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giovedì 7 ottobre 2021

Recovery, il flop della Sicilia: 31 progetti bocciati su 31 per i sistemi di irrigazione. Dalla Regione accuse a Patuanelli, che risponde: “Requisiti non rispettati”. Ecco tutti gli errori. - Luisiana Gaita e Manuela Modica

 

Date di verifica mancanti, durate di intervento superiori al consentito, assenza di valori fondamentali. Quella siciliana è l'unica regione che si è vista rispedire tutti i piani per ottimizzare l'irrigazione dei campi agricoli. Musumeci ne fa una questione territoriale: "Favorito il Nord". Eppure la Calabria ha avuto 20 approvazioni. Tantissimi buchi su 23 criteri stringenti, costruiti in accordo con le Regioni e su cui il ministero dell'Agricoltura aveva creato un help desk. Le opposizioni in regione attaccano: "Inadeguati, siamo già i peggiori in assoluto". Ma non tutto è perduto.

Sono le primissime battute del Recovery plan, e la Sicilia incassa già il suo primo flop. Perfino con clamore: su 31 progetti ammessi, 31 progetti sono stati bocciati dal ministero dell’Agricoltura. Si tratta di una prima tranche di investimenti per ammodernare o mettere in sicurezza i sistemi di irrigazione dei campi agricoli. E la Sicilia, che aveva chiesto più di 400 milioni di euro, non avrà neanche un centesimo. L’unica regione d’Italia ad ottenere solo bocciature e a restare all’asciutto, anche in senso letterale, è il caso di dire. Inanellando invece un lungo elenco di veri e propri strafalcioni che però non ha frenato le prime, infuocate, reazioni del governo regionale andato subito all’attacco diretto del ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli: “Con quale criterio e come si è proceduto alla selezione?” si chiedeva immediatamente dopo avere appreso la notizia della bocciatura, lo scorso lunedì, l’assessore siciliano all’agricoltura, Toni Scilla. E si rispondeva: “È chiaro che qualcosa non quadra. Il ministro Patuanelli scade in valutazioni sommarie a tutto svantaggio della Sicilia, e non è la prima volta che lo fa”. Ma il resoconto nel dettaglio mostra errori come quello di non avere indicato la data di progettazione in ben 12 progetti, mentre per altri 12 non è stata inserita la data di durata dei lavori. Per 27 progetti, invece, non è stata neanche inserita la data di verifica. Lo stesso ministro Patuanelli, rispondendo durante il question time a un’interrogazione sui progetti per l’ammodernamento delle reti irrigue nell’ambito del Pnnr, con particolare riferimento al Mezzogiorno, ha spiegato che nessuno dei progetti presentati dalla Sicilia è risultato ammissibile “per motivi meramente tecnici” specificando, ad esempio, che “17 progetti presentavano una durata di intervento e realizzazione delle opere superiore ai 30 mesi. Abbiamo delle scadenze – ha commentato Patuanelli – che non sono derogabili, come è noto”. Ma è solo la punta dell’iceberg. Basti pensare che nella lista ci sono anche due progetti (ente attuatore è il Consorzio di Bonifica di Siracusa) da 4,3 e 4,8 milioni di euro che non rispettano 16 criteri su 23. In pratica si fa prima a dire quali sono stati rispettati (sette). Il progetto di Gela, da 31 milioni, per la rete irrigua dell’invaso Gibbesi, non risponde a 13 criteri. A 12 criteri non rispondono altri due progetti che riguardano Gela (da 19 e 15 milioni di euro) e altrettanti in provincia di Catania (per 4,8 e 4,3 milioni). Poi ci sono altri 5 progetti a Trapani (quasi 8 miliardi, 8,2, 4,3 e 5,2 miliardi) e ancora a Siracusa (4,6 miliardi) che non rispondono a 11 criteri. E poi ci sono altri 19 progetti che non rispondono a un numero di criteri che varia dall’uno agli 8.

