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Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 15 giugno 2010
Bertolaso, la carriera per immagini
Lo scorso 29 gennaio, dall'Aquila, il Presidente del consiglio lo aveva candidato a guidare un dicastero
ROMA - Nell'arco di una decina di giorni da potenziale ministro a indagato. E' stata una parabola tanto rapida quanto inaspettata quella di Guido Bertolaso, Capo, ora dimissionario, della Protezione civile e jolly del Governo per risolvere qualsiasi emergenza, da quella dei rifiuti in Campania al terremoto in Abruzzo.
Lo scorso 29 gennaio, dall'Aquila, il Presidente del consiglio lo aveva candidato a guidare un dicastero: "Credo che tutti possano immaginare che dopo l'exploit straordinario che Guido ha fatto in questi dieci mesi, il minimo che possiamo dargli come riconoscimento e merito - aveva detto il Premier - e' la nomina a ministro da parte del presidente del consiglio". Un attestato di stima che aveva spazzato via polemiche e dubbi sollevati dalla querelle nata, pochi giorni prima, sulla questione Haiti, tra il ministro degli Esteri Frattini e il capo della Protezione civile. Sembrava essere superato anche l'imbarazzo creato da un'inchiesta sulle condizioni delle opere a La Maddalena per il G8: Bertolaso, in un sopralluogo con i giornalisti la scorsa settimana, aveva illustrato il futuro dell'ex Arsenale e degli altri siti realizzati, respingendo al mittente qualsiasi critica: "Le strutture realizzate nell'isola non sono in stato di abbandono, anche se c'e' qualche lavoro di manutenzione da fare, ma anzi nell'isola e' stata fatta la piu' grande bonifica di sempre, che ha permesso di trasformare un luogo che era una fogna in un polo navale e turistico tra i piu' importanti del Mediterraneo". Stamani l'imprevedibile accelerata.
Il capo del Dipartimento della Protezione civile Guido Bertolaso e' indagato per corruzione nell'inchiesta svolta dalla magistratura di Firenze sugli interventi eseguiti alla Maddalena in vista del G8 dello scorso anno, poi spostato all'Aquila. Una notizia immediatamente seguita dalla decisione di Bertolaso di rimettere tutti i suoi incarichi: "Per non intralciare l'operato degli organi inquirenti" ha spiegato aggiungendo di essersi sempre definito "un servitore dello Stato" e dunque, anche in questo caso, di voler rimanere a disposizione del suo Paese. Nato 59 anni fa a Roma, due figlie, medico specializzato in malattie tropicali - con una carriera che dal confine tra Thailandia e Cambogia lo ha portato, quest'estate in occasione del G8, a sedere accanto ai poteri della terra dopo aver organizzato il Giubileo e i funerali di Giovanni Paolo II, aver gestito i soccorsi per lo tsunami e le tragedie che in questi otto anni hanno colpito l'Italia, aver chiuso l'emergenza rifiuti in Campania dopo 15 anni di scaricabarile - Bertolaso lo scorso novembre aveva annunciato di voler lasciare a fine anno e aveva pure ammesso di volersene andare soprattutto per aver capito che dopo tante battaglie vinte sarebbe stato impossibile portare a casa quella a cui teneva di piu', la messa in sicurezza dell'intero territorio italiano.
Certo, in otto anni ha ottenuto la classificazione sismica di tutti i comuni, con regole chiare per costruire nelle zone a rischio. Ed e' riuscito, anche, ad imporre il catasto degli incendi e i piani di protezione civile comunali. Ma non quella cultura di prevenzione che avrebbe consentito di realizzare un vero piano di interventi. E aveva anche assicurato, allora, di non volersene andare certo, come sostenuto da qualcuno, per timore di un avviso di garanzia, che oggi e' arrivato: "sono un medico e quando mi chiamano perche' ci sono dei feriti - aveva spiegato - io cerco di salvare loro al vita e' se e' necessario passo anche con il rosso e vado contromano. Poi paghero' la multa". Una metafora che sembra essere la risposta all'avviso di garanzia - e' indagato per corruzione - notificatogli oggi.
http://notizie.it.msn.com/fotostory/gallery.aspx?cp-documentid=152105049
Anemone, tangenti dai conti della segretaria - Fiorenza Sarzanini
Una decina di operazioni sospette per oltre
un milione di euro. Domani interrogato Rutelli.
