venerdì 6 novembre 2020

Le capriole di Fontana e degli altri governatori su zone rosse e criteri: prima era “competenza del governo”, ora è “inaccettabile”. - Daniele Fiori

 

Il presidente della Lombardia, fin dal caso di Alzano e Nembro, ha sempre sostenuto che la scelta sulle zone rosse spetti a Roma. Ora che Palazzo Chigi ha provveduto, la decisione è diventata "inaccettabile". Anche Spirlì in Calabria e Cirio in Piemonte contestano i parametri adottati: eppure sono stati decisi e condivisi insieme alle stesse Regioni, che sono rappresentate anche nella cabina di regia che effettua il monitoraggio. Finché servivano per allentare la stretta, nessuno li aveva criticati. Anzi in quel caso i presidenti di regione chiedevano "autonomia" nelle scelte. Quando invece i numeri sono tornati a salire, è partito il "gioco del cerino".

Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.

Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.

I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.

Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.

Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcioil 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.

LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.

CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.

PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.

CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.

ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/06/le-capriole-di-fontana-e-degli-altri-governatori-su-zone-rosse-e-criteri-prima-era-competenza-del-governo-ora-e-inaccettabile/5993211/

Ospedale di Rivoli in Piemonte, pazienti di covid abbandonati per terra. - Andrea Scanzi

 

“Pazienti Covid per terra, lavori mai fatti, territorio inesistente e assunzioni che dovevano arrivare prima. Ecco le drammatiche condizioni della sanità Piemontese. Non abbiamo più parole”.

Sono queste le parole del Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche, che invoca «L’aiuto urgente del Governo» per l’ospedale di Rivoli, in cui da giorni sono arrivate anche le tende dell’esercito, e per gli altri ospedali piemontesi.

Questa è la situazione in Piemonte. Eppure il governatore Cirio, come tutto il centrodestra, non solo non chiede scusa ma si lamenta pure della zona rossa.

Siamo davvero all’indecenza più totale!

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La vignetta di Mannelli su ilFQ di oggi.

 

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/06/la-vignetta-di-mannelli-366/5993744/

DIVENTERÀ ARANCIONE, IL COLORE DEL FALLIMENTO DI MUSUMECI. - Giancarlo Cancelleri

 

Ci sono due modi di amministrare e fare politica: con serietà e affrontando i problemi con pragmatismo per provare a risolverli, oppure con faccia tosta, mentendo spudoratamente a tutti e provando ad accollare ad altri responsabilità e inadempienze tutte proprie. Indubbiamente il presidente siciliano Musumeci appartiene a questa seconda categoria.
Per chiarezza e onestà intellettuale nei confronti dei miei corregionali siciliani, Musumeci, anziché attaccare in maniera pretestuosa il governo 
Giuseppe Conte, dovrebbe dire che i parametri che hanno determinano il colore delle Regioni non sono stati dati dal numero dei contagi, ma dalla situazione del sistema sanitario di ogni singola regione che, come sappiamo, in Italia viene gestito dalle stesse regioni.

Musumeci dovrebbe spiegare a noi siciliani perché in questi mesi, dei 301 posti di terapia intensiva richiesti, il suo governo ne ha realizzato solo poco più di 100. Eppure il governo Conte ha messo a disposizione dell’Isola ben 125 milioni da spendere nella sanità per fronteggiare l’emergenza Covid, il governo regionale ne ha spesi ad oggi solo meno di 50.
La verità è che il presidente della Regione Siciliana ha perso l’ennesima occasione per tacere.
Lo scarica barile, la polemica martellante per ogni decisione del governo Conte, il goffo atteggiamento di rivendicare risultati inesistenti, sono lo sport preferito di Musumeci che con l’assessore Razza perde tempo che sottrae al lavoro per la Sicilia e per il bene dei siciliani.
Il colore arancione della Sicilia è il colore del fallimento di Musumeci, della lentezza e dell’incapacità del suo governo.
Musumeci dovrebbe semplicemente assumersi le proprie responsabilità, lavorare, se ne è capace, a testa bassa per migliorare il sistema sanitario dell’isola e dare più ascolto alle sagge parole del presidente Mattarella, che ripeto: ‘ogni sforzo deve avere l'obiettivo comune di difendere la salute delle persone e di assicurare la ripresa del nostro Paese.

