dai pm De Pasquale e Robledo nel processo, aperto ieri a Milano, dove Berlusconi e Agrama sono imputati di frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita per i contratti cine-tv intermediati appunto dallo stesso Agrama.
DALLA SVIZZERA AGLI USA — Il 75enne produttore cinematografico di origine egiziana già un anno fa era stato al centro del più grande sequestro di denaro mai eseguito all'estero per un'indagine italiana. Da allora infatti la Svizzera gli ha «congelato», sempre su richiesta dei pm di Milano, oltre 140 milioni di franchi su conti intestati a società offshore, come la «Wiltshire Trading», in apparenza gestita da amministratrici di Hong Kong, come Paddy Yiu Mei Chan e Katherine Chun May Hsu. Fino a un anno fa, i magistrati americani e italiani si scambiavano lettere di fuoco. I primi polemizzavano: «Ci dispiace che il nostro carico di lavoro non ci permetta di spiegarvi nei dettagli i vostri numerosi errori e omissioni». E i milanesi reagivano: «Ci dispiace che il vostro "carico di lavoro" vi impedisca di adempiere pienamente al vostro dovere di collaborazione internazionale». Ora, con Berlusconi non più premier in Italia e Bush indebolito dal voto di metà mandato, i due apparati giudiziari hanno ritrovato sintonia.
I TIMBRI SEQUESTRATI — Forse proprio di quel gelo ora dissolto si era fidato troppo Agrama, se è vero che nella sede della sua società, la Harmony Gold, l'Fbi ha sequestrato uno scatolone che rischia di costargli molto caro, benché contenga soltanto un pugno di timbri. Timbri con firme proprio di Paddy Chan, cioè della manager che in apparenza risultava firmare a Hong Kong i contratti sui diritti cine-tv, mentre Agrama se ne poteva così dichiarare semplice intermediario esterno. Adesso questi timbri, oltre a confermare i dubbi della Procura sulla genuinità grafica delle firme della Chan, accreditano un altro sospetto, grave soprattutto negli Stati Uniti: se i contratti venivano in realtà «fabbricati» a Los Angeles, allora anche i relativi redditi non erano prodotti a Hong Kong, come Agrama ha sempre sostenuto per sfuggire al fisco americano, ma negli Usa. Le stesse autorità giudiziarie e fiscali americane a questo punto potrebbero aprire un procedimento autonomo per evasione contro Agrama, anziché limitarsi ad «assistere» l'inchiesta italiana. Secondo rischio: siccome le identiche firme di quei timbri compaiono sui conti elvetici congelati, ora per Agrama potrebbe aggravarsi anche l'accusa in Svizzera e di certo si allontana la speranza di far dissequestrare i cento quaranta milioni di franchi.
LA DIFESA — All'epoca il difensore di Berlusconi, Niccolò Ghedini, aveva ribadito: «Agrama non è mai stato socio di Berlusconi». Oggi il legale italiano di Agrama, Astolfo Di Amato, commenta: «La perquisizione è sproporzionata, anche perché in Italia è già stata dichiarata la prescrizione di gran parte delle accuse. Comunque non abbiamo paura: l'Fbi non può aver sequestrato ad Agrama documenti compromettenti, perché non ne esistono».

venerdì 26 ottobre 2012

Trattativa Stato-mafia, Cdm: “Governo parte civile nel processo”.


Trattativa Stato-mafia, Cdm: “Governo parte civile nel processo”


La decisione a pochi giorni all'inizio dell'udienza preliminare a Palermo per i 12 imputati. Il pm Di Matteo: "Segnale importante di attenzione alla ricerca della verità". Il procuratore Messineo: "Un fatto positivo". Polemica Idv-Pd. Di Pietro: "Ci siamo riusciti". Garavini: "Avete creato solo caos". L'imputato De Donno ricusa il giudice.