I SOLDI DI ALIDA - Era stata la Guardia di Finanza a documentare l’ascesa della Anemone Costruzioni che due anni fa ha fatturato 34 milioni e mezzo di euro. Un balzo notevole rispetto agli 8 milioni del 2003. Ebbene, nel 2008 — anche grazie al decreto che inserisce il G8 de La Maddalena nei «Grandi Eventi» — l’impresa ottiene il primo lotto dei lavori in Sardegna a giugno, altri tre appalti decisi in vista del vertice internazionale appena un mese dopo, l’aeroporto di Perugia per festeggiare l’Unità d’Italia, un doppio incarico per i Mondiali di Nuoto che si svolgeranno a Roma l’estate successiva. Anemone, come si comprende dalle telefonate intercettate, è molto soddisfatto. E cerca di ricambiare i favori ottenuti. Si mostra riconoscente con il Provveditore Angelo Balducci al quale aveva già regalato case e soldi: soltanto per pagare gli arredi dell’appartamento del figlio spende oltre 40.000 euro, che però fattura alla società che si è aggiudicata la gara. Il resto lo elargisce in contanti facendo prelevare soldi dai conti che ha intestato a uno dei suoi prestanome più fidati: la segretaria Alida Lucci. Sono stati gli ispettori di Bankitalia a segnalare ai pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi le nove operazioni sospette per importi che oscillano tra i 100.000 e i 300.000 euro. I magistrati sono convinti che si tratti delle tangenti versate per ricompensare chi lo aveva aiutato e dunque attendono di conoscere chi siano i beneficiari di questi versamenti. La risposta potrebbe arrivare entro qualche giorno visto che si tratta di depositi aperti su istituti di credito italiani tra i quali spicca la Banca delle Marche. La scorsa settimana, davanti agli investigatori della Finanza, la donna aveva giurato di aver sempre agito seguendo le norme. E invece i tabulati dei suoi conti registrano movimentazioni continue proprio nel periodo in cui il volume d’affari del suo datore di lavoro subisce un’impennata.
BERTOLASO E RUTELLI - Il capo della Protezione civile convocato come indagato di corruzione, l’ex ministro come testimone. Entrambi chiamati a chiarire i loro rapporti con i componenti della «cricca». Se Bertolaso dovrà spiegare come mai Anemone decise di pagargli affitti, ristrutturazioni e compensi per le consulenze concesse a sua moglie, Rutelli dovrà ricostruire i suoi contatti con Balducci. Ed eventualmente confermare le dichiarazioni di Antonio Di Pietro che davanti ai magistrati ha sostenuto di aver messo in guardia sia lui, sia il premier Prodi delle «criticità» relative agli appalti concessi alle società di Anemone e degli altri imprenditori a lui collegati. La scorsa settimana sono stati sentiti gli architetti Stefano Boeri e Roberto Malfatto. Il loro collega Angelo Zampolini aveva detto di essere stato scartato dal centrosinistra proprio per favorire loro. Entrambi hanno ribaltato queste dichiarazioni: «Siamo stati fatti fuori quando sono arrivati gli altri ». Una diatriba che appare senza sbocco per i magistrati che in realtà sono interessati a conoscere l’entità e la natura delle contropartite per l’aggiudicazione dei lavori. Ieri la procura di Roma ha aperto un fascicolo sui lavori per la Scuola dei marescialli di Firenze. La scorsa settimana era stata la Corte di Cassazione a dichiarare la competenza dei magistrati della Capitale così come sollecitato da Remo Pannain e Alfredo Gaito, legali di Fabio De Santis, e da Marcello Melandri, che assiste Francesco De Vito Piscicelli. E i pubblici ministeri non hanno perso tempo: senza neanche attendere la trasmissione del fascicolo dai colleghi si è deciso di affidare l’indagine al pubblico ministero Maria Letizia Golfieri. Chissà che adesso anche gli altri indagati, Bertolaso in testa, non diano seguito a quanto annunciato e presentino analogo ricorso. Il Tribunale del Riesame di Perugia ha già stabilito che questa parte di indagine deve restare in Umbria. Ma la scorsa settimana, quando si è saputo che nuovi accertamenti erano stati disposti per verificare l’esistenza di una casa all’estero che avrebbe avuto a disposizione all’estero, il capo della Protezione Civile ha affermato: «Potrei anche chiedere di essere "gestito" dalla Procura competente che non è Perugia».