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MINCHIONI PER SCELTA E MINCHIONI PER CONTRATTO. - Rino Ingarozza

 

Vorrei dire qualcosa ai negazionisti. A tutti quelli che dicono che "coviddi non ce n'è". A quelli che ne sono veramente convinti e a quelli che, pur non essendolo, lo fanno per partito preso o, peggio ancora, per contratto.
Forse non avete capito una cosa. A me e a tutti noi, non ce ne frega un c.... un accidenti, se voi ci credete o no, che il virus esiste. A noi non ce ne frega un c.... un niente, se voi vi ammalate o no. A noi non ce ne frega un c.... una cippa se vi volete suicidare.
Il problema è che la mia probabilità di contagio e, quindi, la mia salute, dipende molto dal vostro comportamento. Vi è chiaro?
Non credo, visto che probabilmente avete qualche problema di Salvinite e, quindi, le cose ve le devono spiegare più volte. Fate attenzione che si faccio lo spelling:
Domodossola
Oristano
Venezia
Empoli
Torino
Empoli
Mantova
Empoli
Torino
Torino
Empoli
Roma
Empoli
Livorno
Ancona
Mantova
Ancona
Sondrio
Crotone
Helsinki
Empoli
Roma
Imperia
Napoli
Ancona
Capito adesso? Ancora no? Aspettate forse vi occore un rafforzativo:
Cazzo!!!! Non amo molto dire questa parola, ma oggi sono particolarmente ispirato e la uso. Sarà per via dei soggetti odierni (voi). Leggete in verticale le prime lettere di ogni parola.
Fatto?
Non nel senso se lo avete letto.
Nel senso se l'avete messa sta cazzo di mascherina?
Non avete possibilità di scelta. La vostra inettidutine mette in pericolo la mia vita e quella dei miei cari. Degli altri e dei loro cari. Come ve lo devo spiegare?
Caro Montesano, caro Sgarbi, caro Bose', caro Salvini dei giorni dispari,
cara Meloni dei giorni pari, pennivendoli zerbini, noi non possiamo pagare la vostra voglia di protagonismo a tutti i costi.
Noi non possiamo pagare il vostro desiderio di essere al centro dell'attenzione. Sempre e comunque.
Montesano, hai fatto il tuo tempo. Goditi la vecchiaia. Bose', se non lo hai fatto quando era viva, fallo adesso, rispetta tua madre ora che è morta. Ed è morta di questa malattia. Sgarbi, hai creato la tua carriera facendo il bastian contrario, anche su cose su cui eri d'accordo e violentando le tue corde vocali e le orecchie di chi ti stava ad ascoltare. Ti sei costruito un personaggio. Sei diventato un fenomeno da baraccone che viene invitato in taluni talk, nel tentativo di far aumentare l'audience, coi tuoi incazzamenti premeditati.
È ora di farla finita. Lo hanno capito tutti. Cerca di fare l'uomo per bene. È arrivato il momento. Hai la credibilità di uno che posta le sue foto mentre è sul cesso. Non so se mi spiego.
Salvini dei giorni dispari ....forse non hai capito ...tu la mascherina ce l'hai e la metti. Tu non decidi un cazzo. Tu non sei nessuno. Tu non puoi, in nessun modo, attentare alla vita altrui, con i tuoi comportamenti idioti e irresponsabili. Quando sarà finita l'emergenza, vi riunite con i tuoi seguaci e fate a gara di sputacchiate e rutti in faccia. Prima no. Farlo prima è vietato e criminale.
Idem per te, Meloni dei giorni pari. Noi non possiamo pagare la tua strafottenza e quella dei tuoi "segugi" di partito. Novelli "teste pelate" che parlano di democrazia.
Finiscila di armare le mani e nascondere la tua. Può essere pericoloso. Molto pericoloso. Quasi come quando gli squadristi fascisti andavano in giro per scoprire chi la pensava diversamente. Chi ragionava con la sua testa e non con quella del bastardo di Predappio.
E poi voi, pennivendoli zerbini. Abbiate un sussulto d'orgoglio, uno scatto di ritrovata dignità. Finitela di fomentare odio e dare eco alle stronzate dei vostri padroni. Strappatevi il guinzaglio e buttatelo via. Guadagnateveli onestamemte i croccantini.
Abbiate almeno la voglia sopita da anni di tornare a casa e guardare negli occhi i vostri bambini, senza dover abbassare la testa. Non chiudete gli occhi, quando vi guardate allo specchio, apriteli e pensate quello che avreste dovuto pensare da un sacco di tempo: "Ma io sono un uomo. Un uomo libero, mi ribello alla logica del servo che compiace il proprio padrone".
Alzatela quella testa.
Vedrete, scoprirete che la vita è bella.
Da liberi.