E questo solo per citare alcuni dei problemi che hanno consegnato il record di bocciature alla Sicilia. Record che ha scatenato le prime reazioni al vetriolo, con l’assessore Scilla che nonostante questi dati ha continuato ad attaccare il ministro: “Ricordiamo il tentativo di scippare fondi del Programma di sviluppo rurale. Un atteggiamento ostile, che registriamo per l’ennesima volta, e che ci porterà ad effettuare le dovute verifiche e valutazioni”. Ancora più duro il presidente siciliano, Nello Musumeci che addirittura scomoda un conflitto territoriale: “È una vergogna nel Pnrr continuare a guardare a progetti del Centro-Nord e non a quelli del Sud e della Sicilia. Non è un problema di risorse, ma di progettualità. E la Regione Siciliana ha priorità davanti alle quali il governo nazionale si gira dall’altra parte”. Reazioni a caldo, a inizio settimana, poi riviste. Fino a chiedere, ieri, un incontro al ministro. Mentre Scilla ha passato tutto il pomeriggio rinchiuso in una riunione fiume con i suoi dirigenti per capire dove risiedano le responsabilità di un tale flop, in vista dell’appuntamento di questa mattina in commissione Attività produttive all’Assemblea regionale siciliana, dov’è stato convocato per riferire sulle bocciature. D’altronde a poco serviva appellarsi a un ipotetico sbilanciamento a favore del Nord, considerando che la Calabria ha avuto sì 16 progetti bocciati ma ha potuto incassare anche 20 approvazioni. Ma nell’attesa che si scovino le responsabilità, anche Gaetano Armao, assessore all’Economia, ha puntato il dito contro i criteri di valutazione, perché non erano stati discussi con le Regioni: “Non c’è mai stato alcun confronto in conferenza stato-regioni, e il problema è più generale: o si incardina tutto secondo legge o il ministero va avanti coi suoi parametri e con una gestione del tutto autonoma al di fuori dei normali iter”. Tutta colpa dei criteri, dunque. Erano 23 in tutto e secondo Patuanelli erano “gli stessi adottati nell’ambito del programma nazionale di sviluppo rurale 2014-2020 e concordati con le Regioni e province autonome nel 2015″.

Una risposta che smentisce il governo siciliano che all’esordio sul recovery plan è già nella bufera. “Siamo alle prime battute e siamo già i peggiori in assoluto”, commenta Luigi Sunseri consigliere regionale del M5s. E continua: “Se il governo non è in grado di rispettare criteri, peraltro già stabiliti in conferenza stato-regione, non lo deve dire ora, doveva saperlo e dirlo prima, dal dettaglio emergono non solo errori ma gravi illiceità”. “Se questa è la prima, non voglio vedere le altre. Ed è inutile buttarla in caciara menzionando un conflitto col Nord”, interviene, invece, Valentina Zafarana, membro per i Cinquestelle in commissione Attività produttive, dove stamattina Scilla dovrà riferire. “Strafalcioni terrificanti e per l’ennesima volta registriamo come non ci sia nessun membro di questo governo in grado di ammettere le proprie responsabilità e scusarsi con i cittadini”, commenta anche Claudio Fava. “La responsabilità per questo clamoroso flop è evidentemente ascrivibile alla inadeguatezza degli apparati regionali e al mancato coordinamento da parte del governo”, sottolinea Cleo Li Calzi, responsabile del dipartimento regionale Pnrr del Pd. Ma d’accordo con Li Calzi c’è lo stesso Armao che dai banchi del governo lancia l’allarme: “Abbiamo senza dubbia urgenza di reclutare personale di alto livello, dopo che negli anni passati si è spinto per i pensionamenti, siamo in grande difficoltà: la mia proposta, a questo punto, è di attingere agli ultimi concorsi lanciati da Brunetta con il quale sto dialogando”. “Armao dice una cosa vera – ribatte Sunseri – la Regione non è in grado e andrebbe commissariata”.

In effetti, in molti casi si tratta di errori e lacune banali. La nota ufficiale del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) spiega che per l’87% dei progetti candidati (27 progetti) non è stata inserita la data della verifica. E questo vale anche per il progetto con l’importo maggiore, quello da 63 milioni di euro per la sostituzione delle condotte in amianto a Dittaino, in provincia di Catania. Per venticinque progetti (l’80,6%) il valore inserito nel campo ‘Superficie totale dell’area attrezzata sottesa all’intervento (ha)’ è pari a zero. Tra questi il progetto da 39,1 milioni ad Agrigento per utilizzare le acque delle dighe Prizzi e Gammauta con l’alimentazione a cascata della vasca Alta Martusa di Cartabellotta e potenziare il sistema di irrigazione dell’area di Ribera. Per 24 progetti, alla voce ‘Verifica progetto’ è stato scritto no, contrariamente a quanto indicato. Per 23 progetti è stato inserito il valore ‘0’ nel campo ‘Misuratori al Prelievo Installati a titolo dell’investimento’. Per 19 progetti non è ammissibile il valore inserito sullo stato delle autorizzazioni (le opzioni erano ‘da acquisire o da rinnovare entro 6 mesi’ e ‘acquisite e in corso di validità). Tra questi, per 14 progetti non è stato inserito alcun valore. Per altri 14 non è stato rispettato il criterio che riguarda la data di progettazione che, in 12 casi, non è stata proprio inserita, mentre in altri due casi è antecedente al 2016. Diciassette progetti, invece, non rispettano il criterio della durata dei lavori. Tra questi, per 12 progetti non è stato inserito alcun valore, per altri 5 la durata contrattuale dei lavori è superiore a 30 mesi.

