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lunedì 9 marzo 2020

Gli italiani e il Coronavirus: io speriamo che me la cavo. - Roberta Labonia



Mentre scrivo penso a come questa grossa rogna dell’epidemia da coronavirus stia impietosamente riportando alla luce i nostri peccati, le nostre mancanze, i nostri storici punti deboli. Ogni attore in commedia sta sbagliato qualche battuta. Molti cercano di nascondere la polvere sotto al tappeto. L’individualismo italico, lo scarso senso civico che, ahimè ci distingue, gli egoismi personali, stanno avendo la meglio sulla tutela del bene comune. E che in ballo ci sia la tutela del bene comune più prezioso, la nostra salute, sembra che, alla prova dei fatti, interessi a pochi.
Guardo la TV. Sta andando in onda un servizio girato l’altra notte nella stazione centrale di Milano. C’è un giornalista che, mascherina a mascherina (e meno male!), intervista una ragazza che sta andando a Roma. Dice che lei a Milano ci studia ma sta tornando a casa perché teme che domani (ndr ieri), non lo possa più fare. Insieme a lei decine e decine di persone, trolley alla mano, corrono verso i treni. Le immagini sono emblematiche di come, proprio nelle ore in cui il Governo stava assumendo drastiche misure di contenimento del “rischio Lombardia”, questo si apprestava a viaggiare in ordine sparso, destinazione il resto del Paese, sui treni di Ferrovie per l’Italia. Era corsa la notizia che tutta la Lombardia sarebbe stata blindata. Da domani (ndr ieri), nessuno ne sarebbe più potuto uscire né entrare. Colpa di un Dpcm (Decreto del Consiglio dei Ministri), che da qualche ora girava in rete. Una bozza, un tarocco, che le principali testate giornalistiche, con dubbio senso di responsabilità e male interpretato diritto all’informazione, avevano ben pensato di rendere pubblico senza attendere quello ufficiale che da lì a poche ore, a notte fonda, Giuseppe Conte avrebbe firmato. Una bella picconata a quel cordone di sicurezza che il Governo, da giorni, sta ricercando in tutti i modi. Bravi, bis!
Ieri, a decreto firmato, mi sono arrivati i commenti a caldo di parecchi: confusione e panico. Invettive verso il Governo. Privati, professionisti, piccoli imprenditori, commercianti, nessuno escluso, ha mosso la sua critica, pensando ai suoi personali interessi. Nessuno di costoro, italiani che dicono di amare il loro Paese, ne sono convinta, ha l’esatta percezione del pericolo che ci si prospetta davanti: quello di un gigantesco disastro sanitario. Roba che può destabilizzare sia socialmente che economicamente un intera nazione per anni, forse decenni. Roba che se non contrasti anche contando sui comportamenti virtuosi e civicamente consapevoli del singolo cittadino, non ne esci. Roba che il bloccarla val bene il sacrificio di uno o due mesi di fermo Paese. Eppure gli italiani o grossa parte di loro, continuano a fare orecchie da mercante. Da nord a sud. In queste ore mi scorrono davanti le immagini di un Italia irresponsabile, a cominciare da Milano, quella che l’epidemia, grossa, ce l’ha in casa. Quella che si fregia di essere la capitale economica d’italia: Navigli comunque frequentati, strade dello shopping tutt’altro che deserte, pic nic domenicali, movida irriducibile. Distanza di sicurezza non pervenuta. Baci e abbracci qua e là. Ma, ca va sans dire, non va meglio a Roma piuttosto che a Firenze, Napoli e Palermo. Tanto per citare alcuni dei principali capoluoghi nostrani. C’è da chiedersi se siamo diventati tutti un Paese di sordi e di ciechi. Del martellante invito al rispetto anzi all’obbligo, del “distanziamento sociale”, che ci arriva dalle principali istituzioni del Paese, noi ce ne freghiamo.
E se è vero che ogni popolo ha il governo che si merita, voci scomposte continuano a levarsi anche da parte degli amministratori locali. Malpancisti per tutti i gusti, ognuno dice la sua. In primis i Presidenti di regione, quelli che hanno la diretta responsabilità della sanità locale. Tutti, dopo aver lamentato ad una voce di non essere stati coinvolti nelle decisioni (salvo far marcia indietro quando ieri Conte li ha interpellati prima di firmare), hanno levato i loro distinguo: c’è chi ritiene il decreto Conte “pasticciato” come l’emiliano Bonaccini. Chi ritiene che le misure adottate siano troppo blande come, tardivamente mascherina esente, Attilio Fontana e chi, al contrario, ne lamenta l’eccessivo rigore come Luca Zaia, quello che è tutta colpa dei cinesi che mangiano i topi vivi.
