venerdì 5 luglio 2019

‘Ndrangheta a Nord, nelle carte i legami politici del clan: “A Lonate Pozzolo i voti dei boss in cambio di posti in giunta”. - Giuseppe Pipitone

‘Ndrangheta a Nord, nelle carte i legami politici del clan: “A Lonate Pozzolo i voti dei boss in cambio di posti in giunta”

Non c'è solo l'affare dei parcheggi dell'aeroporto di Malpensa nell'ultima operazione antimafia della procura di Milano. L'ex sindaco di Lonate racconta: "Vi sono diverse famiglie originarie di Cirò Marina, che esercitano un controllo sul territorio. Mi hanno appoggiato nella campagna elettorale. In cambio volevano la figlia assessore". Il gip su Misiano, il consigliere di Fdi arrestato: "Intermediario tra il mondo politico ed alcuni esponenti di spicco della cosca mafiosa". E si scopre il tentativo di pestaggio per il candidato sindaco antimafia.


Trecento voti bastavano per far vincere un sindaco. Solo che erano voti di ‘ndrangheta. Non c’è solo l’affare dei parcheggi dell’aeroporto di Malpensa nell’ultima operazione antimafia della procura di Milano. Trentaquattro arresti in otto province, accuse che vanno dall’associazione mafiosa alle lesioni e allo spaccio di droga, e una certezza: “Negli ultimi dieci anni, nonostante le indagini e gli arresti, non è cambiato nulla. Le cosche sono ancora padrone del territorio“. Parola di Alessandra Dolci, procuratore aggiunto del capoluogo lombardo che ha coordinato l’inchiesta sui clan a Lonate Pozzolo e Ferno, due piccoli centri in provincia di Varese praticamente attaccati allo scalo di Malpensa.
“Voti in cambio di posti in giunta” – Due comuni che, secondo il gip Alessandra Simion, versano in una situazione “particolarmente critica“. Il motivo? “Le giunte sono espressione della capacità del gruppo criminale di veicolare considerevoli quantità di voti, barattandoli con la nomina di familiari e parenti a cariche politiche ed amministrative”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del giudice per le indagini preliminari di Milano. Una ricostruzione, quella degli investigatori, che si basa anche su un testimone eccellente: Danilo Rivolta, ex sindaco di Lonate Pozzolo di Forza Italia. Arrestato nel maggio del 2017 con l’accusa di corruzione, Rivolta ha patteggiato quattro anni di carcere nel settembre del 2017. Due mesi prima, nel luglio del 2017, si era seduto davanti ai pm per mettere a verbale una storia pericolosa: quella della ‘ndrangheta che fa politica in provincia di Varese. “A Lonate Pozzolo vi sono diverse famiglie originarie di Cirò Marina, che esercitano un controllo sul territorio – è il racconto dell’ex primo cittadino – Hanno tutte delle imprese edili ed artigiane. Le attività regolari riguardano per lo più il settore edilizio. Ho appreso tali notizie da Franco De Novara. Nella giunta in cui io ricoprivo la carica di assessore all’Urbanistica, vi era la sorella di De Novara Franco (a sua volta cognata di Alfonso Murano, ucciso nel 2006 ndr). Nel 2009, questi pretese l’assunzione della sorella alla Saap. Venne assunta e, di seguito abbiamo agevolato la sua assunzione alla fondazione musicale Puccini di Gallarate. Premetto che sua figlia Francesca è l’attuale assessore alla cultura, sport e tempo libero”.
