Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 8 luglio 2020
Dietro il mes, la voglia di teleguidare l’Italia. - Lucio Baccaro*
Si moltiplicano gli appelli nazionali e internazionali affinché l’Italia sottoscriva un prestito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di supporto alla crisi pandemica. L’ultimo, con un’intervista al Corsera del 4 luglio, è di Valdis Dombrovskis, vice presidente della Commissione.
Chiariamo subito che il Mes è vincolato al rispetto di una rigorosa condizionalità (art. 136(3) del trattato europeo). Occorre inoltre considerare gli effetti del regolamento comunitario 472/2013, che prevede che un paese che accede a un finanziamento Mes è sottoposto a “sorveglianza rafforzata”, e che nel corso di essa il Consiglio possa decidere, a maggioranza qualificata, che siano necessarie misure più drastiche, compreso un programma di aggiustamento macroeconomico (articolo 3(7) del regolamento). Il 7 maggio scorso una lettera dei commissari Dombrovskis e Gentiloni ha sospeso l’applicazione di alcune parti del regolamento, tra cui l’art. 3(7). Tuttavia, il regolamento non è stato emendato. Non sorprende dunque che alcuni stati membri, tra cui l’Italia, abbiano il timore che accendendo un prestito Mes possano ritrovarsi la troika in casa.
Dando per scontata la buona fede dei commissari, potrebbe verificarsi la cosa seguente: l’Italia entra nel Mes pandemico, e incassa i 36 miliardi. Non ci sono condizionalità immediate, salvo l’uso dei fondi per rispondere alla crisi sanitaria. Nel corso di una missione post-programma, o nell’ambito della procedura del semestre europeo, la Commissione scopre che le condizioni italiane si sono aggravate ed è necessario un intervento ben più consistente per far fronte alla crisi finanziaria imminente o in atto. Non costringe l’Italia a entrare in un programma di aggiustamento macroeconomico, come previsto dall’articolo 14(4) del regolamento, dato che la lettera Dombrovskis-Gentiloni ha disattivato questo comma, ma consiglia caldamente l’ingresso in un programma Mes di dimensioni maggiori. In tali circostanze la pressione politica diverrebbe molto forte, si moltiplicherebbero gli appelli “a fare presto”, e sarebbe molto difficile per il governo italiano, vecchio o nuovo che sia, ignorare l’invito.
È noto che la situazione finanziaria italiana si deteriorerà sensibilmente nel corso del 2020. Il debito pubblico è destinato ad aumentare del 20% del Pil secondo le previsioni più favorevoli. I fondi del Recovery Fund in corso di negoziazione, che l’Istituto Bruegel stima ottimisticamente in 86 miliardi di contributi, saranno molto inferiori al deficit pubblico, stimato da Eurostat all’11% del Pil, 180 miliardi solo nel 2020. Soprattutto, negli ultimi 25 anni il tasso di crescita italiano è stato quasi sempre al di sotto del tasso di interesse.
In queste condizioni, il debito pubblico italiano è sostenibile solo se i tassi di interesse rimangono molto bassi, ovvero fin quando continua il programma di acquisto di debito della Bce. Questo però ha grossi problemi di congruenza con la lettera e lo spirito dei trattati europei, come evidenziato dalla recente sentenza della corte costituzionale tedesca.
Nel futuro più o meno prossimo la politica monetaria della Bce dovrà normalizzarsi. All’inizio della crisi la Presidente Lagarde dichiarò che il compito della Bce non è quello di chiudere gli spread, e aveva ragione di dirlo. Inoltre, le regole fiscali europee (patto di stabilità e crescita, Fiscal Compact), per ora sospese, verranno reintrodotte.
È probabile, dunque, che l’Italia necessiti di un aggiustamento strutturale nel futuro prossimo. Molti attori nazionali e internazionali hanno interesse a far sì che tale aggiustamento, potenzialmente devastante, sia inquadrato nelle regole esistenti in modo da minimizzare i rischi per la zona euro. Tali regole prevedono: negoziazione di un Memorandum of Understanding con relativa condizionalità; accesso a un programma Mes di dimensioni ben più consistenti di quello pandemico; intervento successivo della Bce con il programma di acquisti OMT.
