domenica 29 marzo 2020

I Docilians – Gli indolenti. - DAVID ZARUK


Insonnia e obesità - Giulia Dellacostanza

L’Occidente non può far fronte al Covid-19 perché nel  mondo ci sono troppi DOCILIANS, una mandria viziata di persone che vuole vivere sempre a RISCHI ZERO e, per questo motivo, migliaia di persone rischiano di morire.
E’ una cultura contraria ad assumersi qualsiasi rischio e una popolazione indifesa che si aspetta che siano sempre gli altri a risolvere ogni suo problema, è una cultura che ha reso il mondo sviluppato un luogo unico e inadatto a comprendere e a gestire i pericoli che sta presentando oggi il nuovo coronavirus.
Come tutti i virus, il coronavirus Covid-19 prende di mira i più vulnerabili e distrugge i più deboli. Si sta rapidamente diffondendo in Europa e in America per la debolezza dei nostri sistemi regolatori nella gestione dei rischi che hanno creato una cultura totalmente impreparata a reagire per contenere una minaccia di questa portata.
Se le democrazie occidentali fossero state in grado di mettere in atto le giuste misure per ridurre il rischio di base e di mantenere bassa l’esposizione durante le prime 10 settimane del 2020, non ci sarebbe stata la necessità di far chiudere la gente in casa, di strangolare l’economia globale e di portare a un declino senza precedenti il benessere mentale della popolazione. Perché le nostre democrazie non sono state capaci di farlo?
La gestione del rischio, come campo di studio accademico, nacque dopo le crisi del rischio ambientale-sanitario degli anni ’90. BSE, OGM, MMR, EDC e EMF sono alcuni degli acronimi che mettono paura a chi deve gestire i rischi e deve pensare a che percorso seguire per applicare il principio della precauzione e rassicurare i cittadini con dichiarazioni che ispirino certezza e sicurezza. Nei due decenni seguenti, in particolare in Europa occidentale, chi doveva gestire i rischi invece ha adottato un ruolo protettivo e precauzionale, facendo crescere una popolazione pigra e contraria a prendere qualsiasi rischio, affidandosi a chi deve scrivere le regole  per sentirsi garantita e vivere in un mondo senza rischi.
I Docilians – Gli indolenti
Le società occidentali sono diventate docili, sapendo che sono altri che devono proteggerle, sentendosi così in diritto di vivere nel benessere senza correre rischi. Non devono più prendersi nessun rischio personale perché eventuali pericoli saranno regolati dal sistema. Non servono avvertenze come “Maneggiare con cura” o “Tenere lontano dalla portata dei bambini” perché è garantito che tutto è sicuro e se le regole non bastano per proteggere la popolazione, ci sono gli avvocati che si occupavano di mandare in bancarotta chi ha sbagliato (“Avvertenza: Contenuto che scotta!”).
Questa rimozione di un istinto essenziale per la sopravvivenza dell’uomo ha portato a una popolazione passiva, ricettiva e ben nutrita classificabile come  “docilians“, persone che chiedono più sicurezza e più certezza senza aver più la capacità di prendersi un minimo rischio. Insieme a decenni di ricchezza e di diritti, gli individui si sono trasformati in una tribù dei social media che riafferma continuamente alle autorità che l’individuo non deve assumersi nessun rischio. La precauzione (meglio prevenire che curare) è uno strumento politico facile per governanti-regolatori pigri perché non devono essere giusti nelle loro decisioni, ma devono solo far sentire che stanno offrendo sicurezza alla popolazione.
Guru e attivisti hanno rafforzato questo desiderio-dociliano per un mondo a rischio zero e hanno spinto lo strumento della prevenzione fino a limiti che vietano certi prodotti solo perché possono presentare rischi minimi o inesistenti: tracciare il livello di pesticidi nei cereali per la colazione, i vaccini, ipotetici frammenti di plastica nelle lattine, l’acrilammide sulle patatine fritte. Questi docilians, abituati a essere protetti, non si preoccupano delle conseguenze delle loro scelte sulla salute globale, sulla sicurezza alimentare o sul benessere economico – sono i “fatti” che vogliono sentire e sono questi che li nutrono.
Ricerca e innovazione sono diventate un  peso burocratico perché i docilians si rifiutano di accettare qualsiasi rischio o qualsiasi incertezza. Laddove chi deve scrivere le regole cerca di imporre una razionalità scientifica nei processi, questa tribù di devoti attivisti chiede di sostituire i tecnici e gli scenziati con panel di cittadini (persone come loro) che chiedono maggior prudenza e che bloccano qualsiasi assunzione di rischio.
I docilians sono riusciti a smantellare il processo di gestione del rischio sia in Europa  che in America fino al momento in cui è successo qualcosa a Wuhan.
Il Covid-19: la dura realtà del rischio