Insomma un disastro. A maggior ragione alla luce di quanto ha dichiarato il ministro durante il question time: “Ricordo che dopo aver condiviso con le regioni i criteri di ammissibilità, abbiamo attivato un help desk con 118 faq di risposta e un dialogo costante con chi stava inserendo i progetti per aiutare ed evitare la commissione di errori”. Già. E allora potrà la Regione Sicilia porre rimedio al pasticcio? “Su questo ovviamente siamo disponibili a far rimediare – ha spiegato il ministro – per esempio a chi ha barrato un numero sbagliato. E sempre nel rispetto di chi ha già fatto le cose in modo corretto”. Ma ci sono altri due aspetti che il ministro affronta nel suo intervento. Intanto le risorse nazionali a disposizione per il sistema irriguo. Come a dire: c’è un altro treno, per chi perderà questo. “Ci sono 440 milioni di finanza messi sulle leggi di Bilancio dei prossimi anni – ha spiegato – che non sono soggette ai tempi del Pnrr”. E c’è un’altra questione su cui riflettere: “Alcuni consorzi e alcuni enti che sono vigilati dalle Regioni non hanno avuto la capacità tecnica di presentare i progetti. Potremo aiutarli con le risorse nazionali”.

ILFQ

mercoledì 10 febbraio 2021

Il “pacco Bertolaso” già bocciato dal Cts. E in Umbria fa flop. - Vincenzo Bisbiglia

 

Dosi di Salvini.

Il piano di salvaguardia della sanità regionale varato a novembre, con la “superconsulenza” di Guido Bertolaso, è rimasto solo su carta. Così ora l’Umbria di Donatella Tesei si trova impreparata di fronte alla drammatica impennata dei contagi nella provincia di Perugia, con la presidente leghista costretta a implorare l’arrivo di un surplus di fondi e farmaci al governo nazionale. Tutto ciò mentre lo stesso Bertolaso si vede fermare dal Comitato tecnico-scientifico la valutazione sul suo piano vaccinale in Lombardia, che il governatore Attilio Fontana spera di “esportare” in tutto il Paese, come già consigliato da Matteo Salvini e ieri anche da Silvio Berlusconi al premier incaricato Mario Draghi. Intanto il flop del documento umbro, presentato in pompa magna il 16 novembre scorso, è nei numeri: il piano avrebbe dovuto portare alla creazione di “ulteriori 40 posti letto di terapia intensiva, per una disponibilità complessiva di 167 posti letto”. Ma dal dashboard del ministero della Salute, aggiornato all’8 febbraio, si apprende che l’Umbria oggi è dotata di 130 posti di terapia intensiva. In pratica solo tre posti in più rispetto a ottobre, sebbene sia stato raggiunto “l’obiettivo” minimo imposto dal governo di 14 posti ogni 100mila abitanti.

Un ruolo importante l’avrebbe dovuto recitare l’ospedale da campo da 4,5 milioni di euro promesso da Tesei il 7 aprile 2020. Sarebbe dovuto sorgere a Bastia Umbra, ma dopo tutta una serie di ritardi e cambi di appalto, è stato montato alle spalle dell’ospedale Silvestrini di Perugia. La struttura mobile è stata consegnata il 7 febbraio, ben 10 mesi dopo la dichiarazione d’intenti di Tesei. E non è ancora attiva. Non solo. Ci sono stati problemi anche rispetto ai 12 posti letto di terapia intensiva previsti al suo interno. Lo certifica un documento del 19 dicembre, firmato dal dirigente regionale Sandro Costantini e inviato all’Althea Spa – la società che ha realizzato l’ospedale da campo – con all’oggetto la “non conformità dello shelter installato per la terapia intensiva” e la “diffida ad adeguare e a presentare le certificazioni della struttura”. “Il collaudo è terminato lunedì”, ha assicurato ieri il capogruppo della Lega, Stefano Pastorelli. Ma secondo fonti del Fatto Quotidiano, l’ospedale da campo sarebbe stato “consegnato con riserva e in via d’urgenza” e senza le terapie intensive.