Dunque, mi sembra che dietro all’invito pressante ad accettare i fondi del Mes ci sia il tentativo di incanalare la crisi italiana entro binari consolidati prima che essa si manifesti in tutta la sua gravità, approfittando della presenza di un governo amico (per lo meno in una sua componente). Tuttavia, come tutti i piani che si proiettano in un futuro incerto, molte cose possono deviare dal corso previsto. Per esempio, l’opinione pubblica italiana è fortemente ostile a nuovi programmi di austerità, come evidenziato da due survey experiments del Max Planck Institute. Inoltre, se le cose dovessero davvero andare come descritto sopra, la tenuta delle forze “responsabili” nel panorama politico italiano non è affatto scontata.
*Direttore del Max Planck Institute di Colonia.
martedì 7 luglio 2020
Giorgio Covid. - Marco Travaglio
Si pensava che, dopo il notevole contributo offerto ad alcune delle peggiori catastrofi nazionali dell’ultimo trentennio – dal berlusconismo, al renzismo, al Covid19 – il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si sarebbe preso una lunga vacanza dalle esternazioni. Almeno da quelle in cui, da cotanta cattedra, insegna agli altri cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Invece niente: si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio. Infatti lui continua a pontificare come se niente fosse. Ora, per dire, dopo aver contribuito al fianco dell’Innominabile a trascinare il Pd al minimo storico del 18% nel 2018, s’è messo in testa che il partito debba cambiare segretario. Cioè far fuori Zinga che, fingendosi morto, è riuscito nella mission impossible di riportarlo oltre il 20%, malgrado le scissioni di Italia Viva e Azione (detta anche Calenda). O forse proprio per quelle.
Che Gori sia rimasto berlusconiano, cioè renziano, lo dimostra il prudentissimo pigolio con cui commentò l’uscita più forse invereconda (tra le mille) dell’Innominabile durante il lockdown, quando il suo spirito guida, grande sponsor della riapertura a fine aprile, cioè di Confindustria, non trovò di meglio che chiederla a nome dei bergamaschi morti nella strage da Covid. Lui, anziché mangiarselo vivo come volevano i parenti delle vittime, balbettò che l’uscita era “poco felice, stonata e fuori luogo”, assicurando subito dopo che l’amico Matteo “voleva sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo” e nel “pieno rispetto del dolore di queste province”. Resta da capire perché mai, anziché entrare in Italia Morta, si ostini a restare nel Pd e a strillare perché, anziché con B. e Salvini, governa coi 5Stelle. O meglio, si capisce benissimo: Iv un leader ce l’ha, ma gli mancano gli elettori; il Pd invece gli elettori li ha e, per il leader, lui pensa a se stesso, fra quattro anni quando gli scade il mandato da sindaco, o anche prima. L’età pensionabile, per i politici, è pressoché eterna. E lui ha appena 60 anni, ma ne dimostra molti meno. È come Umberto Agnelli nel ritratto di Fortebraccio: “Sembra un bambino cresciuto soltanto dal collo ai piedi, la faccia gli è rimasta quella degli omogeneizzati”. Un giovane-vecchio con idee decrepite, che abbraccia sempre fuori tempo massimo: ora, per dire, è blairiano e clintoniano, quando Clinton e Blair nei rispettivi paesi non mettono più il naso fuori di casa. Ergo il sindaco al Plasmon piace molto a Confindustria, che a Bergamo regna e governa in condominio con la Curia: infatti l’anno scorso chi comanda nella città alta e in quella bassa fece sì che la Lega candidasse una scartina per non disturbare la sua rielezione.