Il Consiglio dei ministri ha deciso che lo Stato, come invocato da più parti e con forza nei mesi e nelle settimane precedenti, si costituirà parte civile nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia. La scelta arriva pochi giorni all’inizio dell’udienza preliminare davanti al giudice di Palermo Piergiorgio Morosini che dovrà decidere se rinviare a processo gli imputati. La prima udienza è prevista  lunedì 29 ottobre. 
Il  24 luglio scorso i pm di Palermo aveva chiesto il rinvio a giudizio i dodici personaggi indagati per il presunto patto che, secondo la Procura di Palermo, portò pezzi delle istituzioni a trattare con Cosa nostra, che a colpi di stragi e bombe, voleva spezzare le catene del carcere duro cui erano sottoposti i boss. Un “invito” violento a sedersi allo stesso tavolo della mafia nel periodo che videro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli uomini della scorta e tanti altri innocenti a Milano e Firenze morire.  
”La costituzione di parte civile del Governo può essere un segnale importante di effettiva attenzione alla ricerca della verità su cosa accadde in uno dei periodi più oscuri della nostra storia recente”, commenta il pm di Palermo Nino Di Matteo, titolare dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia insieme al procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Poco dopo è arrivata anche la dichiarazione del procuratore capo del capoluogo siciliano Francesco Messineo: ”E’ un fatto positivo perché rapporta la nostra determinazione nel cercare la verità in questa vicenda”.
Sul fronte politico, interviene il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, da sempre sostenitore della scelta: ”A forza di martellare siamo riusciti a far ammorbidire le pietre che stanno al governo, anche se abbiamo dovuto aspettare fino all’ultimo minuto”. Alla fine, sottolinea Di Pietro, “la decisione dell’esecutivo è arrivata a ridosso dell’udienza preliminare. E’ una scelta che ci sta bene e sta bene agli italiani, ma rimane l’amarezza di quanto abbiamo dovuto lottare, con i denti e con le mani, per una decisione che in realtà era ed è doverosa”.
Nel momentaneo silenzio del centrodestra, la polemica resta confinata nel centrosinistra: ”E’ una scelta positiva che noi abbiamo sostenuto e sulla quale, del resto, il governo aveva dato ampie rassicurazioni”, replica Laura Garavini, capogruppo del Pd in commissione Antimafia. “La campagna di Di Pietro non è stata utile, ha solo creato molto caos, un metodo ben poco costruttivo quando si affrontano temi così delicati”.
Intanto uno degli imputati, l’ex ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, ha presentato istanza di ricusazione del gup di Palermo Piergiorgio Morosini. Gli altri imputati sono i mafiosi Salvatore Riina, Nino Cinà, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca; gli alti ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; senza dimenticare gli esponenti politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino, ex ministro dell’interno e già presidente dl Senato. Per tutti l’accusa è di attentato a corpo politico dello Stato, tranne che per Mancino, accusato di falsa testimonianza dopo la sua audizione al processo Mori-Obinu del 24 febbraio scorso. Secondo gli inquirenti palermitani, guidati dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, agirono “per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato”. Secondo la stessa richiesta di rinvio a giudizio tutti coloro che parteciparono alla trattativa agirono “in concorso con l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi e il vice direttore del Dap Francesco Di Maggio, deceduti”: loro avrebbero ammorbidito la linea dello Stato contro la mafia, revocando centinaia di 41 bis. 
Da Palazzo Chigi la nota è di sole poche righe, ma la vicenda giudiziaria, per le sue implicazione, è una delle più importanti degli ultimi: “Il Consiglio dei ministri ha deliberato la costituzione di parte civile del governo all’udienza preliminare del procedimento penale davanti al Tribunale di Palermo a carico di Bagarella Leoluca Biagio e degli altri 11 imputati per i capi di imputazione di interesse dello Stato“. 
Solo due giorni fa Mancino ha chiesto che fosse stralciata la sua posizione per essere giudicato dal Tribunale dei ministri.  Il politico, che si era rivolto al Quirinale per chiedere aiuto, si è sempre dichiarato “estraneo, lo dimostrerò. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato” aveva detto subito dopo la richiesta della Procura di Palermo.  Le telefonate con il presidente della Repubblica, considerate irrilevanti dalla Procura, sono oggetto un conflitto sollevato dal capo dello Stato davanti alla Corte Costituzionale che dovrà decidere se la Procura di Palermo poteva intercettare una conversazione del capo dello Stato che però era stato captato casualmente perché parlava con l’indagato Mancino. Agli atti anche le conversazioni tra l’es ministro e il consigliere di Napolitano, Loris D’Ambrosio, poi morto per infarto.
Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dei sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, il primo contatto con Cosa Nostra sarebbe stato cercato da Mannino, che dopo l’omicidio di Salvo Lima era spaventato dall’aggressione di Cosa nostra nei confronti dei politici, incapaci di non aver saputo bloccare le sentenze del maxi processo. La trattativa sarebbe stata poi avviata dai carabinieri del Ros Mori e De Donno che incontrarono più volte don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, per arrivare a Riina. Il dialogo tra mafia e Stato sarebbe poi proseguito fino al novembre del 1993 quando l’allora Guardasigilli Giovanni Conso non rinnovó oltre 300 provvedimenti di 41 bis per detenuti mafiosi. L’apice dei contatti tra Stato e anti Stato sarebbe invece stato raggiunto nel 1994 quando Bagarella e Brusca, luogotenenti di Riina (arrestato un anno prima) manifestarono al nuovo premier Silvio Berlusconi “per il tramite di Vittorio Mangano e Dell’Utri” una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura.  Secondo i magistrati sarebbero stati reticenti anche Conso e l’ex capo del Dap Adalberto Capriotti, accusati di false informazioni al pm. Per loro peró il codice prevede che il reato contestato rimanga “congelato” fino al primo grado di giudizio dell’indagine principale. 