Pagliacciata sediziosa. - Marco Travaglio

 

Dopo le mosse eversive delle giunte di Lombardia, Piemonte e Calabria, aizzate dal mestatore Salvini, si spera che nessuno rompa mai più le palle con le prediche al governo sul dialogo con le opposizioni. Almeno finché le opposizioni non saranno qualcosa di diverso dal Cazzaro Sedizioso. Ormai anche il leghista più sfegatato dovrebbe aver capito che la salute e la vita sono cose troppo serie per affidarle a una banda di spostati che si fanno chiamare “governatori” e non riescono a governare neppure il ballatoio di casa loro. Hanno voglia Conte, Speranza, Brusaferro e gli altri con la testa sul collo a spiegare che la divisione dell’Italia in zone rosse, arancioni e gialle non è una pagella politica per punire le giunte di destra e premiare quelle di sinistra: è la presa d’atto di un contagio che, in certe aree, galoppa e minaccia gli ospedali più che in altre. Le gabbie numeriche per incasellare le Regioni sono state concordate fra governo, Iss, Cts e sgovernatori in lunghe e defatiganti riunioni. Quindi nessuno ha scavalcato nessuno. E gli squilibrati che contestano i dati come “vecchi”, “superati” o financo “truccati” fanno ridere per non piangere: perché sono i dati che forniscono loro.

Le colpe sono tante e di tanti, ma la pandemia è mondiale e colpisce anche i Paesi meglio governati e organizzati. Non è il momento di affrontarle: prima si limitano le occasioni di contagio e dunque gli ingressi negli ospedali, poi si fanno i conti. I dati dicono che i Dpcm del 13, 18 e 25 ottobre qualche risultato l’hanno già sortito, stabilizzando la crescita giornaliera della curva: non quella dei morti, sempre più spaventosa (quasi tutti anziani contagiati in famiglia da parenti asintomatici che tornano da scuola e dal lavoro), ma riferita a contagi di 15-20 giorni fa; bensì quella del rapporto positivi-tamponi e dei nuovi ricoveri. Quindi anche il Dpcm, il più severo, che parte oggi migliorerà verosimilmente le cose. E forse ci risparmierà il lockdown totale, ora meno duro di marzo anche nelle quattro Regioni “rosse”. Bisogna saperlo e farlo sapere, per dare una prospettiva ai cittadini incolpevoli chiamati a sacrificarsi al posto dei colpevoli: quei sacrifici servono e stanno già producendo risultati. L’importante è concentrarsi su ciò che è utile ed essenziale e lasciar abbaiare negazionisti, catastrofisti e perdigiorno del Mes, del rimpasto, delle larghe intese, del dialogo con opposizioni e Regioni. Chi sgoverna la Lombardia non sa neppure comprare i vaccini antinfluenzali (e, quando li trova, attiva un call center che manda dal dentista gli anziani che chiamano). E chi sgoverna la Calabria è riuscito in sei mesi ad aumentare i posti letto in rianimazione di 6 unità (sei!). Il minimo sindacale è negargli il diritto di parola.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/06/pagliacciata-sediziosa/5993746/

Salvini aizza i presidenti. E Fontana, Cirio e Spirlì chiedono il “riconteggio”. - Giacomo Salvini

 

Regioni rosse - La Lega accusa: “Punite” solo le amministrazioni guidate dal centrodestra. La Calabria fa ricorso.