L’altro giorno il vicesegretario Orlando nota che il Pd è a 5 punti dalla Lega e, senza le due scissioni, sarebbe pari. Apriti cielo. Siccome i sondaggi dimostrano che fece malissimo l’nnominabile nel 2018 a opporsi al governo col M5S, Gori replica al posto degli scissionisti: “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno, a quest’ora dove stava”. Una scemenza assoluta: la dannazione scissionista della sinistra italiana la conoscono tutti i progressisti, dunque non Gori, la cui fama lo precede. Negli anni 80 è uno studente craxiano. Il che gli spalanca le porte di Bergamo Tv e poi della Fininvest (che le ingloba): nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì. Nel ’91, a 31 anni, è direttore di Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo due anni a Italia1. Sotto la sua guida, l’ammiraglia berlusconiana si batte come un sol uomo nel ’93 contro la regolamentazione degli spot (“Vietato Vietare”). Nel ’94 è il megafono della discesa in campo di B.: dagli spottini pro Forza Italia di Mike, Vianello, Zanicchi&C. ai programmi-manganello Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei nemici del capo (Montanelli in primis). Nel ’95 il Canale5 goriano spara a zero contro i referendum per mettere un freno agli spot e un tetto antitrust al gruppo (come ordina la Consulta).
Nel 2001 il marito di Cristina Parodi si mette in proprio e fonda Magnolia, produttrice di format televisivi e fornitrice di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Che lascia ai soci nel 2011 per darsi alla politica nel Pd al seguito dell’unico pidino che piace a B.: l’Innominabile. È Gori il regista delle prime Leopolde (da solo o in tandem con Martina Mondadori, membro del Cda della casa editrice di famiglia rubata con B. a De Benedetti), dove l’amico Matteo promette di rottamare la vecchia Italia prima di diventarne il principale santo patrono. Nel 2014 viene ricompensato con la candidatura a sindaco della sua Bergamo, che però gli va stretta. Infatti nel 2018 corre per la presidenza della Lombardia e riesce non solo a perdere (contro il centrodestra ci sta), ma pure a farsi quasi doppiare da Attilio Fontana (29% a 49%). E torna a più miti consigli nella città natia. Lì intercetta l’ultima disgrazia: il Covid, dandogli una mano a galoppare col famoso appello (a cena con la moglie) “Bergamo non ti fermare!”, anzi tutti in pizzeria, nei negozi e nei musei (“da riaprire”), contro “un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario”. È il 26 febbraio, tre settimane prima delle colonne di mezzi militari in marcia con centinaia di bare. E stare un po’ zitto?
Concessioni balneari, votano tutti la lobby dei balneari: lo Stato prende solo briciole. - Patrizia De Rubertis e Giacomo Salvini
Tre anni fa ci ha messo lo zampino il maltempo eccezionale, nel 2019 è arrivato l’aiutino dell’ex ministro del Turismo, il leghista Gian Marco Centinaio. Quest’anno, causa Covid-19, è stato ancora più facile annacquare “spiaggiopoli”. Con una veloce trattativa tra il senatore forzista Maurizio Gasparri e il ministro Dario Franceschini (Pd) è stato inserito nel calderone del dl Rilancio un emendamento di Deborah Bergamini (FI) – con voto bipartisan in Commissione Bilancio – che proroga le concessioni demaniali marittime, cioè le spiagge, fino al 2033. La storia è sempre la stessa: per tutelare una realtà di piccole imprese – sono 30 mila per lo più a conduzione familiare – l’Italia non riesce a mettere all’asta le concessioni, come vuole l’Europa. Il nemico della lobby degli stabilimenti balneari è la direttiva Bolkestein del 2006. Aggirata nel 2010 dal governo Berlusconi, è stata prorogata di altri 15 anni dalla legge di Bilancio 2019. Ed ora l’emendamento l’ha riformulata per evitare che si creassero dei contenziosi a sfavore dei balneari: troppi Comuni non hanno aggiornato le delibere. Così, quella che dovrebbe essere una gigantesca risorsa economica, si traduce in un misero introito per lo Stato: le concessioni portano all’Erario appena 105 milioni di euro, a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in 15 miliardi di euro annui. Dividendo l’introito per le 25.000 concessioni, i gestori pagano allo Stato “zero”, per dirla con Carlo Calenda. “Il numero delle concessioni cresce ovunque, ma nessuno controlla”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. “Abbiamo svenduto le coste”, dice il segretario dei Verdi Angelo Bonelli: “I prezzi stracciati delle concessioni sono uno scandalo che porteranno l’Italia a risponderne di nuovo davanti alla Commissione Ue”.