Il sindaco chiede aiuto al boss: “Questa sera contestano la Minetti”.



Il 14 maggio 2011 Nicole Minetti, già indagata per favoreggiamento della prostituzione nell’ambito del caso Ruby, fu accolta in pompa magna a Sedriano, su invito del sindaco Alfredo Celeste. Quest’ultimo, insegnante di religione ed esponente del Pdl, era altresì noto per la sua strenua lotta contro i matrimoni civili e, ironia della sorte, la prostituzione. La consigliera regionale rivestiva il prestigioso ruolo di madrina dell’evento, che consisteva nella premiazione di un concorso dedicato alla creatività femminile. Il primo cittadino di Sedriano, subodorando l’eventualità di contestazioni, telefona al presunto ‘ndranghetista Eugenio Costantino alla vigilia della serata e gli chiede accoratamente aiuto. “Ho bisogno, se è possibile, della tua presenza” – afferma Celeste – “ecco, porta Massimo e qualche amico. ‘Sti contestatori li affrontiamo noi, nel senso…hai capito?”. Costantino accetta di buon grado la proposta di partecipare alla serata e soprattutto l’ulteriore invito del sindaco. “Dì pure a Teresa di venire” – aggiunge il sindaco – “perchè la voglio presentare come la consigliere più giovane”. Teresa, consigliere comunale di Sedriano nella giunta capeggiata da Celeste, è la figlia di Eugenio Costantino. La stessa che il boss D’Agostino raccomandò per un posto di lavoro all’Aler all’assessore regionale Zambetti il 18 marzo 2011 (ascolta l’intercettazione pubblicata dal fattoquotidiano.it) di Gisella Ruccia.

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/10/26/lintercettazione-sindaco-sedriano-chiede-aiuto-presunto-ndranghetista/208892/


INGROIA A VENTICANO: “LA MIA VOCE” DAL GUATEMALA.