In soli tre mesi nel 2020, l’intera cultura docilian contraria a assumersi qualsiasi rischio è stata infettata da un virus mortale che  non ha saputo contrastare con i suoi troppo deboli strumenti di gestione del rischio. Tutti coloro che dovevano gestire il rischio hanno cominciato  a dire alle loro popolazioni quello che le popolazioni volevano sentire: che questo virus era una minaccia solo per la Cina e che il rischio (per gli altri) era zero. Ma mentre il rischio si avvicinava, il massimo che sapevano fare era ricordare alle persone di lavarsi le mani … con il sapone.
L’unico strumento ammesso dai docilians era il principio di prendere tutte le precauzioni necessarie: quando c’è incertezza (quando non è possibile dimostrare che una situazione è sicura), prendere tutte le precauzioni (fermare qualsiasi azione, qualsiasi processo, o qualsiasi sostanza che provochi incertezza). In una situazione normale, le precauzioni si prendono quando tutti gli altri mezzi per gestire i rischi (e ottenere benefici) sono andati a vuoto.
Dieci settimane dopo la scoperta di un nuovo coronavirus, l’unica misura adottata dalla maggior parte delle autorità occidentali, mentre l’epidemia  stava già imperversando fuori controllo, è stata bloccare intere popolazioni dentro casa e prendere tutte le precauzioni (fermare tutto) per cercare di rallentare la trasmissione del virus.
Perché le autorità non sono state in grado di mettere in atto solide misure per ridurre il rischio nelle 10 settimane prima del ​​crollo dell’economia occidentale e delle libertà civili?
Avrebbero potuto sperimentare e fare dei test, avrebbero potuto costruire ospedali, mettere dei firewall virali intorno alle popolazioni più vulnerabili e dare istruzioni su come rafforzare i livelli di immunità e alzare il livello di resistenza,  oppure rimuovere quegli elementi che avrebbero potuto far aumentare la trasmissione del virus negli spazi pubblici. La maggior parte dei bambini di 10 anni dovrebbe già sapere cosa fare quando arriva una tempesta, ma i docilians si sono abituati a vivere nella bambagia senza nessuna responsabilità, come se avessero diritto a vivere in un mondo senza rischi, sicuri che altri si prenderanno cura di loro.
Così, mentre nel giro di poche settimane le popolazioni occidentali hanno perso la maggior parte dei loro benefits sociali ed economici e hanno subito perdite enormi a causa della loro incapacità di proteggere i più vulnerabili, i docilians si sono svegliati. Sarebbe ora perciò di riflettere sul fatto che le nostre procedure di gestione del rischio sono tutte sbagliate.
Riscrivere la gestione dei rischi.
La troppa precauzione è uno strumento politico fallito che ha indebolito la capacità dell’umanità di prosperare e di proteggersi. In tempi di benessere, i benefici persi per effetto delle troppe precauzioni sono stati avvertiti solo dai più deboli, ma quei tempi ormai sono passati. I capi che decidono di prendere le giuste precauzioni devono proteggere i più vulnerabili, ma in questo incubo che stiamo vivendo per colpa dei docilians, le cose si sono capovolte. La troppa precauzione ha vietato l’uso di strumenti e tecnologie che proteggono i raccolti, per consentire ai ricchi di mangiare alimenti biologici; ha respinto i progressi della medicina per far comprare gli integratori a chi sta bene; ha vietato l’uso di certe forme di energia e  solo i ricchi hanno potuto permettersi di tenere accese le luci. Ma il Covid-19 non ha risparmiato i ricchi e ha ricordato a tutti che l’esistenza dell’umanità è, per sua natura, fragile.
La scienza sin dai tempi di Francis Bacon è sempre stata consapevole di questa fragilità e della necessità di proteggere i deboli dalle devastazioni della natura. La perversione dei docilians (che va contro la scienza per difendere la natura) alla fine dei conti ha reso deboli tutti. Rimettere la scienza al centro della gestione del rischio sarebbe un primo passo.
La troppa precauzione non è nemmeno uno strumento di gestione del rischio (cerca semplicemente di gestire l’incertezza). L’incertezza (l’azzardo) è inevitabile e non esiste un rischio zero. Quello che fa la gestione dei rischi è cercare di ridurre l’esposizione ai pericoli al minimo ragionevole (ALARA). Gli argomenti da dibattere sulla gestione del rischio devono riguardare quello che è ragionevole fare alla luce dei benefici realizzabili e non della insaziabile emotività su cosa sia “sicuro” e cosa sia “certo”.
Con questo risveglio dei docilian, abbiamo l’opportunità di rimettere la gestione del rischio nel solco di quanto è scientifico, razionale e realizzabile. Forse la prossima volta che la natura alzerà i suoi brutti artigli, disporremo degli strumenti che servono per proteggere gli uomini più vulnerabili.
Le dichiarazioni, le opinioni e le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di RT. 
David Zaruk, analista e professore di rischio per la salute ambientale con sede a Bruxelles. Ha lavorato nella gestione del rischio e nelle comunicazioni scientifiche per l’industria, le istituzioni pubbliche e l’accademia dagli anni ’90. Scrive un blog sotto il nome The Risk-Monger
24.03.2020
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte  comedonchisciotte.org  e l’autore della traduzione Bosque Primario

