L’Euro Currency Index rappresenta il rapporto di quattro valute principali rispetto all’euro: dollaro USA, sterlina britannica, yen giapponese e franco svizzero ed è quindi è una specie di unità di misura della sua forza relativa.
All’apice, o quasi, della crisi del 2008/2009, con l’economia americana quasi in ginocchio dopo il fallimento di Lehman Brothers, raggiungeva il suo massimo con un valore di 112,50.
La valuta continentale si segnalava, in quel frangente, come una sorta di “bene rifugio”.
Dieci anni dopo tuttavia la situazione appare del tutto rovesciata.
Da quei massimi infatti l’Euro Currency Index ha iniziato una discesa fino all’attuale valore, poco sopra 93. Che segnala un deprezzamento complessivo della moneta di circa il 20%. Che vuol dire che il denaro di cui disponiamo ha perso 1/5 del suo potere acquisto nel mercato globale.
E tutto questo è avvenuto nonostante il rapporto dell’Euro con il Dollaro, pur nell’ambito di una tendenza ribassista di fondo, si sta cercando in qualche modo di “stabilizzare” per effetto delle politiche dell’amministrazione Trump, rivolte ad una sorta di “svalutazione competitiva” della divisa americana (figura. 1.1).
Ma che evidentemente non sono bastate fino ad ora a compensare i motivi che determinano l’attuale debolezza della nostra moneta.
Capire cosa abbia determinato questa dinamica può servire anche per far comprendere che la crisi di credibilità in cui versano tutte le istituzioni europee, BCE compresa, impone che il ricambio ai loro vertici, previsto per tutto l’arco del 2019, sia accompagnato da un deciso mutamento di rotta nelle politiche economiche e finanziarie.
Altrimenti i cosiddetti “piani B”, più che remote eventualità, potrebbero diventare ineluttabili per diversi Stati, non solo il nostro. Certo, il valore dell’Euro è depresso perchè, come vogliono la logica e la dottrina tradizionale, la remunerazione delle attività che vi sono rappresentate è minore rispetto a quelle di altre aree valutarie.
Ma questo fenomeno non si spiega sulla base dei soli tassi di crescita delle diverse economie, dal momento che il GDP degli Stati Uniti – ad eccezione di quanto sta avvenendo in questo 2018 – ha fatto registrare negli ultimi valori tra l’1,5% ed il 2,5%% più o meno quindi paragonabili a quelli dell’Eurozona. E neppure sulla base dei tassi di interesse, che BCE ha mantenuto per un certo periodo marginalmente positivi, rispetto al loro azzeramento che la Federal Reserve dispose già nel 2009.
Dunque, il motivo del trend discendente risiede in altro. E con ogni probabilità è rappresentato da come la Germania, paese leader nell’area, ha utilizzato gli enormi surplus che intanto stava accumulando. Praticamente non utilizzandoli.
Parliamo peraltro di grandissimi aggregati finanziari. Quello derivante dalla crescita dell’avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, che secondo certi studi a partire dal 2001 è arrivato ad una cifra pari a quasi 3.500 miliardi, corrispondente grosso modo ad un intero suo PIL. Quello che poi si è determinato in conseguenza dei trasferimenti di denaro intra-market che l’hanno portata a detenere un saldo finanziario di circa 900 miliardi, triplicato rispetto a quello di cui disponeva nel 2007, come si vede nella figura 1.2 che riflette i dati Target2.
Il motivo per cui la Germania non adopera questi attivi è oggetto di diverse interpretazioni, tutte plausibili e al tempo stesso opinabili. Perciò per il momento ne prescindiamo. Fatto sta che Berlino da tempo non persegue più economie di stimolo alla domanda interna (che risulta frenata anche dal limitato tasso di crescita dei salari reali) e neppure si sogna di aumentare gli investimenti pubblici, che non hanno mai superato la quota del 20% del PIL, ponendosi al di sotto della media degli stessi partner europei. Si limita, piuttosto, ad un regime di accumulazione, per così dire, “passiva” di risorse finanziarie.
Che in questo modo, non offrendo rendimenti di alcun genere, analogamente a quanto avviene quando un individuo lascia giacere i suoi soldi sul proprio conto corrente senza impiegarli in alcun modo, si svalutano e basta.
Il problema, alla fine, potrebbe essere tutto della Germania, se non fosse che gran parte della liquidità dell’Eurozona continua a riversarsi proprio su quel paese, impoverendo finanziariamente quasi tutti gli altri. E tra questi, come si vede chiaramente dalla figura 1.2, in particolar modo l’Italia. Il problema, dunque, diventa di tutti ed incide sulla quotazione dell’Euro. Che perciò si indebolisce.
Ora, come noto, il fatto che una moneta si svaluti può offrire a chi se ne serve un vantaggio, in termini di maggiori esportazioni dei suoi beni e servizi. Ed è ciò che la Germania è riuscita ad ottenere negli ultimi anni, alimentando così la propria posizione finanziaria positiva con l’estero, che peraltro è migliorata anche in altri paesi dell’UE, compresa l’Italia.
Questo beneficio però deve essere valutato anche in relazione alla situazione attuale dell’Unione Europea che, nata come un’associazione di Stati che dovevano favorire il reciproco sviluppo in un ambito di libera concorrenza tra loro (come erano all’origine il MEC e poi la CEE) si è sempre più trasformata in un modello quasi “Sovietico”, fondato su una serie di pianificazioni e vincoli di bilancio che sottraggono libertà economiche ai suoi membri.