La situazione in Umbria è drammatica. In particolare in provincia di Perugia, ormai da giorni in lockdown. La regione ha l’Rt più alto d’Italia (1,18). Ieri Tesei, in consiglio regionale, ha detto che “la variante brasiliana rischia di diventare il nuovo mostro” e ha invocato 50mila dosi di vaccino anti-Covid in più, ristori per le zone rosse e l’anticipo delle cure con la tecnica dei monoclonali. Gli ultimi dati riferiscono di 77 persone in terapia intensiva, per una soglia di saturazione del 56%, su una popolazione totale (890mila abitanti) che è un terzo di quella di Roma. Manca anche il personale, con il bando per 20 anestesisti che ha portato all’assunzione di sole 10 nuove unità. “La maggioranza che guida questa regione è stata incapace di monitorare e intervenire in modo tempestivo”, ha affermato il capogruppo regionale del M5S, Thomas De Luca, che ha aggiunto: “Troppo tardi, il rischio di paralisi della sanità è palese”.

In tutto questo, che fine ha fatto Bertolaso? Incaricato il 4 novembre come “super consulente” di Tesei per la sanità umbra, dopo il varo del piano e l’intervento “a titolo personale” del 30 novembre a Spoleto, dell’ex capo della Protezione civile si sono perse le tracce. Anche il trasferimento di malati Covid nel “suo” ospedale-astronave di Civitanova Marche – a 150 km dal capoluogo – non è mai stato attuato. Bertolaso, come noto, ora è a Milano a fare il “super consulente” del governatore lombardo Attilio Fontana e della neo-assessora Letizia Moratti. Sua la firma sul piano vaccinale di massa della Lombardia, che secondo Fontana dovrebbe essere una “best practice da proporre anche a livello nazionale”, tanto che Matteo Salvini ha proposto il “modello Bertolaso” anche al premier incaricato Mario Draghi. Ma la valutazione del piano vaccinale lombardo, in chiave nazionale, è stata “sospesa” dal Cts: “Ci sono altre priorità”, spiegano dal ministero della Salute.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/10/il-pacco-bertolaso-gia-bocciato-dal-cts-e-in-umbria-fa-flop/6096039/

mercoledì 13 gennaio 2021

E adesso, pover’uomo? - Marco Travaglio

 

Non so come sia finita in Consiglio dei ministri e me ne frega il giusto. Ieri, ogni volta che mi mettevo a scrivere, dai laboratori di Italia Virus fuoriusciva una flatulenza opposta a quella di un minuto prima. Prima il ritiro delle ministre-ostaggio Bellanova&Bonetti. Poi il ritiro del ritiro delle ministre. Poi l’annuncio di una conferenza stampa oggi sul ritiro del ritiro del ritiro delle ministre. La gag “Tiritiritu? Tarataratà”, peraltro rubata a Leone Di Lernia, potrebbe anche essere simpatica, se non fossimo in mezzo alla strage più drammatica del dopoguerra (ieri altri 616 morti) e se gli italiani bramassero una bella campagna elettorale anziché una buona campagna vaccinale. Quindi ho smesso di seguire la farsa, un po’ per questioni igieniche, un po’ perché avevo da fare. E ho pensato che ce la saremmo risparmiata se fin dalla prima minaccia (cioè a inizio dicembre) il Pd tutto si fosse associato a M5S e LeU in una dichiarazione ufficiale e solenne: “Caro Matteo, il ritiro delle tue ministre non sarebbe una gran perdita: ce ne faremo una ragione. Ma, dopo, non faremo mai più un governo con te e il tuo partitucolo. Stacci bene”. Invece le quinte colonne renziane che infestano il Pd hanno continuato a usarlo, vezzeggiarlo, legittimarlo, mandarlo avanti a dire ciò che pensavano loro. Intanto facevano uscire sui giornaloni fantomatici rimpasti, nuovi governi, doppi giochi di Di Maio e cedimenti di Conte su tutta la linea. Come se il padrone della legislatura fosse il Pd, che ha perso tutte le elezioni da quando è nato, nel 2018 ha subìto la più cocente sconfitta della sua storia e nel 2019 è tornato al governo e all’onor del mondo per tripla grazia ricevuta: il suicidio di Salvini, l’invito dei 5Stelle, la credibilità di Conte. Poi, aperto il vaso di Pandora, i doppiogiochisti non sono più riusciti a chiuderlo e si sono spaventati.