Il registro chiamate del telefono è monotona, perfino noiosa. “Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì, Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì” e così via. Matteo Salvini chiama, ascolta e, se necessario, incita i governatori delle zone rosse e arancioni. A impugnare il Dpcm al Tar, come annunciato ieri dal governatore della Calabria Nino Spirlì, o a chiedere trumpianamente il riconteggio ché “i dati di Conte sono vecchi di dieci giorni”. Certo, il Piemonte, la Lombardia e la Calabria non saranno il Michigan, la Georgia o la Pennsylvania e la richiesta di lasciare aperto non sarà come conquistare la Casa Bianca, ma in serata la sintesi la fa il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, che da mercoledì sera è il più arrabbiato di tutti: “I dati sono vecchi di dieci giorni, il nostro Rt è passato da 2,16 a 1,91. Chiedo una verifica”. E a ruota si associano anche Fontana, Spirlì e il siciliano Nello Musumeci. Al punto che il ministro Speranza deve intervenire: “È surreale che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati nei propri territori”.

Ma il problema è politico e le telefonate tra Salvini e i governatori in lockdown sono drammatiche: “Matteo, così non teniamo più i commercianti e i ristoratori”, gli dice mercoledì sera Fontana dopo aver appreso che da oggi la sua Regione chiude. “I calabresi così muoiono di fame” gli confida Spirlì, già vice di Jole Santelli che si candiderà alle prossime Regionali: sicché il ricorso al Tar è cosa quasi scontata. E allora ieri mattina, dopo aver risentito Fontana, il leader del Carroccio è furioso e lo dice dritto: “Dobbiamo reagire contro questo governo indegno, non staremo a guardare le previsioni del tempo”.

Cosa questo voglia dire non è dato saperlo, ma il ricorso del governatore della Calabria è un buon inizio. Qualche collega potrebbe seguirlo, qualcuno chiedere di allentare la stretta tra due settimane se i dati dovessero migliorare, ma nel centrodestra circola anche l’ipotesi di ordinanze à la Trentino per disobbedire alle norme nazionali. E Salvini non si opporrebbe di certo. D’altronde il leader del Carroccio legge la “zona rossa” di Conte come un marchio per colpire le Regioni leghiste almeno fino al 3 dicembre: “Per un mese non si tocca palla – attacca – ma così si mette in ginocchio un Paese. I ristori sono mance o elemosina”. Così ieri ha sentito anche diversi sindaci leghisti della bassa Lodigiana dove a marzo era esplosa l’epidemia – tra cui Francesco Passerini (Codogno), Sara Casanova (Lodi) e Elia Delmiglio (Casalpusterlengo) – che sono pronti a impugnare singolarmente il Dpcm perché “oggi non possiamo essere paragonati ad altre parti d’Italia”.

Poi c’è la sindrome dell’accerchiamento. O meglio, dell’accanimento politico. E anche se l’esercizio nel dialetto lascia un po’ a desiderare, il concetto di Salvini è chiaro: “La Campania dove De Luca chiude tutto e dove c’è il disastro negli ospedali dov’è finita? Perché è zona gialla? Ccà nisciuno è fesso”. Come dire: il governo ha chiuso le Regioni di centrodestra (Lombardia, Piemonte, Sicilia e Calabria) e lasciato aperte quelle di centrosinistra. Un’accusa che rimbalza per tutto il giorno, dalla Camera dove anche Forza Italia e Fratelli d’Italia protestano animatamente contro il “mero calcolo politico” del governo (la deputata calabrese Maria Tripodi) ai leghisti vicini a Salvini: “Le zone rosse sono state decise dal colore politico”, si agita il segretario lombardo del Carroccio, Paolo Grimoldi. E anche il segretario, all’ora di pranzo, dal suo ufficio in Senato, attacca: “Le nuove norme sono una lotteria basata su dati vecchi: perché Lombardia sì, Toscana e Campania no? A Milano, Torino e Palermo non ci sono fessi, e a Roma c’è qualcuno attaccato alla poltrona”. L’unico leghista che si dissocia è il governatore del Veneto Luca Zaia, Regione che è ancora zona gialla ma presto potrebbe diventare arancione: “Le proteste sono legittime e anch’io avrei qualcosa da replicare, ma tutti abbiamo un obiettivo, cioè di uscire presto da questa crisi”. Un altro segnale di distanza da Salvini. E infatti nel Carroccio nessuno ci fa più caso: “Ormai Luca va per conto suo”.

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