Non v’è dubbio in effetti che l’Euro è sostanzialmente un sistema di “cambi fissi” tra le 19 nazioni che lo hanno adottato come moneta e perciò la ripartizione delle quote di mercato all’interno della relativa area tende ad irrigidirsi, in assenza di una “leva monetaria” che possa consentire ad un paese di guadagnare competitività nei confronti dell’altro.
Donde la necessità per ciascuno Stato di operare sulla componente “costo del lavoro”, con la conseguente compressione della dinamica salariale interna (e degli stessi diritti dei lavoratori) per alimentare la propria percentuale di “export”, nel frattempo divenuta la principale componente positiva della sua economia. Donde la (neppure troppo) strisciante deflazione che si è realizzata negli ultimi anni in Europa. Che spiega a sua volta la svalutazione della moneta.
E’ questo, peraltro, un classico “cul de sac”, in cui deflazione chiama svalutazione, che a sua volta implica ulteriore deflazione e via dicendo. E che ben si rappresenta nell’andamento del Bund decennale che con il suo rendimento stabilmente sotto lo 0,5%fornisce la proiezione ciclica di una crescita piatta (se va bene) della domanda interna di tutta l’Eurozona.
D’altra parte il Bund non può che offrire che queste miserie, dal momento che la Germania opera una modesta richiesta di denaro al mercato e così facendo sostiene i prezzi dei suoi Titoli di Stato e contiene il relativo onere per interessi molto al di sotto della media degli altri partner/concorrenti. Mentre l’opposto avviene in paesi come l’Italia, dove l’elevata offerta di obbligazioni determina un calo dei relativi prezzi (ed un conseguente aumento dei rendimenti). Ed il divario tra le nazioni dell’Unione continua così ad allargarsi.
In questo quadro di relazioni, tra i paesi dell’Eurozona e dell’UE con l’esterno, è chiaro che un qualsiasi calo congiunturale della domanda globale rischia di far saltare tutti i residui equilibri, già molto precari.
E’ bastato in fondo un accenno di protezionismo da parte degli Stati Uniti per far rotolare tutte le stime che ancora a febbraio davano per certa una crescita in Europa “robusta e al di sopra delle più rosee aspettative”, come affermato da Mario Draghi e dalla stessa Commissione.
E le politiche monetarie di BCE non hanno certo offerto adeguati strumenti per consentire a tutti i paesi dell’area di affrontare nuove possibili tensioni finanziarie e le sfide dell’economia globale. “Tassi zero” che non hanno generato alcuna forma di rilancio dell’economia, se non giusto una breve fase di rimbalzo, appiccicata come una sanguisuga alle dinamiche del resto del mondo.
Una domanda interna complessiva sempre troppo debole, anche perché scarsamente alimentata dalla spesa pubblica, oggetto di attenzione quasi ossessionante da parte delle istituzioni UE. E, per converso, nessuna significativa diminuzione del debito degli Stati in termini assoluti come effetto di questo controllo.
Persino lo stesso lieve incremento di inflazione registrato nell’ultimo anno pare dovuto più che altro alla spinta esogena del costo delle materie prime (il cui indice di riferimento è passato da un livello 160 a 200/210) e quindi rischia di produrre solo ulteriori effetti depressivi.
Infine il vero pasticcio, generato, sul piano puramente finanziario, da un sistema di acquisti in Quantitative Easing ancorato alle quote di partecipazione delle singole Banche Centrali al capitale BCE, che ha finito soltanto per fornire ulteriore benzina alle quotazioni del Bund, giunte ormai al livello di un’autentica “bolla speculativa”.
E che in ogni caso giovano soltanto ad un paese. Il più ricco, che diventa sempre più ricco nel rapporto con gli altri componenti del “club Euro”, tutti obbligati a maggiori oneri per interessi sul debito. Quello che dovrebbe perciò in qualche modo alimentare valori aggiunti in tutta l’area e che, al contrario, tiene stretti i suoi averi come Zio Paperone nel suo deposito.
Potendone tutto sommato assorbire la conseguente svalutazione senza grossi danni, anzi giovandosene per aumentare la sua quota di esportazioni e i conseguenti flussi finanziari in entrata. Anche dagli altri partner europei, tutti ormai trattati alla stregua di concorrenti da spremere, far indebitare e quindi definitivamente soggiogare alle sue politiche. In fondo la fotografia più attendibile del periodo non può che arrivare dalla stessa Germania.
Ed è (figura 1.3) l’andamento del principale indice di borsa tedesco, il Dax che, da febbraio di quest’anno, fa segnare uno scostamento di valori nei confronti dello S&P americano di circa il 16%. A cui va aggiunta una svalutazione dell’Euro rispetto al Dollaro, nello stesso periodo, di quasi il 10%.
Siamo partiti da quel mese di febbraio in cui Draghi ha dichiarato al Parlamento Europeo che la ripresa si espandeva con una crescita “più forte di quanto previsto in precedenza, distribuita più equamente tra settori e aree geografiche rispetto a qualsiasi altro momento dopo la crisi finanziaria”.
Per la cronaca, il Dax è tornato sui livelli di prezzo dell’inizio del 2017 e la sensazione è che debba scendere ancora.
E, sempre per la cronaca, ma soprattutto a beneficio di quelli che si fanno sempre 4 risate di fronte a queste evidenze, segnalo che – come può vedersi nel grafico – l’andamento del Ftse italiano è perfettamente sovrapponibile a quello della borsa tedesca. Non origina dunque da casa nostra il problema.
Non abitano qui i “cialtroni”.
via Scenarieconomici
Fonte: stopeuro del 9 novembre 2018