Basta col coronarenzi. - Tommaso Merlo



Chiuso in casa Renzi non sapeva che minchiata inventarsi per finire sui giornali, così ha pensato bene di proporre di “riaprire tutto” nel bel mezzo della pandemia. La sua Italia Viscida è data intorno al 2%, perfino i parenti l’hanno mollato. La sua linea politica di rompere i coglioni al governo di cui fa parte si sta rivelando un suicidio politico, ma lui insiste. Autodistruzione. Renzi non è un virologo. Non capisce un cazzo di come si gestisce una pandemia. Zero. Se mai ne usciremo, lo dovremo al fatto che il governo Conte ha seguito le indicazioni degli esperti e dell’OMS. Gli scienziati smentiscono Renzi in coro e lo implorano di chiudere la bocca per non alimentare aspettative e creare disordine che potrebbe indebolire le misure di contenimento adottate. Ma Renzi insiste. 
Dopo aver sputtanato il governo di cui fa parte sui giornali stranieri, vuole “riaprire tutto”. Lo fa mentre tutto il sistema Italia lavora giorno e notte per reagire alla crisi più grave del secolo, lo fa mentre non si sa più nemmeno dove sotterrare i morti, lo fa mentre milioni di persone sono chiuse in casa impaurite e sofferenti, lo fa mentre il virus sta impazzando in tutto il mondo, lo fa mentre muoio dottori e infermieri e generazioni di anziani vengono decimate, lo fa mentre gli appelli all’unità e alla serietà della politica non si contano più. Davvero un comportamento irresponsabile. Forse una delle pagine peggiori della già imbarazzante carriera politica di Renzi. Un personaggio del genere meriterebbe solo di essere ignorato e dimenticato. E presto succederà. Ma oggi purtroppo galleggia ancora perché sostiene il governo. O si far per dire visto che lo mina da quando ha contribuito a farlo nascere. Mentre Renzi blatera di riaprire come un Trump qualunque, ci sono famiglie che cominciano a rimanere senza soldi per fare la spesa. Il governo propone compatto un reddito di cittadinanza “di emergenza” per prevenire possibili rivolte. Ma Renzi ovviamente si mette di traverso. Come al solito le sfrutta proprio tutte per qualche brandello di visibilità. Una situazione non più tollerabile. Renzi si è gonfiato come una mongolfiera. Quando si collega via Skype la webcam non riesce a riprenderlo tutto. Ma il cibo non gli basta, il suo ego vuole esibirsi, vuole il centro della scena. Il solito stranoto coronarenzi. Gli italiani vogliono invece che il governo li conduca fuori da questa tragedia immane e al più presto. Siamo oltre i 10.000 morti e non s’intravede ancora una luce nitida in fondo al tunnel. Il premier Conte e tutto il governo devono procedere spediti senza permettere più a Renzi di farci perdere tempo ed energie preziose.