“I calabresi mi dissero che mi avrebbero appoggiato” –Insomma, già prima dell’elezione di Rivolta a sindaco la ‘ndrangheta faceva politica a Lonate Pozzolo. Poi, nel 2014, ha deciso di puntare su di lui. “Nel febbraio, marzo 2014, Peppino Falvo (il coordinatore dei Cristiano-popolari ndr) venne da me e mi disse che i De Novara mi avrebbero appoggiato nella campagna elettorale. Franco De Novara in cambio voleva che la figlia Francesca venisse nominata assessore. Loro, nel frattempo, avrebbero provveduto a farmi prendere dei voti. Francesca De Novara ha preso 300 voti“. Un bel pacchetto di preferenze in una città dove gli elettori sono circa 5mila. “La mia lista è stata supportata anche da Cataldo Casoppero. Dopo la mia elezione ho effettivamente nominato la figlia di De Novara assessore alla cultura”, continua il suo racconto l’ex sindaco davanti ai pm di Busto Arsizio.  Insomma in provincia di Varese i clan si “compravano” con i voti i posti in giunta. E quando qualcosa nell’amministrazione non andava, si lamentavano direttamente con il primo cittadino: “Una sera Franco De Novara si lamentò con me del fatto che destinavo pochi soldi all’assessorato di sua figlia e del fatto che ricadeva a sulla stessa un’iniziativa sulla legalità, che lei non si sentiva di sostenere. In quel periodo era già stato programmato il matrimonio tra Francesca De Novara e Malena Cataldo, luogotenente di De Castro Emanuele. Le famiglie calabresi controllavano il mercato della droga”. 
“Quel pagliaccio di sindaco” – Insomma, secondo il gip “emerge chiaramente la consapevolezza degli indagati, e fra questi principalmente Casoppero Cataldo Santo, che l’elezione di Rivolta era stata appoggiata da famiglie calabresi di origine cirotana, stanziate storicamente in zona”. Casoppero è un imprenditore d’origine calabrese che abita a Lonate da anni. Già arrestato nel 2009, è considerato un boss. “Ma a Lonate tutti calabresi siete?“, gli chiede a un certo punto un suo conoscente. “È quella la fregatura, hai capito perchè? Noi gli ultimi arresti del 2009, per questo pagliaccio di sindaco, siamo andati a finire in galera. Prima l’abbiamo messo su come sindaco e poi è andato a dire che qua c’è la ‘ndrangheta “, risponde Casoppero, intercettato. “Questo è un pagliaccio”, conferma il suo interlocutore. Lapidaria la risposta: “Eh ma i lombardi sono tutti così; ti devi fidare pochissimo, per niente proprio”.
Il nuovo “referente”: Misiano – Dopo l’arresto di Rivolta per corruzione, i clan “ingaggiano” un nuovo referente: si chiama Enzo Misiano, ed fa il consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Ferno. Anzi faceva: lo hanno arrestato nell’inchiesta. Non si tratta di un politico minore, ma è il plenipotenziario del partito di Giorgia Meloni nella zona. Nelle carte il gip lo individua come il “responsabile per i comuni di Ferno e Lonate per Fratelli d’Italia” e in quanto tale “decide autonomamente le candidature del partito, avendone avuta ampia delega dal suo referente diretto l’onorevole Paola Frassinetti, portavoce regionale Lombardia”. Solo che parallellamente, per l’accusa, è anche il “referente politico dei ‘calabresi‘. Un ruolo che gli consente di essere “potenzialmente in grado di contribuire alla causa politica della sua coalizione con un considerevole pacchetto di voti”. 
