lunedì 9 marzo 2020

Gli italiani e il Coronavirus: io speriamo che me la cavo. - Roberta Labonia



Mentre scrivo penso a come questa grossa rogna dell’epidemia da coronavirus stia impietosamente riportando alla luce i nostri peccati, le nostre mancanze, i nostri storici punti deboli. Ogni attore in commedia sta sbagliato qualche battuta. Molti cercano di nascondere la polvere sotto al tappeto. L’individualismo italico, lo scarso senso civico che, ahimè ci distingue, gli egoismi personali, stanno avendo la meglio sulla tutela del bene comune. E che in ballo ci sia la tutela del bene comune più prezioso, la nostra salute, sembra che, alla prova dei fatti, interessi a pochi.
Guardo la TV. Sta andando in onda un servizio girato l’altra notte nella stazione centrale di Milano. C’è un giornalista che, mascherina a mascherina (e meno male!), intervista una ragazza che sta andando a Roma. Dice che lei a Milano ci studia ma sta tornando a casa perché teme che domani (ndr ieri), non lo possa più fare. Insieme a lei decine e decine di persone, trolley alla mano, corrono verso i treni. Le immagini sono emblematiche di come, proprio nelle ore in cui il Governo stava assumendo drastiche misure di contenimento del “rischio Lombardia”, questo si apprestava a viaggiare in ordine sparso, destinazione il resto del Paese, sui treni di Ferrovie per l’Italia. Era corsa la notizia che tutta la Lombardia sarebbe stata blindata. Da domani (ndr ieri), nessuno ne sarebbe più potuto uscire né entrare. Colpa di un Dpcm (Decreto del Consiglio dei Ministri), che da qualche ora girava in rete. Una bozza, un tarocco, che le principali testate giornalistiche, con dubbio senso di responsabilità e male interpretato diritto all’informazione, avevano ben pensato di rendere pubblico senza attendere quello ufficiale che da lì a poche ore, a notte fonda, Giuseppe Conte avrebbe firmato. Una bella picconata a quel cordone di sicurezza che il Governo, da giorni, sta ricercando in tutti i modi. Bravi, bis!
Ieri, a decreto firmato, mi sono arrivati i commenti a caldo di parecchi: confusione e panico. Invettive verso il Governo. Privati, professionisti, piccoli imprenditori, commercianti, nessuno escluso, ha mosso la sua critica, pensando ai suoi personali interessi. Nessuno di costoro, italiani che dicono di amare il loro Paese, ne sono convinta, ha l’esatta percezione del pericolo che ci si prospetta davanti: quello di un gigantesco disastro sanitario. Roba che può destabilizzare sia socialmente che economicamente un intera nazione per anni, forse decenni. Roba che se non contrasti anche contando sui comportamenti virtuosi e civicamente consapevoli del singolo cittadino, non ne esci. Roba che il bloccarla val bene il sacrificio di uno o due mesi di fermo Paese. Eppure gli italiani o grossa parte di loro, continuano a fare orecchie da mercante. Da nord a sud. In queste ore mi scorrono davanti le immagini di un Italia irresponsabile, a cominciare da Milano, quella che l’epidemia, grossa, ce l’ha in casa. Quella che si fregia di essere la capitale economica d’italia: Navigli comunque frequentati, strade dello shopping tutt’altro che deserte, pic nic domenicali, movida irriducibile. Distanza di sicurezza non pervenuta. Baci e abbracci qua e là. Ma, ca va sans dire, non va meglio a Roma piuttosto che a Firenze, Napoli e Palermo. Tanto per citare alcuni dei principali capoluoghi nostrani. C’è da chiedersi se siamo diventati tutti un Paese di sordi e di ciechi. Del martellante invito al rispetto anzi all’obbligo, del “distanziamento sociale”, che ci arriva dalle principali istituzioni del Paese, noi ce ne freghiamo.
E se è vero che ogni popolo ha il governo che si merita, voci scomposte continuano a levarsi anche da parte degli amministratori locali. Malpancisti per tutti i gusti, ognuno dice la sua. In primis i Presidenti di regione, quelli che hanno la diretta responsabilità della sanità locale. Tutti, dopo aver lamentato ad una voce di non essere stati coinvolti nelle decisioni (salvo far marcia indietro quando ieri Conte li ha interpellati prima di firmare), hanno levato i loro distinguo: c’è chi ritiene il decreto Conte “pasticciato” come l’emiliano Bonaccini. Chi ritiene che le misure adottate siano troppo blande come, tardivamente mascherina esente, Attilio Fontana e chi, al contrario, ne lamenta l’eccessivo rigore come Luca Zaia, quello che è tutta colpa dei cinesi che mangiano i topi vivi.