Dimessi ma spediti in Rsa e hospice: 2.400 ex pazienti. - Maddalena Oliva e Natascia Ronchetti

Dimessi ma spediti in Rsa e hospice: 2.400 ex pazienti

È l’effetto di una delibera del 23 marzo della Regione Lombardia: possono essere ancora contagiosi.
Il rischio è di creare nuovi focolai.


- Ottomila e zero uno. Tanti sono i dimessi in Lombardia, dall’inizio dell’epidemia a oggi. Tra i numeri del bollettino che l’assessore al Welfare Giulio Gallera ogni giorno legge nella sua diretta Facebook “Lombardia notizie online”, sono quelli di solito accompagnati dalla rincora al sorriso. “MA oggi abbiamo avuto ANCHE 200 dimessi, 200 pazienti Covid che non sono più malati e hanno lasciato i nostri ospedali. Questa è una buona notizia”: ha detto ieri. Il giorno prima, i dimessi erano stati 1.501, quello prima ancora 990. Ma degli 8.001 dimessi in tutto, da quel maledetto 21 febbraio, il 30% – circa 2.400 persone – ha sì lasciato l’ospedale, ma è stato re-indirizzato verso gli hospice, le strutture per le cure palliative e l’assistenza ai malati terminali, e verso residenze sanitarie assistenziali, le case di riposo, presenti in tutta la regione.
A lanciare l’allarme qualche giorno fa era stato Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo. “Poiché negli ospedali bisogna liberare posti letto – aveva detto al Fatto – i pazienti Covid convalescenti vengono mandati nelle strutture per gli anziani, col rischio che queste diventino a loro volta dei focolai”. Per lo più si tratta di pazienti Covid “clinicamente guariti”. Vale a dire senza più sintomi come tosse, febbre, mal di gola. Questo però non significa che “guariti” in effetti lo siano. “Noi non sappiamo se hanno ancora una carica virale”, spiega Agazzi. Per averne certezza, è necessario eseguire due tamponi a distanza di 24 ore l’uno dall’altro e, entrambi, devono risultare negativi (con esito validato dall’Istituto superiore di sanità). Ma sappiamo che coi tamponi, visti i numeri dell’emergenza, In Lombardia non si riesce a star dietro ai “sospetti” Covid, figurarsi ai pazienti dimessi.
La questione, però, è fondamentale. Perché è proprio con il rischio di essere potenzialmente ancora contagiosi che i pazienti Covid dimessi dagli ospedali varcano la soglia di altre strutture sociosanitarie. E – stando anche al dato confermato dallo staff dell’assessore Gallera – succede per un dimesso su tre. La strada per liberare posti letto del resto è tracciata. Lo ha deciso la giunta del governatore Attilio Fontana di fare ricorso alla rete degli hospice. Con una delibera del 23 marzo che stabilisce, con “ulteriori determinazioni in ordine all’emergenza Coronavirus”, l’istituzione di un supporto di cure palliative, “per la presa in carico dei pazienti Covid complessi, cronici e fragili” sia in ambito domiciliare, sia attraverso l’attivazione di percorsi di consulenza.
I nuovi ricoveri per questi pazienti – nella maggioranza dei casi tutti over 75 – sono già scattati, come conferma la case di cura Domus Salutis di Brescia. Assieme all’istituto Maugeri e a una struttura della Fondazione Don Gnocchi hanno preso in carico i pazienti Covid dimessi a Brescia, una delle zone più colpite dal virus. “Ci sono due tipologie di trattamento: quella domiciliare e quella in reparto”, spiega Luigi Leone, direttore sanitario della Domus Salutis. “Parliamo di pazienti che possono essere ancora contagiosi e quindi dobbiamo attrezzarci per garantire la tutela dell’operatore sanitario e per assicurare l’assistenza adeguata. Arrivano tutti da ospedali pubblici che devono essere alleggeriti. Noi abbiamo separato i percorsi di accesso per non ripetere gli errori che sono stati fatti in passato dai pronto soccorsi, ma dobbiamo stare molti attenti. Nelle Rsa o in altre strutture sociosanitarie è già entrato qualcuno infettato: ed è stata una strage”.
A Milano anche l’Istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi ha aperto le porte ai pazienti Covid dimessi. In questo caso non parliamo però di un istituto per “cure palliative”, ma di una residenza per gli anziani (Rsa). È sempre Regione Lombardia ad aver chiesto alla Fondazione Don Gnocchi la disponibilità ad accogliere i “clinicamente guariti” nei due hospice afferenti la struttura. Disponibilità ancora in corso di valutazione, secondo i vertici della Fondazione. All’istituto Palazzolo, dopo i primi ricoveri, sono arrivati infatti anche i problemi. E, per molti dei parenti degli anziani che si ammalano, e che spesso già versano in condizioni precarie, l’accusa di “procurata epidemia” inizia a levarsi sempre più forte. È il caso della figlia di un’ospite 71enne, una donna in buona salute ma affetta da demenza senile, morta di Covid19: la figlia ha consegnato un esposto in procura. Il legale della famiglia chiede l’autopsia della 71enne: ipotizza il reato di omicidio colposo per una cattiva gestione e per la diffusione colposa dell’epidemia.
Il ricorso alle Rsa e agli hospice per i pazienti dimessi Covid non piace ai parenti degli ospiti ma nemmeno ai medici. “Parliamo di strutture, soprattutto le residenze per anziani, dove ci sono persone estremamente fragili”, dice Agazzi. “Un paziente Covid impone misure di protezione importanti: non bastano divisioni fisiche, serve anche personale addestrato, che non può e non deve muoversi da un reparto all’altro. Servono i dispositivi di sicurezza… Ecco perché continuo a ripetere: gli errori che stiamo facendo continuano a essere tanti. Troppi. Perché se ora siamo in guerra, combattiamo, ma quando finirà, ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministratori in tribunale”.