L’intermediario tra clan e politica – Secondo gli inquirenti il consigliere di Fdi “in più occasioni” ha svolto il ruolo di “intermediario tra il mondo politico ed alcuni esponenti di spicco della cosca mafiosa, tra i quali Giuseppe Spagnolo, Mario Filippelli, Emanuele e Salvatore De Castro ed esponenti della famiglia dei De Novara. In più circostanze, Misiano si propone per dirimere controversie che esulano dalle sue competenze politiche”. Un esempio? Quando Alessandro Pozzi gli chiede una mano. Pozzi fa il consigliere comunale a Ferno. È stato eletto da Forza Italia, prima di passare con Fratelli d’Italia, e a un certo punto diventa l’obiettivo di un’estrosione da parte dei fratelli De Novara. Cosa fa per difendersi? Denuncia alla polizia? Nossignore. Si rivolge a Misiano per risolvere la faccenda. ” Altamente significativa la condotta di un amministratore locale che, anziché rivolgersi alle Autorità, si rivolge alla criminalità organizzata per risolvere una questione tanto delicata”, annota il gip nell’ordinanza. Misiano, però, è soprattuto di politica che si occupa. Dopo l’arresto di Rivolta, infatti, a Lonate si torna a votare. E Misiano “diviene il catalizzatore del pacchetto di voti mosso dalla locale, veicolandoli verso la coalizione d’appartenenza che vede Angelino Ausilia candidata alla carica di sindaco”. Il clima in paese è pesante dopo le vicende giudiziarie della giunta Rivolta, e Misiano convoca più una riunione tra la maggioranza di centrodestra. C’è anche Gioacchino Caianiello, il ras dì Forza Italia nella zona, recentemente arrestato per le tangenti in Lombardia. Scrive il giudice: “Significativo il passaggio in cui Misiano cita Caianiello dicendo: “Le partecipate, alla fine la riunione, un cinema, la riunione in Comune è venuto Caianiello, un macello, Canianiello, Cattaneo, Petroni, ho hatto venir già la Frassinetti”.
Il tentativo di pestaggio – Le elezioni non andranno bene per Misiano e i calabresi: perderanno per 500 voti contro la sindaca Nadia Rosa. Terzo arriva Modesto Verderio, ex consigliere comunale della Lega che però si era candidato con Grande Nord (il partito di Matteo Salvini era nella lista civica di centrodestra). Verderio a Lonate ha condotto molte campagne politiche contro la ‘ndrangheta. E anche durante la campagna elettorale non si sottrae: rilascia un’intervista a un giornale locale per attaccare gli esponenti della criminalità calabrese ormai residenti in zona. Che non la prendono bene. Cataldo Casoppero commenta così l’intervista: “Quell’altro pagliaccio di Verderio che scrive su Lonate News, che lui prende a calci tutti i cirotani, la ‘ndrangheta la manda via. Adesso prende le botte però”. Il progetto è chiaro: pestare il politico anti ndrangheta: “Abbiamo deciso che lo facciamo picchiare. Devo vedere dove cazzo fa il comizio e devo trovare, facciamo venire due albanesi e lo facchiamo picchiare al comizio stesso”.  Gli amici di Casoppero cercano di fermarlo: “Si alza un polverone, specialmente ora sotto elezioni”. Il pestaggio di un candidato sindaco avrebbe fatto rumore: e Verderio fu risparmiato. Non è la Calabria e non sono neanche gli anni ‘70: è il profondo Nord. Dove la ‘Ndrangheta c’e ancora.
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‘Ndrangheta al Nord, così l’imprenditore lombardo ha rotto il muro di omertà: “Non chiedo il permesso ai mafiosi”