Per loro fortuna l’Innominabile, noto ai tempi d’oro per portare fortuna a se stesso e sfiga all’Italia, ora porta sfiga a se stesso e fortuna all’Italia. Aveva scommesso sulle riaperture, e ora persino i presidenti di Regione vogliono chiudere. Aveva scommesso sul governo incapace che non riesce a liberare i pescatori in Libia, e non aveva ancora finito di dirlo che erano liberi. Aveva scommesso sulle provocazioni a Conte per fargli saltare i nervi e addossargli la colpa della crisi, e Conte s’è morso la lingua per lasciarlo litigare da solo. Aveva scommesso sulla sponda di Zinga e Di Maio, invece “lo hanno rimasto solo”. Aveva scommesso sul flop dei vaccini, e l’Italia è prima in Europa. Aveva scommesso sulla minaccia di ritirare le ministre, come ai bei tempi su quella di lasciare la politica, e ha scoperto che anche stavolta la minaccia era una speranza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/13/e-adesso-poveruomo/6063817/

lunedì 14 settembre 2020

Roma, il No fa flop. E Santori scappa. - Tommaso Rodano

 Roma, il No fa flop. E Santori scappa

Poca gente al sit-in promosso pure dalle Sardine: il leader molla gli altri e non ci mette la faccia.

Ma Santori? Dov’è Mattia Santori? Imbarazzo nel retropalco: “Santori è venuto alla manifestazione, ma è rimasto poco, aveva impegni, è dovuto andare via”. La festa del No è un mezzo flop, Piazza Santi Apostoli è troppo grande: a terra, appiccicati sui sampietrini, ci sono migliaia di bollini rossi contro il taglio dei parlamentari (“Così No!”): servono per segnalare il distanziamento ai partecipanti. Mancano i partecipanti però. E i bollini restano inoccupati, a prendersi il sole dell’ultima domenica estiva di Roma.

Così il riccioluto ragazzo-immagine delle Sardine, quando apprende della piazza semivuota a debita distanza, decide di non farsi neppure vedere – dicono gli organizzatori – lasciando i suoi compagni da soli nel vuoto (per le Sardine ci sono, tra gli altri, Jasmine Cristallo e Lorenzo Donnoli, per nulla spaventati dalla scarsa affluenza). Il movimento di Santori è tra gli organizzatori della manifestazione insieme ai ragazzi di Volt Italia e di NOstra, il comitato dei giovani (del Pd) per il No al referendum. Costo dell’evento tra i 4 e i 5mila euro: tutto sudato autofinanziamento. Ma il leader delle Sardine, con apprezzabile coraggio e innegabile carisma, deve aver valutato che non ci fosse molto da guadagnare in quello scenario desertico. E via.

Sul palco si alternano furori giovanili (“L’ultimo che ha provato a tagliare il Parlamento è stato Mussolini”) e pareri più ponderati e autorevoli, come quello del costituzionalista Massimo Villone. Il problema è che manca proprio la gente. Quando il compagno Jacopo Ricci di NOstra conclude il suo accorato intervento mostrando il pugno chiuso alla folla, sotto al palco ci sono Andrea Cangini e Lucio Malan di Forza Italia, Emma Bonino, Riccardo Magi e un’altra pattuglia di Radicali. Il più a sinistra rischia di essere Matteo Orfini: “Sono qui per difendere i valori della Costituzione”, dice, barricadero. Poi un po’ s’abbacchia: “La campagna elettorale è difficile, direi una sfida quasi impossibile, ma merita di essere combattuta fino all’ultimo”. Si vede anche Susanna Camusso. In un angoletto c’è Roberto Giachetti, il deputato renziano che a Montecitorio, il giorno dell’approvazione della legge, regalò la dichiarazione più fantasiosa dell’anno: “Voto a favore del taglio dei parlamentari, ma da domani raccoglierò le firme per cancellarlo con il referendum”.