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sabato 28 marzo 2020

Coronavirus, Renzi nel momento più duro della pandemia: “Riaprire fabbriche subito, le scuole il 4 maggio”. Burioni al Fatto.it: “Progetto irrealistico”. Lopalco: “Una follia, dà false speranze ai cittadini”.



Coronavirus, Renzi nel momento più duro della pandemia: “Riaprire fabbriche subito, le scuole il 4 maggio”. Burioni al Fatto.it: “Progetto irrealistico”. Lopalco: “Una follia, dà false speranze ai cittadini”

L'ex premier vuole riaprire tutto: "Dobbiamo convivere con il virus, la gente non può morire di fame in un'Italia ibernata per un altro mese", dice ad Avvenire. Ma la soluzione viene bocciata sonoramente dagli esperti. Lopalco: "False speranze ai cittadini". Cartabellotta: "Non ha imparato nulla dalla tragedia di Bergamo". Pregliasco: "Prematuro"

Le fabbriche riaperte prima di Pasqua, le scuole il 4 maggio. La ricetta di Matteo Renzi è quella del “riapriamo” tutto perché “se restiamo chiusi la gente morirà di fame”. Ma se il problema della liquidità delle famiglie è certo e il governo sta studiando come parare il colpo, la soluzione dell’ex premier – illustrata il giorno dopo i quasi 1000 morti in 24 ore in un’intervista ad Avvenire – viene bocciata dagli scienziati, anche con parole durissime.
Contattato da Ilfattoquotidiano.itRoberto Burioni, professore di microbiologia e virologia all’Università San Raffaele di Milano, premette: “Dobbiamo senz’altro cominciare a pensare a una ripresa delle nostre vite: non possiamo pensare che la gente stia in casa pensando di rimanere in casa per sempre”. Ma sottolinea: “Però in questo momento la situazione è ancora talmente grave da rendere irrealistico qualunque progetto di riapertura a breve”. Duro il commento di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: “Dalla tragedia di Bergamo non ha imparato proprio nulla”. Mentre l’epidemiologo Pierluigi Lopalco definisce una “follia” l’idea del leader di Italia Viva che rischia di infondere “false aspettative e speranze” nei cittadini. E anche Gianni Rezza dell’Istituto superiore di Sanità ricorda che oggi “non si può dire nulla, non prima della fine del mese”. Contrario anche il virologo Fabrizio Pregliasco: “Pensare di riaprire le scuole è prematuro. È giusto pensare al futuro ma serve molta attenzione”.
“Questo virus ci farà ancora male. Non per settimane, per mesi e mesi. Il vaccino non c’è e se andrà bene torneremo ad abbracciarci tra un anno, se andrà male tra due…”, esordisce Renzi nell’intervista al quotidiano cattolico e invita a non aspettare “che tutto passi” perché “se restiamo chiusi la gente morirà di fame”. Insomma, a suo avviso, con il coronavirus bisogna “convivere” e quindi “consentire che la vita riprenda” e “bisogna consentirlo ora”.
“Sono tre settimane – dice l’ex premier – che l’ Italia è chiusa e c’è gente che non ce la fa più. Non ha più soldi, non ha più da mangiare. I tentacoli dell’usura si stanno allungando minacciosi, specialmente al Sud. Senza soldi vincerà la disperazione. Serve attenzione, serve gradualità, serve il rispetto della distanza. Ma bisogna riaprire”. L’Italia “non può restare ibernata per un altro mese” perché “così si accende la rivolta sociale”, per questo “le istituzioni devono agire senza perdere nemmeno un giorno”.