L'uomo voleva aprire un parcheggio nella zona di Malpensa, a poche centinaia di metri da uno gestito dalla famiglia De Castro, il cui capostipite è ai vertici della locale di 'ndrangheta. Dove aver rifiutato un accordo per averli come soci, sono arrivate le pressioni: "Qualunque cosa viene fatta lì, vado e scasso tutto", viene fatto riferire. Il capo della Dda milanese: "È la prima volta che un imprenditore denuncia le pressioni".

Quarantotto ore. Tanto aveva impiegato la famiglia De Castro, il cui capostipite Emanuele è tra i capi della locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo, dopo il rifiuto di un imprenditore di entrare in società con loro, a far capire che allora non ci sarebbe stata alcuna nuova area parcheggio vicino all’aeroporto di Malpensa perché “sarebbe risultata in concorrenza” con quella da gestita dalla famiglia. “Altrove sì, ma a Ferno no”, aveva mandato a dire ad A. I., senza sapere che l’uomo – che ha chiesto a Ilfattoquotidiano.it di tutelarne la privacy – avesse installato una app sul suo smartphone per la registrazione delle chiamate in entrata e in uscita dal cellulare.
Le ha archiviate tutte, si è fatto coraggio ed è andato dai carabinieri per raccontare per filo e per segno la sua storia, ora parte integrante dell’ordinanza di custodia cautelare con la quale il gip del tribunale di Milano, Alessandra Simonha arrestato 34 persone, 13 delle quali accusate di associazione mafiosa per la ricostituzione della ‘ndrina legata alla famiglia di Cirò Marina. È proprio attraverso quelle telefonate e ai racconti che l’imprenditore ha più volte fatto a investigatori e inquirenti che la Dda di Milano ha accertato gli interessi della cosca attorno all’aeroporto di Malpensa, appetiti in crescita anche per la chiusura di Linate nei mesi estivi. Un ruolo fondamentale, riconosciuto dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci: “Una nota di speranza”, l’ha definita il magistrato antimafia.
I messaggi erano chiari, fatti arrivare tramite un consulente del lavoro, Giampaolo Laudani, che da un lato doveva partecipare all’affare e dall’altro secondo i magistrati ‘giocava’ per i De Castro: “Lui esplicitamente mi ha detto assolutamente no, diglielo… perché, anzi mi ha aggiunto: ‘Qualunque cosa viene fatta lì sono io che vado lì e scasso tutto'”. Lì, era a Ferno, a poche centinaia di metri da uno dei parcheggi controllati dai De Castro – di estorsione aggravata rispondono Emanuele e il figlio Salvatore, la sua compagna Vanessa Ascione e Laudani – che non volevano concorrenza. L’avventura di A. inizia nell’autunno 2018 quando insieme al consulente del lavoro, che a insaputa dell’imprenditore lo era anche dei De Castro, avvia attività propedeutiche alla realizzazione del parcheggio.
Dopo un “no” all’acquisto dell’area degli uomini legati alla ‘ndrina e aver valutato sconveniente l’apertura di un’area a Lonate per una “situazione monopolistica” accertata in un’altra inchiesta, l’imprenditore decide di realizzare la sua idea a Ferno. Sceglie il terreno da affittare e contatta un secondo imprenditore  di sua conoscenza, M. G., pure lui parte offesa, per avere un partner commerciale. Ma Laudani, si legge nell’ordinanza, “riferiva del progetto ai De Castro, tramite Vanessa Ascione, convivente di Salvatore e titolare del parcheggio di Ferno in via Piave”. I De Castro si mostrano interessati e tentano di entrare nell’affare. È il 6 marzo 2019 e quel parcheggio sarebbe un buon investimento. Non hanno però messo in conto la valutazione dell’imprenditore che “declinava l’offerta dichiarando di aver appreso (…) che ‘i De Castro erano mafiosi e padroni del settore'”.
Una scelta che segnerà il destino del suo investimento. Perché quell’area sarebbe dovuta sorgere a circa 300 metri dal parcheggio riconducibile a De Castro rischiando così di incrinarne gli affari. E infatti appena due giorni dopo arriva il primo avvertimento. È Laudani a chiamare l’imprenditore: “C’è un piccolo problema”, gli dice. “Io ho parlato con una persona (…) Lui mi ha detto testuali parole ‘dì chiaramente a quella persona lì, che siccome avevamo già discusso, qualunque cosa lui fa in quelle zone lì, avrà solo problemi’, ok, ha usato proprio queste parole, anzi siamo al telefono io mi limito così. Quindi mi ha detto ‘ma diglielo proprio, eh'”.
Parole che secondo Laudani sarebbero riferite al secondo imprenditore coinvolto nella vicenda, M. G., conoscente dei De Castro. Ma che si ripercuotono anche sulla volontà di A.I.. “Mi ha detto che se vuoi parlarci non c’è problema”, aggiunge il consulente spiegando di aver “aperto per cercare di trovare un accordo insieme”. La risposta è categorica: “No, lasciamo stare. Beh, se no a noi non ci fa fare nulla?”. E Laudani conferma: “Mi sembra di aver così, sì…”.  L’imprenditore ha già annusato l’aria: “Io con loro, non è per cattiveria perché ripeto io non li conosco, però non voglio rotture di coglioni e sarebbe stato gradito non avere le rotture di coglioni da parte loro…”.
Salvatore De Castro, intanto, dagli arresti domiciliari ha già fatto arrivare quello che il gip definisce un “pizzino” a M.G. nel quale “si lamentava di non avere saputo direttamente e per tempo del suo interessamento al parcheggio”. Con Laudani – che, secondo il giudice, “agiva a sua volta consapevolmente nel loro interesse simulando ‘terzietà'” – i De Castro sono ancora più espliciti: “Mi ha detto ‘quella persona sa già, questa zona non va toccata’”, spiega Laudani parlando con lo smartphone di A.I, che nel frattempo registra l’intera vicenda, chiamata dopo chiamata. L’affare tra l’imprenditore che ha denunciato, Laudani e M. G. alla fine sfuma, perché A.I. si rifiuta “di andare a chiedere il ‘permesso'”. Nel frattempo, il 27 marzo, entra nella caserma dei carabinieri, fa ascoltare le telefonate e inizia a raccontare tutto. È la “prima volta”, dice la procuratrice Dolci, che un imprenditore lombardo varca quella soglia per parlare delle pressioni ricevute dagli ‘ndranghetisti.