Sono Presidenti di Regione che stanno passando il più brutto quarto d’ora della loro esperienza politica, ne convengo. I loro Ospedali straripano, stanno rischiando il collasso. Strutture che fino a ieri erano viste come i fiori all’occhiello del sistema sanitario nazionale italiano.
E se a mala pena sta reggendo la sanità del Nord, tremo al pensiero che il contagio esploda anche da Roma in giù. Allora si che saranno dolori, o meglio, altri dolori.
Tanto per citare una, la Regione Lazio, dove vivo, per decenni ostaggio di consigli regionali di destra e sinistra che hanno banchettato sui fondi del servizio sanitario regionale accumulando deficit miliardari. Noi gente del Lazio da circa 8 anni subiamo le alzate d’ingegno di Nicola Zingaretti: ha chiuso 16 Ospedali, tagliato il personale del 14%, e, pensate voi, ben 3.600 posti letto! Oggi, dopo aver dilatato le liste d’attesa all’inverosimile per un esame (che fai in tempo a morire di tumore, se mai ce ne hai uno), si vanta, senza merito, il contagiato Presidente della Regione Lazio nonché segretario del Pd, di aver portato la Sanità laziale fuori dal commissariamento, ma a che prezzo? Forse se non avesse favorito a suon di centinaia di letti convenzionati e contributi regionali la sanità privata, oggi qualche letto in più in terapia intensiva pubblica ce lo avremmo avuto. Ma se Atene piange Sparta non ride. In quel di Lombardia, al Pirellone, abbiamo visto anche di peggio. Formigoni, dai suoi arresti domiciliari, sta lì a ricordarcelo. I lombardi stanno ancora in attesa che rifonda i 60 milioni di fondi pubblici regionali da lui graziosamente elargiti alla Fondazione Maugeri. Per non parlare dei buchi alla Sanità prodotti dalle regioni del sud in terre di mafia.
Insomma lacrime di coccodrillo quelle versate in queste ore da parte dei presidenti delle regioni del nostro Paese, i cui organi consiliari si sono guadagnati con gli anni il triste primato del più alto indice di inefficienza e corruzione. La scelta dissennata di aver favorito il privato a scapito del servizio sanitario regionale, oggi gli sta presentando il conto. Tanto che mi chiedo: e se la gestione della Sanità, con relativi fondi al seguito, la riportassimo a livello centrale? Ci avete mai pensato? Del resto il presidio della salute pubblica è materia di sicurezza nazionale. Certo poi ai Zaia, ai Fontana, rimarrebbero da gestire poche briciole di euro. Quindi perchè no? Togliamole proprio le Regioni, di organi intermedi ne abbiamo a sufficienza. Vedi i Comuni e quel che resta delle Province, oggi soppiantate dalle Città Metropolitane. Meditate gente, meditate.
Ma se la politica regionale in queste ore non brilla per coerenza ed efficienza e per amor di Patria sorvolo sull’indegno spettacolo di sciacallaggio politico che l’opposizione sta dando di sé in queste ore, anche sul Governo nazionale si alternano luci ed ombre. Pur efficace nell’azione di contrasto a questa epidemia, come la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità gli ha riconosciuto, l’Esecutivo ha mancato nella qualità dell’informazione. Il Governo si è autoinflitto un danno di immagine non indifferente. Concitazione? Eccesso di trasparenza? Sia come sia, come spesso accade, il diavolo si cela nei dettagli: l’aver effettuato, l’Italia da sola, più tamponi che in tutto il resto d’Europa, ci ha portato a denunciare nei primi giorni il più alto numero di positivi senza fare un distinguo fra asintomatici, sintomatici e ospedalizzati. Agli occhi del resto del mondo, ancora non alla presa con numero di contagi significativi perché non ricercati, siamo apparsi da subito come gli untori da evitare. Paesi del terzo mondo si sono arrogati il diritto di negare l’accesso ai nostri connazionali.
E poco importa che adesso, di ora in ora, nazioni come Francia, Germania, Spagna e buona parte del resto del mondo, si trovino alle prese con un crescente quanto incontrollato numero di contagi, il danno è stato fatto.
E in tutta questa cacofonia di voci mi torna alla mente il tema di Raffaele, il bimbo che descriveva a modo suo, in una scuola dell’entroterra campano, la parabola della fine del mondo. Chiudeva così:
“Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle e IO, speriamo che me la cavo”.