Le paure sono ovviamente condivise anche dal resto del governo. Ma mentre esponenti Pd e M5s chiedono e studiano un’estensione del reddito di cittadinanza, il leader di Italia Viva lo boccia (“Non funziona, non garantisce la ripartenza”) e vuole un “piano per la riapertura”. Ovvero: “Le fabbriche devono riaprire prima di Pasqua. Poi il resto. I negozi, le scuole, le librerie, le messe”. La proposta “concreta” è che si torni sui banchi “il 4 maggio”, almeno i 700mila studenti delle ‘medie’ e i 2 milioni 700mila delle ‘superiori’. Una proposta che anche Carlo Calenda definisce “poco seria”. Mentre l’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, si dice “rattristrato” di “leggere che un ex Presidente del Consiglio, in un momento così difficile, pur di stare al centro dell’attenzione faccia proposte dannose nel merito e pericolose per la tenuta psicologica del Paese. Sic transit”.
E la risposta degli esperti è tranchant. “Pensare di riaprire le scuole il 4 maggio è una follia e fare proclami in questo momento è sbagliato”, risponde l’epidemiologo dell’università di Pisa Pierluigi Lopalco. “Dobbiamo essere cauti a dare illusioni se non abbiamo dati – rimarca – oggi abbiamo solo una flebile speranza in Lombardia ma ad esempio a Milano la situazione non è ancora sotto controllo. Come facciamo a riaprire le scuole se non abbiamo certezze. Non diamo false aspettative e speranze”. La verità, aggiunge poi l’epidemiologo, “ancora non la conosce nessuno, quello che è certo è che se riapriranno subito fabbriche e scuole, senza un piano basato sulle evidenze scientifiche, molti con il coronavirus conviveranno per brevissimo tempo”.
Duro il presidente della Fondazione Gimbe: “Riaprire prima di Pasqua? Governo e Parlamento decidano prima quante vite umane vogliono sacrificare per far ripartire l’economia – dice Cartabellotta – Renzi dalla tragedia di Bergamo non ha imparato proprio nulla”. Critico anche Gianni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto superiore di sanità: “Come epidemiologo devo guardare la salute pubblica e ora occorre rallentare e arrestare l’epidemia. Non possiamo tenere l’Italia chiusa per sempre, ma occorre prima vedere gli effetti delle misure importanti messe in campo dal governo”. In questo momento, aggiunge, “non si può dire nulla, non prima della fine del mese. Poi si possono studiare provvedimenti magari ‘stop and go’ o misure complementari. Vedremo cosa accadrà”.
Quello di Renzi è un discorso “prematuro”, invece, per il virologo dell’Università di Milano, Fabrizio Pregliasco: “Pensare di riaprire le scuole è prematuro. È giusto pensare al futuro ma serve molta attenzione. Dovremmo convivere con il fatto che pandemie come questa possono anche tornare, è accaduto con la Spagnola”. Questo virus, conclude, “non ce lo toglieremo dai piedi velocemente, ma in questa fase è necessario agire per poter arginare la dimensione di morti che c’è stata in Lombardia”.