lunedì 14 giugno 2010
domenica 13 giugno 2010
Senza parole. - Federico D'Orazio
Questo è quanto recita un cartello apparso lungo Corso Vittorio Emanuele, L’Aquila. Se fosse vero, sarebbe un fatto gravissimo. Ma sarebbe in buona compagnia.
Aggiungo solo: meno male che la Protezione Civile non mi legge….
http://stazionemir.wordpress.com/2010/06/13/senza-parole/
Imprenditoria mafiosa. Cosa Nostra punta ai grandi appalti
di Maria Loi - 10 giugno 2010
Palermo. I nomi sono più o meno noti. Si tratta di imprenditori, alcuni già condannati, che stamani sono stati raggiunti da un’altra ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio ed intestazione fittizia di beni.
E’ emerso dall’operazione antimafia condotta dalla Polizia di Stato sotto la direzione del Dipartimento mafia ed economia della Dda palermitana che stamattina, a Palermo, ha portato all’arresto di 19 persone tra le quali Vincenzo Rizzacasa, Francesco Lena, Filippo Chiazzese, l’imprenditore Salvatore Sbeglia, e i fratelli Francesco Paolo e Giuseppe Sbeglia nonché i nipoti Marcello e Francesco Sbeglia.
Sono stati notificati in carcere invece i provvedimenti a carico dei boss Nino Rotolo, Francesco Bonura, Vincenzo Marcianò, Carmelo Cancemi e Massimo Troia. Tra l’altro sono state sottoposte a sequestro preventivo anche aziende, imprese e beni immobili per diverse centinaia di milioni di euro.
Al centro dell’inchiesta il sistema degli appalti ai quali Cosa Nostra non voleva rinunciare. L’infiltrazione nel mercato edilizio avveniva attraverso imprenditori e una rete di insospettabili che controllavano consorzi operanti in campo nazionale e numerose società di primo piano nel mercato palermitano. “Cosa Nostra, attraverso imprenditori di primo piano continua a controllare la gestione di appalti pubblici e privati e, in questo caso l’intero ciclo produttivo dell’edilizia fino alla fase finale dello smaltimento dei rifiuti” ha detto il pm Scarpinato, neo procuratore generale a Caltanissetta.
Il provvedimento firmato dal gip Maria Pino è il frutto di indagini che si sono avvalse di intercettazioni ambientali e di servizi sul territorio a partire dagli anni 2005 e 2006 sino ad oggi, e che hanno permesso di svelare i sofisticati sistemi mediante i quali l’organizzazione mafiosa ha mantenuto nel tempo un pervasivo controllo di tutto il ciclo produttivo del mercato edilizio: dalla fase di acquisto dei terreni, alla gestione delle cave di inerti, all’imposizione delle imprese addette a tutti i comparti produttivi, sino alla fase di smaltimento dei materiali nelle discariche.