Ed eccoli gli affari d’oro. Per il Twiga di Marina di Pietrasanta (quasi 4.500 mq), dove si spendono mille euro al giorno, il proprietario Flavio Briatore (Daniela Santanchè è una socia) paga 17.619 euro di canone allo Stato, contro 4 milioni di fatturato. Un anno e mezzo fa l’imprenditore ha acquistato la concessione dalla storica famiglia di proprietari a 3,5 milioni di euro. Al Papeete (5 mila mq e 35 euro per due lettini e un ombrellone), lo stabilimento romagnolo reso famoso da Matteo Salvini, lo scorso anno i ricavi sono volati a 3,2 milioni, ma il canone – riporta il Corriere – è rimasto fermo a 10 mila euro. Secondo il report di Legambiente, a Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa 7.500 euro all’anno; a Forte dei Marmi il Bagno Felice 6.560 euro per 4.860 mq; il Luna Rossa di Gaeta 11.800 euro per 5.381 metri, mentre il Bagno azzurro di Rimini ne versa 6.700. In Sardegna, per la spiaggia di Liscia Ruja, l’hotel Cala di Volpe paga 520 euro all’anno. Della proroga al 2033 ne beneficeranno di certo i 71 stabilimenti di Ostia (10 km di spiaggia) che, a fronte di ricavi da 300 mila euro, pagano tra i 20 e 40 mila euro l’anno. La giunta capitolina di Virginia Raggi sta portando avanti la battaglia per abbattere gli stabilimenti e le strutture abusive. “Sono arrabbiato – dice il consigliere M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara – con questa norma siamo molto più deboli. Così hanno vinto gli stabilimenti balneari perché con una legge nazionale noi non possiamo più fare niente: ci hanno legato le mani”.
E intanto di aumentare i canoni di concessione non se ne parla. Anzi. Lo stesso emendamento per sanare “una palese ingiustizia” a danno dei gestori delle concessioni “pertinenziali” (cioè bar, ristoranti e chioschi in muratura), ha abolito il pagamento dei canoni calcolato attraverso i valori dell’Agenzia delle Entrate (fino a 200 mila euro), sancendo che non dovranno sborsare più di 2.500 euro. E potranno sanare le morosità pagando solo il 30% del dovuto in un’unica soluzione o rateizzare il 60% fino a un massimo di 6 annualità. Stessa spiaggia, stesso mare, affari d’oro.
lunedì 6 luglio 2020
Non solo Maroni e Alfano: Sua Sanità ingaggia spioni. - Gianni Barbacetto
San Donato - Il primo gruppo della sanità privata dopo aver arruolato ex ministri, assume anche agenti dell’Aise: in arrivo pure il vicedirettore.
Non ci sono soltanto ex ministri (sempre di centrodestra). Il Gruppo San Donato di Paolo Rotelli, primo in Italia nella sanità privata e attivo in Lombardia, assolda non solo politici del calibro di Angelino Alfano e Roberto Maroni, ma anche agenti segreti. Nell’Aise (i servizi segreti per l’estero) in questi giorni si sta giocando la partita per decidere le nomine dei nuovi vertici. Come direttore è già arrivato Gianni Caravelli, al posto di Luciano Carta, diventato presidente di Leonardo. Mancano le nomine dei vice (che potrebbero arrivare a breve).
Sono due le caselle da riempire: c’è quella lasciata libera da Caravelli e poi quella occupata da Giuseppe Caputo, generale della Guardia di finanza arrivato all’Aise molti anni fa e che ora ha presentato domanda di “collocamento a riposo”, ossia pensione, con decorrenza da fine luglio. Caputo poi andrà al San Donato, il gruppo che conta 19 tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti e che nel 2018 ha fatturato di 1,65 miliardi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata.
Caputo entrerà nell’“Ufficio compliance, protezione aziendale e relazioni con le istituzioni”, che cura la security del gruppo e tiene i contatti politici e istituzionali. Affiancherà un vecchio collega, Claudio di Sabato, anch’egli ex generale della Gdf ed ex ufficiale dell’Aise, arrivato al San Donato nel 2019 e che resta il numero uno.