"I Salvini boys, una carriera rovinata dal Covid-19" - Antonio Padellaro



“Il premier era nell’angolo e ha enfatizzato il virus per uscirne” (Claudio Borghi, Lega. La Repubblica). Questi Salvini boys vanno capiti, il maledetto virus gli ha rovinato la piazza. Due anni fa il capataz ebbe un’idea straordinaria: dai ragazzi, buttiamoci nel mercato della paura, diciamo agli italiani che saranno invasi da negri, terroristi e clandestini pidocchiosi e scabbiosi, io farò il frontman, voi sarete il coro e alla campagna promozionale ci penserà la Bestia, un vero portento capace di sparare cazzate a raffica. Fu un successone, la trovata ebbe rendimenti mostruosi. Dalla botteguccia costretta a raccattare qualche voto riproponendo la solita, vecchia riapertura dei casini si passò rapidamente a una gigantesca catena di ipermercati della psicosi in grado di spacciare la merce a prezzi scontatissimi, direttamente nelle case dei clienti, e molto meglio di Amazon. Grazie a una squadra affiatata di piazzisti televisivi si fece credere agli italiani che fossimo alla vigilia di una sostituzione etnica, e che in breve masse di africani sbarcate illegalmente sul suolo patrio (mentre la vile sinistra buonista faceva finta di non vedere) si sarebbero riprodotte a nostre spese riducendo i nativi a una sparuta minoranza sottomessa agli invasori. La paura dell’immigrato restava l’articolo più richiesto ma l’ufficio brevetti della Bestia sfornò una nuova collezione impostata sulla catena dell’odio. Odio verso rom e gay, odio per Europa ed Euro, odio verso tutto e tutti, fino alla trovata geniale dell’abbinata paura-odio: paghi uno e prendi due. Poi arrivò il maledetto coronavirus e, d’improvviso, speculare sulla paura divenne come vendere frigoriferi al polo nord. Succedeva che una paura superiore, invasiva, contagiosa, onnipresente aveva ricoperto il Paese come un immenso sudario. Si cercò di rivitalizzare il mercato lanciando un nuovo prodotto: il panico. Invano la squadra affiatata dei piazzisti coniò titoli terrificanti che evocavano le più spaventose stragi, pestilenze, calamità, sventure. Il responsabile dell’immane flagello era sempre uno e uno solo: lui, Giuseppe Conte. Fu accusato prima di avere enfatizzato il morbo, poi di averlo sottovalutato. Fu chiamato delinquente e criminale. Ma erano spot che purtroppo non tiravano più: i consumatori, pardòn, i cittadini sembravano stranamente più interessati alle indicazioni del governo che ai trafficanti della paura che infatti cominciarono a sbandare e a perdere clienti. Il capataz affogò la delusione dentro un’enorme confezione di Nutella. Il fido Borghi cominciò a parlare da solo. Mentre si cercava un lavoro vagava ripetendo: a me m’ha rovinato er coronavirus.

https://infosannio.wordpress.com/2020/03/08/i-salvini-boys-una-carriera-rovinata-dal-covid-19/?fbclid=IwAR2wODu1lmxjJzJxK5sI5k3lIfBf-PC-emaOs3eIcA1W97PKksQqFqluBaM