Uno degli imprenditori arrestati oggi a Palermo è Vincenzo Rizzacasa, 63 anni, accusato di trasferimento fraudolento di valori, perché avrebbe gestito attraverso le sue società il patrimonio del boss Salvatore Sbeglia. L’architetto Rizzacasa è il rappresentante legale dell’azienda Aedilia Venusta srl, l’azienda sospesa da Confindustria Sicilia perché non era in linea con il codice etico sottoscritto dagli industriali nel 2007. La società ha come dipendente e direttore dei lavori Francesco Sbeglia condannato in primo grado a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e come direttore tecnico il padre di Francesco, Salvatore Sbeglia, considerato un uomo d’onore della famiglia della Noce e già condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Contro la decisione di Confindustria Vincenzo Rizzacasa ha deciso di trascinare in Tribunale Confindustria per danni all’immagine. Tre giorni fa è arrivato il responso del giudice del Tribunale di Palermo che ha reintegrato l’Aedilia Venusta nelle fila di Confindustria. Ma dopo l’operazione odierna i vertici dell’associazione degli industriali hanno già deciso di riunirsi domattina in un consiglio direttivo straordinario per sospendere di nuovo l’azienda edile di Rizzacasa.
Ecco chi ci intercetta. E perché si lamenta
Le aziende che lavorano per le procure contestano la legge bavaglio e rivelano: noi spioni? Macché, forniamo gli strumenti ma non ascoltiamo nulla. Senza contare che lo Stato non paga mai le centinaia di milioni che ci deve ogni anno.
Intercettazioni, Fnsi: "9 luglio sciopero generale"
Intercettazioni: cosa prevede il ddl approvato al Senato
“Le aziende che effettuano le intercettazioni minacciano di staccare la spina? È una buona notizia”. Tradotto: i politici, di destra e di sinistra, non amano la registrazione delle telefonate a fini di indagine. O almeno così la pensano i titolari delle aziende che forniscono questo servizio alle procure. Per capire il loro punto di vista, bisogna fare un passo indietro di alcuni mesi. Ottobre 2008: le maggiori società che affittano le apparecchiature per le intercettazioni telefoniche e ambientali minacciano lo sciopero. I debiti delle procure, cioè del Ministero della Giustizia, nei confronti del settore (un centinaio di aziende, con 2.500 dipendenti) ammontano a quasi 500 milioni di euro, per ammissione dello stesso ministro Alfano, i ritardi nei pagamenti sono tra i 550 e i 700 giorni, le fatture accumulate risalgono al 2003. Molte delle società, tra cui le principali (Area, Innova, Resaerch control system e Sio, che da sole rappresentano circa il 70% del mercato delle telefoniche), incassano ogni anno solo il 5-8 per cento di ciò che fatturano. Hanno come unico cliente lo Stato e vantano crediti che in alcuni casi arrivano al doppio del proprio fatturato annuo. Sono quindi a loro volta pesantemente indebitate con le banche.
Nella primavera del 2009 la convocazione al ministero delle quattro principali aziende porta a un accordo che tampona la crisi. Ma la battuta sul minacciato sciopero da parte di uno dei politici presenti alle riunioni rende l’idea degli umori delle parti in causa. Il responsabile di uno dei maggiori operatori del settore dice la sua a proposito della tanto discussa legge in via di approvazione: “Non è un caso che per giustificare la misura, il governo definisca le intercettazioni ‘eccessive’ e i costi di questo strumento ‘fuori controllo’, usando le cifre in modo strumentale. Si fa riferimento di continuo agli abusi sulla divulgazione di alcune registrazioni e ai milioni di euro che noi chiediamo. Lo scopo è mettere in cattiva luce davanti all’opinione pubblica le intercettazioni tout court”.