Sono Presidenti di Regione che stanno passando il più brutto quarto d’ora della loro esperienza politica, ne convengo. I loro Ospedali straripano, stanno rischiando il collasso. Strutture che fino a ieri erano viste come i fiori all’occhiello del sistema sanitario nazionale italiano.
E se a mala pena sta reggendo la sanità del Nord, tremo al pensiero che il contagio esploda anche da Roma in giù. Allora si che saranno dolori, o meglio, altri dolori.
Tanto per citare una, la Regione Lazio, dove vivo, per decenni ostaggio di consigli regionali di destra e sinistra che hanno banchettato sui fondi del servizio sanitario regionale accumulando deficit miliardari. Noi gente del Lazio da circa 8 anni subiamo le alzate d’ingegno di Nicola Zingaretti: ha chiuso 16 Ospedali, tagliato il personale del 14%, e, pensate voi, ben 3.600 posti letto! Oggi, dopo aver dilatato le liste d’attesa all’inverosimile per un esame (che fai in tempo a morire di tumore, se mai ce ne hai uno), si vanta, senza merito, il contagiato Presidente della Regione Lazio nonché segretario del Pd, di aver portato la Sanità laziale fuori dal commissariamento, ma a che prezzo? Forse se non avesse favorito a suon di centinaia di letti convenzionati e contributi regionali la sanità privata, oggi qualche letto in più in terapia intensiva pubblica ce lo avremmo avuto. Ma se Atene piange Sparta non ride. In quel di Lombardia, al Pirellone, abbiamo visto anche di peggio. Formigoni, dai suoi arresti domiciliari, sta lì a ricordarcelo. I lombardi stanno ancora in attesa che rifonda i 60 milioni di fondi pubblici regionali da lui graziosamente elargiti alla Fondazione Maugeri. Per non parlare dei buchi alla Sanità prodotti dalle regioni del sud in terre di mafia.
Insomma lacrime di coccodrillo quelle versate in queste ore da parte dei presidenti delle regioni del nostro Paese, i cui organi consiliari si sono guadagnati con gli anni il triste primato del più alto indice di inefficienza e corruzione. La scelta dissennata di aver favorito il privato a scapito del servizio sanitario regionale, oggi gli sta presentando il conto. Tanto che mi chiedo: e se la gestione della Sanità, con relativi fondi al seguito, la riportassimo a livello centrale? Ci avete mai pensato? Del resto il presidio della salute pubblica è materia di sicurezza nazionale. Certo poi ai Zaia, ai Fontana, rimarrebbero da gestire poche briciole di euro. Quindi perchè no? Togliamole proprio le Regioni, di organi intermedi ne abbiamo a sufficienza. Vedi i Comuni e quel che resta delle Province, oggi soppiantate dalle Città Metropolitane. Meditate gente, meditate.
Ma se la politica regionale in queste ore non brilla per coerenza ed efficienza e per amor di Patria sorvolo sull’indegno spettacolo di sciacallaggio politico che l’opposizione sta dando di sé in queste ore, anche sul Governo nazionale si alternano luci ed ombre. Pur efficace nell’azione di contrasto a questa epidemia, come la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità gli ha riconosciuto, l’Esecutivo ha mancato nella qualità dell’informazione. Il Governo si è autoinflitto un danno di immagine non indifferente. Concitazione? Eccesso di trasparenza? Sia come sia, come spesso accade, il diavolo si cela nei dettagli: l’aver effettuato, l’Italia da sola, più tamponi che in tutto il resto d’Europa, ci ha portato a denunciare nei primi giorni il più alto numero di positivi senza fare un distinguo fra asintomatici, sintomatici e ospedalizzati. Agli occhi del resto del mondo, ancora non alla presa con numero di contagi significativi perché non ricercati, siamo apparsi da subito come gli untori da evitare. Paesi del terzo mondo si sono arrogati il diritto di negare l’accesso ai nostri connazionali.
E poco importa che adesso, di ora in ora, nazioni come Francia, Germania, Spagna e buona parte del resto del mondo, si trovino alle prese con un crescente quanto incontrollato numero di contagi, il danno è stato fatto.
E in tutta questa cacofonia di voci mi torna alla mente il tema di Raffaele, il bimbo che descriveva a modo suo, in una scuola dell’entroterra campano, la parabola della fine del mondo. Chiudeva così:
“Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle e IO, speriamo che me la cavo”.

- Uomini e no - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 9 Marzo.

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La leggenda autoconsolatoria degli italiani brava gente e del Paese che reagisce serio, responsabile e compatto come un sol uomo al coronavirus è andata in mille pezzi l’altra notte, con la felliniana prova d’orchestra delle cosiddette classi dirigenti e della presunta società civile.