Ingroia a Venticano: “La mia voce” dal Guatemala.
VENTICANO (AV) – “Dal 9 novembre, quando scadrà il mio incarico presso la Procura di Palermo e mi trasferirò in Guatemala, sarò più libero di dire tante cose sulla Trattativa Stato-Mafia, che ora non posso dire. Continuerò ovviamente a partecipare al dibattito, e lo farò anche attraverso dei contributi scritti che pubblicherò su la lanostravoce.info”.
Le parole di Antonio Ingroia (nella foto, con il nostro direttore Andrea Festa), Procuratore aggiunto di Palermo, risuonano in una Sala Consiliare del Comune di Venticano che ribolle di presenza e partecipazione. Ingroia è visibilmente e comprensibilmente provato, eppure riesce ugualmente a dare tono e carica alle sue parole.  “Palermo. Gli splendori e le miserie. L’eroismo e la viltà” è il titolo della sua ultima pubblicazione (edita da Melampo), presentata a Venticano in un incontro organizzato dalla nostra testata. Nel libro affronta l’eterno tema della città siciliana e delle grandi città meridionali: la lotta tra Stato e organizzazioni mafiose, in un contesto sempre difficile e che da sempre rischia di appiattirsi su un equilibrio che andrebbe spezzato.
Verrebbe da definirla “antistato”, ma Ingroia sottolinea proprio quest’aspetto: “La mafia non ha profili eversivi, ma tende ad infiltrarsi negli apparati dello Stato per influenzarne le decisioni e trarne il più grande vantaggio possibile. Ovviamente, garantendosi l’impunità”. Finora c’è stato uno Stato che ha fatto opera di “contenimento, di argine al fenomeno mafioso. Bisogna acquisire un’altra mentalità. La mentalità dell’annientamento”.
Il Procuratore ha potuto constatare anche ieri sera quanto siano ancora vere ed attuali le parole che Falcone pronunciò prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio: “La gente fa il tifo per noi”, disse il giudice a proposito della “primavera palermitana” che soffiava alle spalle del pool, facendo sentire il proprio forte ed incondizionato sostegno. Anche a Venticano, la gente accorsa ha mostrato e dimostrato che c’è ancora chi fa il tifo per un’Italia più giusta.
Ma da dove si parte per raggiungere quest’obiettivo? La parola chiave la mette in evidenza una giovane studentessa, che in una domanda al Procuratore si sofferma sul concetto di intransigenza, sviluppato nel libro. “E’ proprio così”, conferma Ingroia. “E’ l’intransigenza la pietra miliare del cambiamento. C’è bisogno di un’intransigenza morale, di un rigore morale ed etico, che ci porti a rifiutare sdegnosamente anche solo il puzzo del compromesso. E’ quello che ci hanno insegnato Falcone e Borsellino, ed è quella la chiave per una rinascita sociale. Non si può che partire dall’intransigenza: essa conduce inevitabilmente al rinnovamento, basato sul concetto di legalità”.
A proposito di legalità, Ingroia si è commosso quasi fino alle lacrime quando Rossella Iacobucci – cittadina e  membro del Comitato “Resistenza Operaia” vicino ai lavoratori dell’Irisbus (stabilimento Fiat di Valle Ufita, in provincia di Avellino) -, ha letto un’accorata lettera di sostegno e solidarietà al Procuratore. Nelle parole della Iacobucci, al fianco di settecento operai che vivono da un anno il dramma della perdita del posto di lavoro e lottano per un proprio diritto, c’era tanta ammirazione per il lavoro di Ingroia a favore di un’Italia più giusta e basata sulla legalità.
A nome dei lavoratori, Rossella Iacobucci ha poi chiesto al Procuratore aggiunto di Palermo di“aiutarci a scoprire le connivenze tra società di gestione dei trasporti (veri e propri carrozzoni politici), istituzioni silenti e centri di revisione che certificano come idonei anche i mezzi catalogati come pericolosi e da rottamare”. Non solo. I dipendenti della Irisbus che si riconoscono nel comitato “Resistenza Operaia” hanno concluso con una richiesta precisa: “Noi le chiediamo di indirizzarci la strada per costituirci parte civile e tentare di far rispettare le norme europee e la sicurezza dei cittadini, bloccando gli autobus che circolano fuori norma”.  Richiesta che Ingroia ha accolto, “per quello che mi sarà possibile da Palermo, perché anche la difesa del posto di lavoro è un momento di legalità. Dove si toglie lavoro – ha spiegato – arriva la criminalità”.
E qui il timone non può che spostarsi su un altro argomento-chiave, quello della verità. La verità soprattutto nei rapporti, “da sempre esistiti (si pensi allo sbarco delle truppe Alleate in Sicilia nell’estate del 1943)”, tra la mafia e le istituzioni dello Stato. “Un paese che non accerti la verità – afferma Ingroia – è un paese lontano dall’essere una democrazia vera e compiuta”. Giungere a questo risultato non è cosa semplice, ma è l’obiettivo, “oltre che di magistrato, di uomo: ho giurato sulla bara di Paolo (Borsellino, ndr) che avrei fatto di tutto per scoprire la verità, e non avrò pace finché non ci sarò riuscito”.
La “gente comune” può avere un ruolo in questo processo? Ingroia non ha dubbi: sì. Può dare una spinta importante a chi agisce  per questo fine. Egli parla delle “primavere antimafia”, che arrivano con una certa ciclicità. E se è vero che “viviamo un momento storico in cui il potere politico pare essere fortemente connivente con il potere delle organizzazioni mafiose, è vero anche che a questo, in passato, è seguita una nuova primavera, che dunque ora potrebbe essere alle porte”.
Il difficile ruolo che Antonio Ingroia si appresta a ricoprire in Guatemala, al servizio dell’Onu, contro il narcotraffico, lo manterrà in trincea. Ne sentiremo la mancanza (qualcuno un po’ meno), ma quando tornerà in Italia sarà forte di un’ottima palestra.