A giudicare dal colpo d’occhio della piazza, non pare esattamente una battaglia di popolo, ma Giachetti risponde ironico e stizzito: “E Madonna, daje tempo, so’ le 5 e 10” (la manifestazione iniziava alle 17, ndr). “Poi se è una battaglia di popolo lo vediamo il 21, alle urne”. Bonino invece è ottimista: “Non mi aspettavo che venisse più gente di così, molti amici e compagni sono spaventati per via degli assembramenti”. Non c’è pericolo.

In mezzo alla piccola folla – tra quelle di Volt, Anpi e +Europa – spiccano quattro bandiere col garofano del Partito Socialista Italiano e una addirittura con la falce e il martello e l’iconica barba di Che Guevara. La fa sventolare il signor Paolo Berretta, indomito comunista di Rignano Flaminio. Sul palco interviene anche Adelmo Cervi, figlio di Aldo e simbolo vivente di una famiglia distrutta dalla violenza fascista. Discorso verace, chiosa malinconica, “Inutile dire che siamo pochi ma buoni: il problema è che siamo pochi”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/14/roma-il-no-fa-flop-e-santori-scappa/5930356/

lunedì 9 marzo 2020

Renzi “l’Étoile” fa flop pure in televisione... - Lorenzo Giarelli

Renzi “l’Étoile” fa flop pure in televisione

A “Rivelo” - Accolto da star, parla di famiglia e scout. Ma lo guarda lo 0,36%.
Nel quartier generale di Italia Viva devono averci pensato a lungo. Per rimediare agli ultimi sondaggi disastrosi, hanno pensato a una operazione simpatia (un’ altra?) che rilanci finalmente l’ immagine di Matteo Renzi. E quale idea migliore di mandarlo in tv in piena crisi sanitaria a parlare dei suoi inizi nei boy scout, del rapporto coi figli e di quando dovette rinunciare alla festa dei 40 anni per partecipare alla commemorazione per Charlie Hebdo? Una mossa da far rimpiangere i fasti di Jim Messina. “Vi è mai capitato di conoscere il vostro idolo?”. Così viene introdotto Matteo Renzi a Rivelo, trasmissione di Real Time condotta da Lorella Boccia – nuora di Lucio Presta, agente dei vip e amico di Matteo – andata in onda giovedì sera.
L’ inizio è solo un tiepido assaggio dei 48 minuti di coccole all’ ego dell’ ex premier. La Boccia ricorda l’ incontro con una stella della danza: “Ero agitatissima, pensavo a come dovevo rivolgermi a lei, poi mi ha detto di chiamarla semplicemente per nome. Ho capito che le grandi star non hanno bisogno di dimostrare nulla, basta esserci per fare la differenza. E anche l’ ospite di questa sera non ha bisogno di presentazioni”. È Matteo Renzi. “Ammetto di essere un po’ emozionata”. “Ma io non sono un étoile”. “No?”. No. Si parte: “Voglio disorientarla con una domanda che nessuno le ha mai fatto”. Perché non si è ritirato dalla politica dopo il referendum? Perché bombarda un governo che lui stesso ha voluto? Meglio: “Le piace ballare?”.
Matteo è a suo agio. Racconta dei soprannomi da bambino: “Nessuno mi ha mai chiamato il Bomba. Al massimo ero il Matto”. Allora va meglio. Poi è l’ora del libro Cuore, qualcosa a metà tra le frasi da Baci Perugina e i discorsi rubati agli anziani fuori dal cantiere: “I bambini non giocano più per strada”; “A volte per far star bene le famiglie di tutti fai star male la tua”; “Il lusso non è un’ auto blu o un volo privato, ma condividere relazioni umane”. Se poi si condividono relazioni umane da sopra un Air Force One in leasing per 168 milioni, tanto meglio.
Ma c’ è spazio pure per i ricordi politici, col consueto basso profilo: “Sono stato il primo sindaco presidente del Consiglio. L’ unico a realizzare la parità di genere nel governo. Il premier più giovane. Se vedo un tricolore mi inchino e ringrazio”. “Le fa molto onore”.
Ma è quando tutto sembra calmo, quando ci si sbottona la camicia e si allungano i piedi sul tavolo che Renzi infila il pizzino politico.
Verso i titoli di coda arriva un messaggino da non sottovalutare: “Renzi, ci faccia una rivelazione”; e va bene: “Matteo Salvini è un mio rivale, ma c’ è un rapporto personale, umano ci siamo sentiti più volte. Dopo il referendum mi ha scritto per dirmi che mi avrebbe aspettato presto in battaglia, e così ho fatto io ad agosto”. “Questo è un messaggio importante per gli italiani”. Purtroppo sì. E c’ è anche la morale finale: “Il rischio è che ti trasformi in un codice, serve avere passione per non vivere da numerini”. I numerini, appunto. Tipo il dato Auditel della serata: 0,36 per cento. Poco persino al confronto dei sondaggi di Italia Viva.