Renzi “l’Étoile” fa flop pure in televisione... - Lorenzo Giarelli

Renzi “l’Étoile” fa flop pure in televisione

A “Rivelo” - Accolto da star, parla di famiglia e scout. Ma lo guarda lo 0,36%.
Nel quartier generale di Italia Viva devono averci pensato a lungo. Per rimediare agli ultimi sondaggi disastrosi, hanno pensato a una operazione simpatia (un’ altra?) che rilanci finalmente l’ immagine di Matteo Renzi. E quale idea migliore di mandarlo in tv in piena crisi sanitaria a parlare dei suoi inizi nei boy scout, del rapporto coi figli e di quando dovette rinunciare alla festa dei 40 anni per partecipare alla commemorazione per Charlie Hebdo? Una mossa da far rimpiangere i fasti di Jim Messina. “Vi è mai capitato di conoscere il vostro idolo?”. Così viene introdotto Matteo Renzi a Rivelo, trasmissione di Real Time condotta da Lorella Boccia – nuora di Lucio Presta, agente dei vip e amico di Matteo – andata in onda giovedì sera.
L’ inizio è solo un tiepido assaggio dei 48 minuti di coccole all’ ego dell’ ex premier. La Boccia ricorda l’ incontro con una stella della danza: “Ero agitatissima, pensavo a come dovevo rivolgermi a lei, poi mi ha detto di chiamarla semplicemente per nome. Ho capito che le grandi star non hanno bisogno di dimostrare nulla, basta esserci per fare la differenza. E anche l’ ospite di questa sera non ha bisogno di presentazioni”. È Matteo Renzi. “Ammetto di essere un po’ emozionata”. “Ma io non sono un étoile”. “No?”. No. Si parte: “Voglio disorientarla con una domanda che nessuno le ha mai fatto”. Perché non si è ritirato dalla politica dopo il referendum? Perché bombarda un governo che lui stesso ha voluto? Meglio: “Le piace ballare?”.
Matteo è a suo agio. Racconta dei soprannomi da bambino: “Nessuno mi ha mai chiamato il Bomba. Al massimo ero il Matto”. Allora va meglio. Poi è l’ora del libro Cuore, qualcosa a metà tra le frasi da Baci Perugina e i discorsi rubati agli anziani fuori dal cantiere: “I bambini non giocano più per strada”; “A volte per far star bene le famiglie di tutti fai star male la tua”; “Il lusso non è un’ auto blu o un volo privato, ma condividere relazioni umane”. Se poi si condividono relazioni umane da sopra un Air Force One in leasing per 168 milioni, tanto meglio.
Ma c’ è spazio pure per i ricordi politici, col consueto basso profilo: “Sono stato il primo sindaco presidente del Consiglio. L’ unico a realizzare la parità di genere nel governo. Il premier più giovane. Se vedo un tricolore mi inchino e ringrazio”. “Le fa molto onore”.
Ma è quando tutto sembra calmo, quando ci si sbottona la camicia e si allungano i piedi sul tavolo che Renzi infila il pizzino politico.
Verso i titoli di coda arriva un messaggino da non sottovalutare: “Renzi, ci faccia una rivelazione”; e va bene: “Matteo Salvini è un mio rivale, ma c’ è un rapporto personale, umano ci siamo sentiti più volte. Dopo il referendum mi ha scritto per dirmi che mi avrebbe aspettato presto in battaglia, e così ho fatto io ad agosto”. “Questo è un messaggio importante per gli italiani”. Purtroppo sì. E c’ è anche la morale finale: “Il rischio è che ti trasformi in un codice, serve avere passione per non vivere da numerini”. I numerini, appunto. Tipo il dato Auditel della serata: 0,36 per cento. Poco persino al confronto dei sondaggi di Italia Viva.

Autoregolamentazione. - Dimostriamo di essere un popolo civile.

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- Uomini e no - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 9 Marzo.