Coronavirus: fratellini in quarantena da soli, il paese li aiuta.


Foto archivio

Per il Covid-19 la nonna è morta e la madre ricoverata. Il sindaco diventa tutore.


Due fratellini molto piccoli di età sono chiusi in casa da giorni, in isolamento sanitario per coronavirus, da soli, a Montevarchi (Arezzo), e per assisterli si è mossa una particolare catena di solidarietà ed assistenza della cittadina. Come riporta La Nazione, i bambini, in età scolare da elementari, sono in quarantena da soli dopo che per Covid-19 la nonna, 80enne, è morta giovedì scorso nel reparto di rianimazione dell'ospedale di Arezzo, e sempre nello stesso ospedale è ricoverata anche la madre, un'operatrice sanitaria le cui condizioni sono in netto miglioramento. Il padre non c'è, quindi, adesso, tutore dei bambini per questa fase complicata è diventato lo stesso sindaco di Montevarchi, Silvia Chiassai Martini.

L'assistenza quotidiana ai due fratellini viene fatta da alcuni parenti, da persone della parrocchia che consegnano il cibo per pranzo, merenda e cena, da volontari. Nel giardino sotto casa, adeguatamente sanificato, staziona giorno e notte un camper, con un volontario a turno, pronto ad accorrere in caso di emergenza. Un operatore da fuori parla con i bambini affacciati al balcone. Inoltre i piccoli mantengono i contatti con la madre attraverso le videochiamate. Durante la notte è attivo un numero con un operatore sempre a disposizione per qualsiasi problema dovesse presentarsi. 

Dai molluschi ai cervi, il menù mare e monti dei Neanderthal.

La grotta vicino a Lisbona in cui sono stati trovati i resti che permesso di ricostruire la dieta dei Neanderthal (fonte:  Zilhao et al. Science) © Ansa
La grotta vicino a Lisbona in cui sono stati trovati i resti che permesso di ricostruire la dieta dei Neanderthal (fonte: Zilhao et al. Science)

Cozze, vongole, granchi, orate, foche: per la prima volta una ricerca dimostra che i Neanderthal mangiavano cibo di mare, proprio come facevano i loro contemporanei Sapiens dell'Africa meridionale, e che avevano un ricco menù di mare e monti che comprendeva anche oche, cervi, e persino pinoli. Il risultato, pubblicato sulla rivista Science, si deve alla ricerca guidata da Joao Zilhao, dell'università di Barcellona, e da Diego Angelucci, dell'università di Trento, che ha ricostruito il menù grazie ai reperti rinvenuti in una grotta vicino a Lisbona.

La ricerca è un'ulteriore prova a sostegno delle capacità intellettive di questi uomini considerati fino a pochi anni fa rozzi e primitivi, confermando invece che possedevano un buon sviluppo tecnologico e avevano familiarità con il mare e le coste. La grotta di Figueira Brava, protagonista della scoperta, è stata frequentata da gruppi di neandertaliani nel periodo compreso tra circa 106 mila e 86 mila anni fa.

"Lo scavo - spiega Angelucci - ha permesso di recuperare resti relativi all'occupazione della grotta da parte dei neandertaliani: strumenti in pietra scheggiata, resti di pasto, residui dell'uso del fuoco". I resti di pasto hanno sorpreso molto i ricercatori perché includono molluschi (cozze, vongole e patelle), crostacei (granceole e altri granchi), pesci (squali come lo smeriglio, il cosiddetto vitello di mare, e la verdesca, ma anche anguille, orate, gronghi, cefali, vari uccelli marini o acquatici (tra cui germani reali, oche selvatiche, gazze marine), e mammiferi marini (delfini e foche grigie).