martedì 23 ottobre 2018

UNA LEOPOLDA DA QUATTRO GATTI. - Franco Bechis

Risultati immagini per la leopolda

BECHIS: “POTEVA SEMBRARE UN'ASSEMBLEA AFFOLLATA DELL'ASSOCIAZIONE COMBATTENTI E REDUCI - ASSAI POCO SI È VISTO ANCHE SOLO PER CORTESIA DEL GRUPPO DI POTERE CHE HA AVUTO IN MANO L'ITALIA LA SCORSA LEGISLATURA - OLTRE I CONFINI DELLA LEOPOLDA RENZI, IL CAPO DELLA COMPAGNIA TEATRALE, NON RIESCE A VENDERE PIÙ UN BIGLIETTO. SE VEDONO LUI, I CLIENTI GIRANO ALLA LARGA...”

Non fosse stato per quei tre ragazzini (scelti come i cartigli dei baci Perugina: un maschietto e due femmine, una di colore), quelli che secondo Matteo Renzi hanno fatto saltare sulla sedia un suo amico, «Ma dove siete, su Disney Channel», la Leopolda n. 9 poteva sembrare un' assemblea affollata dell' associazione combattenti e reduci. Avevano il complesso dei reduci gli ultimi colonnelli di Matteo, e fin dal primo giorno non l' hanno nemmeno nascosto.

simona bonafe alla leopoldaSIMONA BONAFE ALLA LEOPOLDA
Davide Faraone, renziano siciliano: «Credo che questa Leopolda9 sia più partecipata rispetto al passato perché ripulita da opportunisti e voltagabbana. Ne facciamo a meno di quelli che sono leopoldini solo quando si governa». Stessa frase sui voltagabbana sfuggita ieri a Teresa Bellanova, la grintosa regina dei reduci. E anche lo stesso Renzi non l' ha celata: «Quando si perde, ti giri e la stragrande maggioranza di chi ti stava intorno dice "Renzi? Mai visto prima". È la sindrome del beneficiato rancoroso che caratterizza un po' del gruppo dirigente, gente che fino al giorno prima è lì e poi dice oh, io lo dicevo che sbagliava».

renzi alla leopolda 9RENZI ALLA LEOPOLDA 9
E in un altro passaggio del suo discorso di chiusura di ieri l'ex premier del Pd ha ironizzato sulle critiche che alti dirigenti del suo partito hanno fatto più volte al suo carattere: «Ma finché avevano la poltrona da ministro quel mio carattere non era un problema per nessuno».

SALA-BOMBONIERA.
Certo la kermesse fiorentina della corrente renziana ha visto lunghe code fuori dalla stazione Leopolda, che assai piccina e tiene poco più del pubblico di un grande teatro. Per intenderci, quella Leopolda piena aveva più o meno un decimo dei partecipanti alla festa del M5s al circo Massimo, che essendo enorme sembrava però vuoto.

renzi alla leopolda 9RENZI ALLA LEOPOLDA 9
L'immagine dei fan di Renzi si può vendere bene grazie alla sala-bomboniera, ma la realtà dei numeri è quella e i numeri reali pesano sul mercato della politica. Per quanto più viva, vivace e ben confezionata di quel che resta fuori di lì del Partito democratico (poco, senza fantasia e assai sbrindellato), la Leopolda 9 ha dato più l'impressione della riunione nostalgica e anche piena di bei ricordi dei reduci di una stagione certo finita e chissà se cancellata dalla storia della politica.

Quattro amici al bar della stazione, con vistosi buchi di partecipazione, perché in effetti assai poco si è visto anche solo per cortesia del gruppo di potere che ha avuto in mano l' Italia la scorsa legislatura. Dei ministri, viceministri e sottosegretari del suo governo solo i fedelissimi, quelli dello sparuto e pure agguerrito gruppo renziano sbarcato in Parlamento nel lontano 2013.

renzi alla leopolda 9RENZI ALLA LEOPOLDA 9
Eppure il leader stesso nel 2018, l'anno della grande batosta elettorale, nel palazzo ne ha portati assai di più: poco riconoscenti a vedere le loro copiose assenze nella kermesse fiorentina. Il giglio magico e poco più: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Ivan Scalfarotto, Matteo Richetti, la Bellanova e Faraone, Valeria Fedeli, Emanuele Fiano, Gianni Pittella, Debora Serracchiani, Simona Bonafè, Raffaella Paita, Roberto Giachetti ed Ettore Rosato...