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La leggenda autoconsolatoria degli italiani brava gente e del Paese che reagisce serio, responsabile e compatto come un sol uomo al coronavirus è andata in mille pezzi l’altra notte, con la felliniana prova d’orchestra delle cosiddette classi dirigenti e della presunta società civile.
In poche ore quasi tutto il patrimonio di credibilità che avevamo accumulato nelle ultime settimane grazie alla sobrietà, all’equilibrio e alla trasparenza del governo, alla collaborazione responsabile di una parte del centrodestra e delle “sue” Regioni del Nord, ma soprattutto all’impegno sovrumano di medici e infermieri degli ospedali invasi dai contagiati malati, è finito in fumo per colpa di qualche migliaio di sciagurati che hanno restituito dell’Italia la sua immagine più macchiettistica e caricaturale.
Matteo Salvini, con una cinquantina di post e tweet, sciacallava su tutto, persino sulle rivolte carcerarie, pur di strappare qualche decimale nei sondaggi che in realtà lo puniscono proprio per il suo sciacallismo. E un altro premier fortunatamente mancato, Carlo Cottarelli, faceva lo spiritoso sull’isolamento della Lombardia (“La Padania… c’è riuscito il virus”), inaugurando la figura dello sciacallo antileghisti.
Intanto il vero premier, Giuseppe Conte, dopo un lungo e drammatico Consiglio dei ministri, intervallato dai negoziati con le cinque Regioni interessate e dalle sciagurate fughe di notizie sulle bozze del nuovo decreto, era costretto ad annunciare le misure definitive in piena notte. Misure che nessuno sa se basteranno, visto che non contengono (ancora) il divieto “alla cinese” di uscire di casa tout court almeno per la Lombardia.
Conte ha ricordato che non è il momento di “fare i furbi” e si è appellato all’“autoresponsabilità”. Parola lunare per la minoranza rumorosa di italioti che assaltavano i treni per Sud, affollavano le spiagge, le discoteche e le stazioni sciistiche, preparavano le sporte per la nuova corsa agli accaparramenti nei supermercati, come se il virus non li riguardasse o non esistesse. Parola perfetta per la maggioranza silenziosa di italiani che seguono alla lettera i consigli degli esperti e le raccomandazioni delle autorità, o lavorano giorno e notte negli ospedali, o patiscono i morsi della crisi nei loro negozi, locali, negozi e aziende.
Purtroppo non sapremo mai chi sia stato il primo demente che ha passato ai giornalisti le prime bozze del decreto ancora in discussione, ma sappiamo che le soffiate sono state plurime per tutta la serata, a partire dalle 20.
E sappiamo anche chi può averle diffuse, fra le poche istituzioni che ne erano in possesso.
Non Palazzo Chigi, che ne è stato la prima vittima. Ma qualche ministro o funzionario che mal tollera la popolarità e credibilità del premier e vuole sfregiarlo per preparare inciuci, ribaltoni o elezioni anticipate. E gli uffici di qualche Regione, magari per far dimenticare le boiate di qualche governatore, o soltanto per la cialtroneria di chi non riesce a tenersi neppure un cecio in bocca: figurarsi un provvedimento di quella drammatica portata. Le possibili “manine” sono tante, e i moventi pure. Prendersela con l’ultimo anello della catena, cioè con i giornalisti che pubblicano bozze ufficiali, per quanto provvisorie, è ridicolo: fanno il loro, anzi il nostro mestiere (diversamente da quelli che sfruttano l’occasione per riprendere il tiro al bersaglio sul premier).
Certo, è avvilente scoprire che neppure in un momento come questo il capo del governo può fidarsi delle altre istituzioni, e forse nemmeno di tutti i suoi ministri. Tantopiù che questa gente rappresenta lo Stato e dovrebbe essere di esempio ai cittadini comuni, chiamati a sacrifici mai visti dai tempi della guerra. Se un ministro, un funzionario, un governatore o un assessore dà queste prove di irresponsabilità (e taciamo, per carità di patria, sui cosiddetti “presidenti” di serie A, o sui soliti radicali che, a furia di invocare amnistie e indulti, soffiano sul fuoco delle rivolte nelle carceri), come potrà convincere il quidam de populo a non sfruttare la situazione per fregare il prossimo? O invitare all’”auto-responsabilità” chi forza blocchi, viola divieti o nasconde l’infezione diffondendola in giro per l’Italia?
Il decreto dell’altra notte non estende la zona rossa alle province interessate, troppo estese perchè se ne possano sigillare i confini a mano armata: tutto è affidato al senso civico dei singoli (l’”autoresponsabilità”, appunto), nella speranza che tutti rispettino spontaneamente le prescrizioni pur sapendo che sarà impossibile costringerli a farlo manu militari e perseguirli penalmente se non lo fanno.
Si spera che questo decreto ottenga i risultati sperati. Che sono almeno due: contenere un contagio che è impossibile fermare per legge; ma anche dimostrare che in Italia le persone serie sono qualcuna in più dei cialtroni.

Renzi chi è?


Coronavirus, Renzi: "Il peggio deve ancora arrivare""Mi permetto di suggerire al governo per il futuro di affiancare alla struttura valida che già sta lavorando, personalità che abbiano un'esperienza nella gestione delle crisi. Ci vuole Guido Bertolaso, una personalità che abbia una capacità di lavorare con governi di tutti i colori e che sia anche capace di mettere le mani nella comunicazione istituzionale durante la crisi, che è un tema fondamentale, lo abbiamo visto anche stanotte, e nella gestione dell'emergenza", aggiunge.

Qui l'articolo completo: 

Certi individui, colpevoli di aver distrutto l'economia di un paese, dovrebbero avere l'umiltà di chiedere scusa e ritirarsi in buon ordine avendo anche l'accortezza di restare in silenzio.
Ma, avidi come sono della smania di potere, non si arrendono all'evidenza che li vuole emarginati, e continuano a mettersi sgradevolmente in bella mostra proponendo, inoltre, consigli non richiesti.
Il tizio in questione, ad esempio, tenta di inserire negli organi istituzionali persone a lui fedeli per avere più possibilità di intervento nel governo. Come, del resto, ha già fatto in passato avvalendosi di personaggi poi assurti alle cronache per illeciti di vario tipo.
Ha una forte tendenza alla manipolazione, ed uno scarso rispetto degli altri, che usa a suo piacimento senza preoccuparsi dei danni che provoca con il suo atteggiamento.
Un pessimo individuo da tenere a distanza, come con il coronavirus, con la differenza che mentre dal virus è possibile guarire, dal renzismo no: chi lo prende resta distrutto per sempre.
C.

domenica 8 marzo 2020

L’umanesimo ai tempi del coronavirus. Rileggendo “La peste” di Camus. - Teresa Simeone



“I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina”.[1]
L’incipit di una delle più famose e inquietanti opere della letteratura mondiale di tutti i tempi ci immerge nell’ordinarietà di un luogo che è Orano ma potrebbe tranquillamente essere Codogno o Wuhan o Daegu.