Si tratta di una voce di parte, certo. Ma aiuta, insieme a quella di magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, a capire meglio i termini della questione. Anche perché i numeri raccolti dai fornitori provengono dalle fatture e non dai discorsi politici. Per scongiurare lo sciopero, Alfano istituisce un’Unità di monitoraggio per le intercettazioni (Umi), decide di scorporare dalla generica voce “spese di giustizia” (la numero 1360) un apposito capitolo, il 1363, riferito alle sole intercettazioni e soprattutto trova cento milioni per pagare le aziende. Le società, pur di recuperare un po’ di soldi, rinunciano al 10 per cento di quello che gli spetta e agli interessi maturati e da maturare. Altri 180 milioni saranno stanziati per il 2010, ma la contabilità dei fornitori, a causa dei lavori fatturati nel frattempo e dei vecchi debiti non coperti dagli stanziamenti, oggi è più o meno la stessa dell’aprile 2009. E nonostante Alfano abbia dichiarato di aver “estinto definitivamente” il debito. “Quest’anno – continua il fornitore – ho incassato il 40-45 in meno rispetto allo scorso, pur avendo fatturato agli stessi livelli. E con la nuova legge prevedo una diminuzione del lavoro del 20-30 per cento”.
Anche le società più piccole, riunite nell’Associazione italiana per le intercettazioni legali e l’Intelligence (Iliia), sono contro il provvedimento, che “piega le gambe a centinaia di piccole e medie imprese, espressioni del miglior made in Italy”, ha dichiarato Walter Nicolotti, presidente dell’associazione. “Il nostro lavoro – ha aggiunto – richiede impegno, professionalità ed una buona dose di rischio. Lo Stato dovrebbe tenere in alta considerazione le realtà imprenditoriali di questo comparto per il lavoro che svolgono quotidianamente ma nonostante tutto il debito contratto negli anni per le intercettazioni dal ministero della Giustizia sia di 500 milioni di euro, con fatture risalenti anche al 2003. Le numerose imprese del settore intercettazioni, se la situazione non cambierà, saranno costrette a cessare la propria attività e quindi a sospendere il prezioso servizio a supporto delle investigazioni, con prevedibili ripercussioni sulla lotta alla criminalità”.
Che ridurre le intercettazioni significhi usare armi spuntate contro la criminalità, per gli operatori del settore è persino banale. E a chi crede che manager e dipendenti di queste aziende dispongono di un potere di controllo occulto e pericoloso, mostrano i propri uffici. Sono tappezzati di ringraziamenti da parte di funzionari e ufficiali delle forze dell’ordine per il contributo dato alla cattura di latitanti e alla riuscita delle indagini. Non c’è traccia però di liste di numeri di cellulare privati né di persone con le cuffie alle orecchie. “I nostri macchinari, server e singoli terminali – spiega un manager – sono ceduti in affitto alle procure e installati nelle sedi centrali e nelle sedi periferiche delle forze dell’ordine. Dove la polizia giudiziaria effettua materialmente l’ascolto, la registrazione e la trascrizione delle conversazioni. Noi riceviamo l’ordine dei magistrati di attivare e disattivare un terminale d’ascolto, è come aprire e chiudere un rubinetto, ma non sappiamo chi è il soggetto intercettato. Per assurdo, se ascoltassero me con una mia macchina, neppure lo saprei”.
È naturale che i dipendenti e i dirigenti delle società che forniscono, e a volte producono in proprio, le costosissime apparecchiature possano accedere alle registrazioni. Anche perché effettuano periodicamente la manutenzione presso i centri d’ascolto. “Ogni accesso – continua l’operatore – è comunque loggato e tracciato. Non mi sognerei di trafugare un file, mettendo a rischio i miei affari. Ma anche nel caso in cui volessi farlo, come potrei pescare una telefonata interessante tra le migliaia di ore di registrazione che le mie apparecchiature raccolgono ogni giorno?”. Una domanda che forse apre nuovi dubbi sulla vicenda della Rcs (Research control system), il cui amministratore avrebbe passato sottobanco alla famiglia Berlusconi un file audio con l’ormai celebre conversazione tra Piero Fassino e Gianni Consorte.
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