Caputo dovrà occuparsi delle relazioni istituzionali e della sicurezza, in vista della programmata espansione del gruppo San Donato nei territori del Sud Italia. “Avevamo bisogno di una figura professionale come la sua per operare in un territorio complicato come il Meridione, a rischio di infiltrazioni criminali”, spiegano fonti del gruppo.
Così si è pensato a un professionista che in Aise ha messo piede nel lontano 1998 e che è poi stato capo di gabinetto di Alberto Manenti, quando questi guidava i servizi segreti per l’estero, per poi diventarne vicedirettore.
Con l’arrivo dello 007 si completa la squadra di vertice del San Donato. Nel luglio 2019 era stato scelto l’ex delfino di Silvio Berlusconi e poi fondatore del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano, chiamato con il ruolo di presidente del San Donato. Nel giugno 2020, invece, sono stati formati i nuovi consigli d’amministrazione delle società del gruppo. Tra i nuovi arrivi c’è stato anche Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia, entrato nel cda degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo. E poi c’è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy. Iannini, moglie di Bruno Vespa, è entrata a far parte del consiglio d’amministrazione della holding e in quello dell’Ospedale San Raffaele, fiore all’occhiello del gruppo.
E dunque: Alfano, Maroni, Iannini. Impossibile non notare come gli organigrammi del gruppo siano pieni di figure che vengono da partiti e da ministeri, personalità che di certo durante la loro carriera hanno tessuto non pochi rapporti. Inoltre, gran parte del fatturato del San Donato proviene dai soldi pubblici, tramite gli accreditamenti che i suoi ospedali hanno ottenuto, a partire dai bei tempi della riforma di Roberto Formigoni che ha aperto il sistema sanitario lombardo ai privati (un modello che durante la crisi Covid ha mostrato tutti i suoi limiti).
Ma forse la politica non basta. Al gruppo evidentemente serve anche chi ha avuto esperienze di primo piano nelle strutture dell’intelligence.
Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio
Poliglotta. “Il libro di Annalisa Chirico: ci vorrebbe la triade Salvini-Draghi-Renzi” (Vittorio Feltri, Libero, 5.7). Ma poi ci vorrebbero pure tre lingue come le sue per leccarli tutti e tre.
Autonomia differenziata. “Se il Covid è ripartito la colpa è anche del governo” (Luca Zaia, Lega, presidente Regione Veneto, La Stampa, 5.7). É l’“autonomia differenziata”: se il virus sparisce, è merito della Regione; se ricompare, è colpa del governo.
Nostalgia canaglia. “Genova, lettera di Autostrade al commissario: ‘Siamo pronti a gestire il nuovo ponte’” (La Stampa, 5.7). L’assassino torna sempre sul luogo del delitto.
La Mes-tatrice. “Attivare il Mes per essere più credibili in Ue” (Veronica De Romanis, La Stampa, 29.6). Se non lo vuole nessuno, è perchè fanno tutti a gara a chi è meno credibile.
Ball Party/1. “Fondo un partito perchè per lasciare l’Ue ci vogliono le palle” (Gianluigi Paragone, ex Lega, ex M5S, ora gruppo misto, Libero, 29.6). Quelle che racconta lui.
Ball Party/2. “Voglio stampare moneta” (Paragone, ibidem). Ha già trovato la tipografia: quella di Totò e Peppino.
Transennate i seggi. “Veneto, per i renziani c’è Sbrollini” (Corriere della sera, 4.7). Ah, beh, allora: sono soddisfazioni.
Berticasta. “Se rinuncerei al vitalizio? Domanda stupida a cui sarebbe stupido rispondere di sì” (Fausto Bertinotti, ex leader Rifondazione comunista, 27.6). Mai come gli stupidi che ti han votato per 20 anni.
La pulce con la tosse. “Conte si muova: le risorse ci sono” (Emma Bonino, La Stampa, 30.6). Se no?