Considerata una metafora di quella spaventosa epidemia che negli anni quaranta dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo, oggi richiama invece un’interpretazione fedelmente letteraria di ciò che descrive, in modo per noi assolutamente imprevedibile, considerando che quando fu scritta, benché già ammonisse sul possibile rinascere del pericolo, non lo ritenesse reale nel suo aspetto biologico-sanitario.
E invece lo stiamo vivendo, in modo drammatico e paradossale, a più di settanta anni dall’uscita del libro.
Nel 2020 l’epidemia, che assume sempre più i contorni di un’emergenza pandemica, ritorna a ricordarci quanto siamo esposti a nuovi e invasivi patogeni e come la loro diffusione sia ancora in grado di modificare radicalmente rapporti, relazioni, vita sociale e culturale, economia e diritti: chi avrebbe mai immaginato che non una singola, limitata città, ma un’intera nazione e poi un continente e infine il mondo globale diventasse un enorme, impensabile lazzaretto? È anche in questa capacità lungimirante e visionaria che si leggono opere come La peste di Albert Camus.

“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo.”[2] Inizia tutto da questo neutro, insignificante ma insolito rinvenimento. I topi diventano due, tre, poi dieci. Si trovano, sporchi di sangue, a centinaia in tutti gli stabili e le vie di Orano. La gente incomincia a essere inquieta ma poi, finalmente, la moria di topi si arresta. “La città – scrive Camus – respirò.”[3] Per poco. Iniziarono a sentirsi male gli esseri umani: il primo fu Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo. I sintomi inizialmente non furono associati a una malattia in particolare. In seguito altre persone accusarono gli stessi malori e Rieux incominciò, da medico esperto, a chiedersi cosa avessero in comune e a cosa potessero ricondursi. Man mano che i numeri dei malati aumentavano e i sintomi si ripetevano – stato di astenia, gangli ingrossati e in suppurazione, febbre – lo scenario si faceva più minaccioso. “La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia.”[4]

Da questo momento in poi è un crescendo inarrestabile di paure e conferme, fino a pronunciare la terribile, definitiva parola che richiama sciagure del passato ritenute superate: peste. Un demone temuto e respinto nell’oscurità di un periodo, quello trecentesco, che si era replicato certo, qualche secolo dopo, ma che poi era stato arginato e ricacciato indietro dalla scienza. Un flagello di fronte al quale, comunque, si è sempre impreparati, come dinanzi a una guerra, e che induce un misto d’inquietudine e speranza: “Quando scoppia una guerra, la gente dice: ‘Non durerà, è cosa troppo stupida’. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”[5]Eppure, ci si autoconsola: con le dovute misure, si fermerà. E invece i morti continuano a salire. Le autorità vengono informate ma, per evitare il panico, non si parla di peste. Alla fine non si può non avvisare la popolazione ma che resti tranquilla, invitano: le precauzioni, se applicate correttamente e da tutti, arresteranno il morbo. Nella fase iniziale, oltre la derattizzazione e l’invito alla pulizia, si chiede agli infestati dalle pulci di presentarsi negli ospedali e alle famiglie di autodenunciarsi; poi, con l’aumentare dei casi, le misure si fanno più spietate. “La denuncia obbligatoria e l’isolamento furono mantenuti; le case dei malati dovevano essere chiuse e disinfettate, i congiunti sottoposti a una quarantena di sicurezza, i seppellimenti organizzati”[6]Il dispaccio del prefetto diventa definitivo: “Si dichiari lo stato di peste. La città è chiusa”[7].