In poche ore quasi tutto il patrimonio di credibilità che avevamo accumulato nelle ultime settimane grazie alla sobrietà, all’equilibrio e alla trasparenza del governo, alla collaborazione responsabile di una parte del centrodestra e delle “sue” Regioni del Nord, ma soprattutto all’impegno sovrumano di medici e infermieri degli ospedali invasi dai contagiati malati, è finito in fumo per colpa di qualche migliaio di sciagurati che hanno restituito dell’Italia la sua immagine più macchiettistica e caricaturale.
Matteo Salvini, con una cinquantina di post e tweet, sciacallava su tutto, persino sulle rivolte carcerarie, pur di strappare qualche decimale nei sondaggi che in realtà lo puniscono proprio per il suo sciacallismo. E un altro premier fortunatamente mancato, Carlo Cottarelli, faceva lo spiritoso sull’isolamento della Lombardia (“La Padania… c’è riuscito il virus”), inaugurando la figura dello sciacallo antileghisti.
Intanto il vero premier, Giuseppe Conte, dopo un lungo e drammatico Consiglio dei ministri, intervallato dai negoziati con le cinque Regioni interessate e dalle sciagurate fughe di notizie sulle bozze del nuovo decreto, era costretto ad annunciare le misure definitive in piena notte. Misure che nessuno sa se basteranno, visto che non contengono (ancora) il divieto “alla cinese” di uscire di casa tout court almeno per la Lombardia.
Conte ha ricordato che non è il momento di “fare i furbi” e si è appellato all’“autoresponsabilità”. Parola lunare per la minoranza rumorosa di italioti che assaltavano i treni per Sud, affollavano le spiagge, le discoteche e le stazioni sciistiche, preparavano le sporte per la nuova corsa agli accaparramenti nei supermercati, come se il virus non li riguardasse o non esistesse. Parola perfetta per la maggioranza silenziosa di italiani che seguono alla lettera i consigli degli esperti e le raccomandazioni delle autorità, o lavorano giorno e notte negli ospedali, o patiscono i morsi della crisi nei loro negozi, locali, negozi e aziende.
Purtroppo non sapremo mai chi sia stato il primo demente che ha passato ai giornalisti le prime bozze del decreto ancora in discussione, ma sappiamo che le soffiate sono state plurime per tutta la serata, a partire dalle 20.
E sappiamo anche chi può averle diffuse, fra le poche istituzioni che ne erano in possesso.
Non Palazzo Chigi, che ne è stato la prima vittima. Ma qualche ministro o funzionario che mal tollera la popolarità e credibilità del premier e vuole sfregiarlo per preparare inciuci, ribaltoni o elezioni anticipate. E gli uffici di qualche Regione, magari per far dimenticare le boiate di qualche governatore, o soltanto per la cialtroneria di chi non riesce a tenersi neppure un cecio in bocca: figurarsi un provvedimento di quella drammatica portata. Le possibili “manine” sono tante, e i moventi pure. Prendersela con l’ultimo anello della catena, cioè con i giornalisti che pubblicano bozze ufficiali, per quanto provvisorie, è ridicolo: fanno il loro, anzi il nostro mestiere (diversamente da quelli che sfruttano l’occasione per riprendere il tiro al bersaglio sul premier).
Certo, è avvilente scoprire che neppure in un momento come questo il capo del governo può fidarsi delle altre istituzioni, e forse nemmeno di tutti i suoi ministri. Tantopiù che questa gente rappresenta lo Stato e dovrebbe essere di esempio ai cittadini comuni, chiamati a sacrifici mai visti dai tempi della guerra. Se un ministro, un funzionario, un governatore o un assessore dà queste prove di irresponsabilità (e taciamo, per carità di patria, sui cosiddetti “presidenti” di serie A, o sui soliti radicali che, a furia di invocare amnistie e indulti, soffiano sul fuoco delle rivolte nelle carceri), come potrà convincere il quidam de populo a non sfruttare la situazione per fregare il prossimo? O invitare all’”auto-responsabilità” chi forza blocchi, viola divieti o nasconde l’infezione diffondendola in giro per l’Italia?
Il decreto dell’altra notte non estende la zona rossa alle province interessate, troppo estese perchè se ne possano sigillare i confini a mano armata: tutto è affidato al senso civico dei singoli (l’”autoresponsabilità”, appunto), nella speranza che tutti rispettino spontaneamente le prescrizioni pur sapendo che sarà impossibile costringerli a farlo manu militari e perseguirli penalmente se non lo fanno.
Si spera che questo decreto ottenga i risultati sperati. Che sono almeno due: contenere un contagio che è impossibile fermare per legge; ma anche dimostrare che in Italia le persone serie sono qualcuna in più dei cialtroni.