Senti chi inquina. “L’onda verde che non tocca il Belpaese” (Massimiliano Panarari, La Stampa, 3.7). Ha parlato l’house organ del Tav Torino-Lione.
Brava Lucia. “Nella gara tra incapaci la Azzolina stravince” (Maurizio Belpietro, La Verità, 28.6). “La perfida Azzolina lascia senza docenti le scuole del Nord” (Libero, 3.7). Servono altre prove per dimostrare che è bravissima?
Mai dire anti. “L’antiberlusconismo è stato il più grande incubatore del populismo della storia italiana. Prima sarà chiaro e prima saremo in grado di combattere davvero il populismo” (Claudio Cerasa, Il Foglio, 3.7). Quante parole per dire che B. paga meglio di tutti.
Solo in Italia. “Salvini ‘disgustato’ dai pm: ‘Solo in Italia esistono certi tribunali’” (Libero, 2.7). Quelli che, se rubi 49 milioni allo Stato, te li lasciano restituire in comode rate per 79 anni.
Il palo. “E Bonafede fa scappare pure il super bandito Mesina” (il Giornale, 4.7). Gli ha annodato personalmente il lenzuolo alle sbarre.
L’estremo oltraggio. “Il giudice Franco, una persona perbene” (Silvio Berlusconi, Il Riformista, 3.7). Povero defunto, non meritava.
Martellate. “Voglio restituire l’onore ai socialisti. Il principale punto di distinzione fra me e Craxi riguarda la questione morale” (Claudio Martelli, ministro della Giustizia e vicesegretario Psi, 4.9.1992). “Craxi non ha voluto usare la scopa o la spada contro i corrotti” (Martelli, 12.9.92). “Se il Psi rischia la liquidazione, è̀ anche perchè Craxi ha invitato i cittadini ad andare al mare anzichè votare i referendum. C’è chi ha lasciato che il malcostume si diffondesse e ha risposto in modo improvvido alle inchieste giudiziarie sulla corruzione” (Martelli, 28.11.92). “Io ero una specie di ideologo del partito, ho avuto la fortuna di non dovermi occupare di tangenti. Le mie campagne elettorali le ha sempre pagate il partito, proprio per il mio ruolo e il mio rapporto con Craxi. Chi le ha pagate? Questo, per fortuna, non lo so. Ma a Milano io vedevo quel che accadeva e denunciavo. Dal 1982” (Martelli, 23.12.92). “Il plotone di esecuzione per Berlusconi lo conosciamo bene: è quello che ha preso la mira su di noi nel 1993, decidendo di far fuori una classe politica” (Claudio Martelli, pregiudicato per la maxitangente Enimont, Il Riformista, 1.7.2016). Solo che, mentre il plotone di esecuzione prendeva la mira, Martelli già sparava da mesi.
Somaretti. “Certo è proprio un ciuccio: gli spieghi le cose, chiare chiare, poi gli dici: ‘ripeti’, e lui ripete tutto sbagliato. Sto parlando di Marco Travaglio, l’avete capito, no? C’è un argomento che proprio non gli entra in testa: il Diritto… Gli avevamo spiegato che non è vero che il 1° agosto 2013 sarebbe scattata la prescrizione e il processo a Berlusconi sarebbe morto lì, e che per questo motivo i giudici della Cassazione si spicciarono e scelsero la sezione feriale… Non è vero: la prescrizione non sarebbe scattata il primo agosto. Lui niente. Ieri ha fatto tutta intera, o quasi, la prima pagina… ripetendo la sciocchezza. Il 1° agosto, il 1° agosto! E ha pure pubblicato la foto di un foglio di carta, che viene dalla Corte d’Appello di Milano, con scritto: ‘Urgentissimo, la prescrizione scatta il primo agosto’…” (Piero Sansonetti, Il Riformista, 1.8). Naturalmente le annotazioni “Urgentissimo” e “Prescrizione 1.8.2013” sono della III sezione della Cassazione, come si vede dalla gigantesca intestazione “Corte Suprema di Cassazione”. Che Sansonetti non sapesse scrivere, era noto: ora è ufficiale che non sa neppure leggere.
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