E da questo momento Camus, con straordinaria percezione e un’esatta progressione dei fatti, ci accompagna nella psicologia dei protagonisti e degli altri attori che fanno da contesto umano a una situazione tragica in cui, accanto alla paura di esser contagiati, si staglia il terrore di essere ostracizzati dai sani come l’angoscia di essere separati dai propri affetti: madri e padri allontanati dai figli con la paura di non rivederli più, mogli e mariti divisi, fratelli e sorelle non più abitanti della stessa casa. La pietà, riflette Rieux, non è più possibile. Neanche per le grida disperate delle mamme nel vedere i bubboni all’inguine delle proprie figlie: “Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.”[8]

E in questo teatro di dolori e di orrori, risaltano le vite di coloro che vi sono rappresentati: figure che, di volta in volta, si mostrano e ci mostrano i mille volti che assumono la paura di non farcela, l’istinto di sopravvivenza, l’angoscia per il lutto degli affetti, la disperazione e la solitudine. E le reazioni diverse di fronte a quelle che, giustamente, Jaspers ha definito situazioni-limite, in cui ci si trova senza maschere e senza protezioni, davanti alla possibilità del “naufragio” e dello scacco. Situazioni estreme, per dirla alla Feyerabend, in cui, però, ciascuno scopre anche il proprio potenziale, nascosto nelle vicende della normalità di tutti i giorni.

Come potremmo reagire noi? ci chiediamo. Noi, in quanto collettività? E io, in quanto individuo?

Come il semplice Michel che muore innocente e inconsapevole, preoccupandosi solo del fatto che il rinvenimento del topo possa essere addebitabile alla sua negligenza?
Come il generoso Rieux, che si aggira tra morbi e pestilenze, dormendo tre ore a notte, senza chiedersi se sia opportuno esporsi in quel modo ma facendo ciò che è giusto in quel momento? Consapevole di poter morire, senza il sorriso della moglie, che si è dovuta allontanare da Orano prima dello scoppiare della calamità e che, infatti, non rivedrà più? Indulgente verso chi, come Rambert, cerca di fuggire da quell’inferno o con Cottard, che senza la peste sarebbe arrestato e che perciò si rifiuta di aiutare a debellarla?
Come i tanti oranesi che, certi che il morbo non li avrebbe toccati (e perché avrebbe dovuto? Perché proprio loro?), si disinteressano fino a quando non ne divengono vittime? Fino a che il cordone sanitario si stringe come i cancelli di una prigione, escludente ed emarginante? Fino a quando, sfiniti dall’isolamento e dall’angoscia, rompono gli obblighi di quarantena e fuggono dalla città? Fino a quando si rassegnano e accettano, infelici e spauriti, il proprio destino? Abituati al coprifuoco, al fetore della morte, ai seppellimenti fatti in fretta e furia, a non poter piangere più i propri cari, a intuire che finiranno nei forni crematori?
Come Castel, intento a cercare un siero che possa aiutare i malati? Non è facile, tutto induce allo scetticismo, ma bisogna lottare e non mettersi in ginocchio. Combattere la peste, a qualsiasi costo, con qualunque mezzo. Impedire che le persone muoiano: questo è ciò che dà senso alle giornate. E infine ci riesce, stanco e snervato, ma sereno.
O come Rambert, il giornalista capitato per lavoro a Orano e lì obbligato a rimanere per la pestilenza? Lotta in tutti i modi per impedire alla peste di soffocarne il desiderio di felicità, nello sforzo disperato di lasciare Orano e ricongiungersi alla sua compagna. Prova tutte le strade, legali e illegali, ma intanto offre il suo aiuto a Rieux, soccorre appestati, dall’alba alla notte. Finalmente riesce a organizzare la fuga: dovrà partire di lì a poche ore ma, quando arriva il momento, non è più così convinto. A Rieux che gli dice, generosamente, tra un’incisione di bubbone e un’altra, che non c’è niente di male a essere felice, Rambert risponde che è vero, ma che “ci può essere vergogna nell’esser felici da soli”.[9] E rimane a Orano.
Forse come Tarrou che, da forestiero, colto, ricco e viveur, continua a pernottare nell’albergo dove alloggia e a prendere appunti, a raccogliere testimonianze, a descrivere le occupazioni dei cittadini, a seguire l’evoluzione della peste e a registrare aneddoti su tutto ciò che vede, con lo stesso spirito curioso e ironico? La figura di Tarrou è una delle più belle del libro: pur potendo evitare coinvolgimenti, offre il proprio aiuto a Rieux e propone di organizzare un gruppo di volontari per assisterlo. Naturalmente ne farà parte anche lui. Al gruppo si aggiunge Grand, l’aspirante scrittore, “insignificante e sbiadito”, che Rieux considera, nella sua purezza di cuore, uno dei veri eroi di questa storia. Eroe per semplicità e autenticità di sentimenti, le uniche qualità che contino, nel delirio dell’irrazionalità e del terrore.