A questi si aggiungono i resti dei prodotti della caccia, che includeva il cervo, lo stambecco, il cavallo, e la tartaruga terrestre, e resti di risorse vegetali, come vite selvatica, fico e pino domestico, di cui sono stati rinvenuti frammenti di legno, pigne e gusci di pinoli.

Secondo Angelucci, "i dati aggiungono un ulteriore contributo alla rivalutazione del modo di vita dei neandertaliani". Se è vero che il consumo abituale di alimenti di origine marina ha giocato un ruolo determinante nello sviluppo delle capacità cognitive dei nostri antenati Sapiens, "bisogna quindi riconoscere che questo processo avrà riguardato l'intera umanità e non solo una popolazione limitata dell'Africa australe che si è poi espansa fuori dal continente africano".


https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/ragazzi/news/2020/03/26/dai-molluschi-ai-cervi-il-menu-mare-e-monti-dei-neanderthal-_e447484f-8e47-46e9-9f09-2a33ede4c451.html

venerdì 27 marzo 2020

Bertoleso - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 27 Marzo


Bertolaso lunedì stringeva mani ad Ancona senza i guanti e con la ...

Tutto ci divide da Bertolaso tranne il sentimento di umanità che ci fa tifare per lui, così come per tutti gli altri malati. Ma più leggiamo le cronache del suo contagio, più ci domandiamo che diavolo sia saltato in mente alle volpi delle Regioni Lombardia e Marche di reclutarlo. A noi, per sconsigliarne l’ingaggio, bastavano i precedenti nell’emergenza terremoto e in tutte le altre (finte) di cui B. lo nominò supercommissario con pieni poteri. Ma ora il Messaggero aggiunge motivi più attuali in uno straziante ritratto dell’Eroe dei Due Mondi partito dal Sudafrica per salvare l’Italia con le nude mani, il “super medico” che “non è tipo da adagiarsi nel letto”, ma “lavora, coordina, decide via telefono e computer” e “nel suo isolamento tutt’altro che remoto lo chiamano tutti, da Conte ad Arcuri, da Berlusconi a Salvini e a Meloni, da Zingaretti e a mezzo mondo”, “convinto che ancora una volta in hoc signo vinces”.
Il virus, secondo CaltaNews, potrebbe averlo ghermito lunedì nelle Marche, dove un filmato lo immortala con la mascherina sbagliata e resa comunque vana dalle allegre strette di mano senza guanti che, contro ogni regola e buon senso, Mister Wolf distribuisce a chiunque passi di lì. O forse alla Fiera di Milano, “parlando con tutti, avendo mille contatti e scambiando continue parole, oppure nel palazzo della Regione lombarda”. Così ora chiunque l’ha incontrato è in quarantena: i suoi “quattro collaboratori”, il “governatore marchigiano Ceriscioli, il presidente del consiglio regionale e altri”. Tutti tranne Fontana, perché è appena uscito dall’altra quarantena e poi “l’ho visto solo due minuti” e in due minuti quel bradipo del Corona non fa in tempo. Ma “come sarebbe accaduta la trasmissione?”, domanda il Messaggero.
“Bertolaso non fa mistero di sentirci poco da un orecchio”. Ohibò. “E si avvicina ai suoi interlocutori per ascoltare bene quello che hanno da dire”. Purtroppo, “se non c’è distanza di sicurezza di almeno un metro, il virus può attaccare”. Già, ormai lo sanno pure i quidam de populo: possibile che non lo sappia il supermedico superconsulente superesperto? Forse lo sa ma, mezzo sordo com’è, non può tenere la giusta distanza: metti che uno gli dica “ospedale” e lui ordini un cordiale, o un pedale, o un maiale, o un pitale. Non sia mai. Quindi, a furia di tendere l’orecchio a questo e quello, uno infetto deve avergli sputato in un occhio. Ma benedett’uomo: non poteva dirlo prima che, oltre a essere a rischio per i suoi 70 anni, è pure audioleso e affetto dal raptus compulsivo delle strette di mano, e restarsene in Africa? Con tutti i guai che ha la Lombardia, le mancava giusto lui.


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