Non molto di più di quella truppa. In platea si è visto anche un altro ex ministro, Giuliano Poletti, che però ci ha tenuto a dire di fidarsi ciecamente del segretario Maurizio Martina. Come dire: «Ho dovuto essere qui, ma...».

renzi alla leopolda 9RENZI ALLA LEOPOLDA 9
Cosa che mi ha ripetuto anche qualche dirigente locale renziano doc: «Non avevo voglia di venire, ma l'ho fatto perché tutte le altre volte c'ero e se mancavo questa era più una rottura di scatole inseguire le polemiche sulla assenza che venire a Firenze qualche ora per amore di pace». Partecipazione freddina, ma almeno non è scappato come tanti altri ex fedelissimi di Matteo a Piazza Grande per arruolarsi nella corrente di Nicola Zingaretti.

LA SFILATA
Poi una incredibile sfilata di manager nominati da Renzi e deposti dai successori, ognuno a raccontare il personale dramma, qualcuno con dignità (Ernesto Maria Ruffini, ex capo della Agenzia delle Entrate), qualcuno senza vergogna come Renato Mazzoncini, ex capo delle Ferrovie con la lacrimuccia agli occhi rammentando le gaie riunioni di famiglia «con te Matteo e con Graziano», con toni che obiettivamente davano ragione e anche di più a chi lo ha fatto accomodare.

padoan e renzi alla leopoldaPADOAN E RENZI ALLA LEOPOLDA
È venuto pure un altro ex ministro che pure essendo stato scoperto in origine da Massimo D'Alema in politica deve tutto a Renzi: Pier Carlo Padoan. Ma è stato a mezzo servizio. Ha scodellato al leader per un teatrino pomeridiano una bozza di contromanovra economica.

Solo che Padoan l'aveva già fatto una settimana prima per il segretario del Pd, Martina, e la cosa è risultata un tantino grottesca: le due manovre di minoranza scritte dalle stesse mani sono diverse l'una dall' altra. E quella fatta per Renzi sfonda e di molto (2,1%) gli obiettivi di deficit (1,6%) che l'Italia - proprio con Padoan - aveva assicurato alla Ue: una comica.
maria elena boschi alla leopoldaMARIA ELENA BOSCHI ALLA LEOPOLDA

In effetti a Firenze i reduci volevano divertirsi un po', che è un modo anche per asciugare le lacrime della nostalgia. Di questa edizione della Leopolda 9 prima che aprisse i battenti aveva già capito tutto Maurizio Crozza, che aveva registrato una clip di Renzi che si truccava in camerino sulle note di «C'era una volta l'America» confessando che il suo sogno non era mai stato quello di entrare in politica, ma di fare il conduttore di talk show. I suoi miti non Tony Blair e Barack Obama, ma Barbara D'Urso e Maria De Filippi. E che quando lui lanciava «i Renzini, le praline dell' ovvio», stava provando i numeri del suo spettacolo.

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Esattamente quel che si è visto a Firenze. Per confessione diretta di Renzi: «Ora posso finalmente realizzare il sogno della mia vita: fare il conduttore televisivo. Sono felicissimo». E via al talk show e alla sfilata dei suoi renzini - le praline dell' ovvio - da lanciare: il profeta dei vaccini Roberto Burioni, la sempre bella odiatrice araba di Matteo Salvini, Rula Jebreal, la giornalista in minigonna odiata dalla mafia di Ostia, Federica Angeli, i comitati civici per fare le pulci al «governo dei cialtroni».
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Volti e idee più o meno nuovi, che però si scontrano sempre con lo stesso problema che non si vuole vedere: c' è spazio anche nella nuova Italia gialloverde per un' area politica di questo tipo, che però ha una sola palla al piede: oltre i confini della Leopolda il capo della compagnia teatrale non riesce a vendere più un biglietto. Se vedono lui, i clienti girano alla larga...

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Fonte: dagospia da "liberoquotidiano"