Intenso è il dialogo su Dio, sull’impegno del medico, sulle ragioni della disponibilità di Tarrou: Rieux gli chiede perché sia disposto a rischiare, proponendosi come volontario, e Tarrou gli risponde domandandogli, a sua volta, perché mostri tanta devozione se non crede. E il dottore confessa “che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe trascurato di guarire gli uomini, lasciandone la cura a lui”.[10] Ciò che conta è guarire le persone e forse è meglio non credere in Dio e lottare “con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace”.[11] Un Dio, altro tema che ritorna, che si rende responsabile della morte di bambini innocenti, come il figlio di Othon.

Come padre Peneloux, che all’inizio interpreta la peste come un flagello divino per ricondurre i peccatori a Dio e che è interessato a riportare la collettività distratta alla Chiesa? Ma che poi non esita a unirsi al gruppo di volontari e a lavorare instancabilmente tra letti e sudore infetto. A capovolgere posizione perché la religione in tempo di peste non può, non può più essere la stessa. E ne morirà.
Stanchezza, indifferenza, sfinimento, incuria per se stessi: si sta in bilico, in tempo di peste. Anche con la propria coscienza. Col sospetto che chiunque ti possa contagiare. Amici, vicini e parenti. Con la considerazione, amara, che il cuore di tutti si sia indurito, che nessuno più ascolti i gemiti dei malati e che anzi si cammini nei lamenti come se “fossero stati il naturale linguaggio degli uomini.[12]
Ma è una storia che riguarda tutti, come dice Rambert. Un concetto, quello della responsabilità collettiva, che ricorre spesso nella produzione del filosofo francese.

Alla fine, anche la peste degrada, si attenua, perde virulenza. La quarantena è annullata. E la vita riprende a scorrere tra gli oranesi. Il paese è in festa, tutti ballano ma le solitudini restano. Coppie estatiche attestano “col trionfo e con l’ingiustizia della felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo”.[13]

Tutti vogliono pensare che la peste può venire e se ne può andare senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato: ma può essere così? Si può attraversare il male senza esserne toccato?


Anche l’epidemia di coronavirus passerà. Lascerà strascichi, com’è inevitabile. Lascerà vittime, com’è ingiusto che sia. Lascerà anche un senso profondo di amarezza su come si continui a reagire, con i medesimi meccanismi del passato, a eventi di cui già abbiamo vissuto gli esiti infausti. Dovrebbe lasciare anche qualche riflessione su ciò che significa “alterità” come dimensione costitutiva della nostra soggettività, su “ciò che è l’altro per noi” che, mai come adesso, è interrogarsi su “ciò che siamo noi per l’altro”. Dovrebbe aprire uno spiraglio non soltanto sulle responsabilità di chi è contagiato, come se fosse una colpa esserlo, ma sulla sua condizione psicologica e fisica; sul suo timore di poter infettare chi gli è vicino; sul suo vivere la malattia come un’onta quasi intenzionalmente cercata, magari solo per aver incidentalmente transitato in una zona poi rivelatasi pericolosa; sulla violazione della privacy, in nome della sicurezza nazionale, che lo marchia come “untore” e lo espone alla pubblica gogna. Ancora una volta Camus, con la sua sensibilità, ci aiuta a capire.

Rieux, il suo alter ego letterario, nel rivelare, alla fine del libro che è lui a scrivere, confessa di aver scelto di testimoniare. Lo ha fatto dalla parte delle vittime, vivendo la loro sofferenza, parlando per tutti. Dicendo, altresì, con gli esempi positivi che ha riportato, che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare. Un’altra prova della vicinanza alla terra di Camus. E del suo essere laico, illuminato, impenitente umanista.

“io mi sento - fa dire da Rieux a Torrou - più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”[14].

NOTE

[1] Albert Camus, La Peste, Bompiani, 2011, pag. 5

[2] Albert Camus, op. cit. pag. 8

[3] Albert Camus, op. cit. pag. 15

[4] Albert Camus, op. cit. pag. 29

[5] Albert Camus, op. cit. pag. 30

[6] Albert Camus, op. cit. pag. 50

[7] Ibidem

[8] Albert Camus, op. cit. pag. 70

[9] Albert Camus, op. cit. pag.161

[10] Albert Camus, op. cit. pag. 97

[11] Albert Camus, op. cit. pag. 99

[12] Albert Camus, op. cit. pag. 86

[13] Albert Camus, op. cit. pag.227
[14] Albert Camus, op. cit. pag.197

http://temi.repubblica.it/micromega-online/l-umanesimo-ai-tempi-del-coronavirus-rileggendo-la-peste-di-camus/