Scandalo Csm, il Pg Fuzio chiede il collocamento a riposo. - Vittorio Nuti


La comunicazione al Capo dello Stato nel corso di un colloqui al Quirinale. A chiedere le dimissioni di Fuzio erano stati, nelle ultime ore, sia l'Associazione nazionale magistrati (Anm) sia i vertici di Unicost, una delle correnti della magistratura.


Passo indietro del Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, nell'occhio del ciclone per un incontro con l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara in cui gli avrebbe rivelato dettagli sull'inchiesta a suo carico per corruzione in corso a Perugia. Fuzio ha rassegnato le sue dimissioni da Pg questa mattina, nel corso di un colloquio al Quirinale durante il quale ha comunicato al capo dello Stato e presidente del Csm, Sergio Mattarella la propria richiesta «di essere collocato a riposo anticipato», con un anno di anticipo, indicando come data di decorrenza quella del 20 novembre 2019.

A spiegare il differimento temporale tra la comunicazione al Colle e l'effettivo «riposo anticipato» provvede un comunicato del Csm. «Il vicepresidente del Csm e il primo presidente della Corte di Cassazione - si legge nella nota di Palazzo dei Marescialli - in considerazione della unicità ordinamentale della funzione esercitata dal procuratore generale in ambito disciplinare e quale componente di diritto del Csm, hanno chiesto che la data di collocamento a riposo tenga conto dei tempi per espletare la procedura di nomina del nuovo procuratore generale al fine di evitare che si determini discontinuità nella funzione di titolare dell'azione disciplinare obbligatoria».

Il presidente della Repubblica «ha preso atto della decisione del dott. Fuzio di presentare domanda di collocamento a riposo anticipato, decisione assunta con senso di responsabilità a conclusione di un brillante percorso professionale al servizio delle istituzioni». Mattarella, sottolinea una nota diffusa nel tardo pomeriggio dal Quirinale, ha espresso al Pg «apprezzamento per il rigore istituzionale con cui ha assicurato il tempestivo esercizio dell'azione disciplinare in una contingenza particolarmente delicata per la magistratura».

A chiedere le dimissioni di Fuzio - bersaglio delle polemiche per le intercettazioni dei suoi colloqui con il pm Palamara e per il suo coinvolgimento diretta nella vicenda delle nomine del Csm - erano stati, nelle ultime ore, sia l'Associazione nazionale magistrati (Anm) sia i vertici di Unicost, una delle correnti della magistratura. Uno degli ultimi atti del Pg Fuzio, membro di diritto del Csm , è stato l'avvio dell' azione disciplinare nei confronti di Cosimo Ferri, deputato dem ma ancora magistrato in aspettativa, anche lui coinvolto nello scandalo che sta sconvolgendo il Csm.

L'azione disciplinare riguarderebbe proprio il cosiddetto "mercato delle nomine" svelato dall'inchiesta di Perugia che vede indagato l' ex presidente dell' Anm Palamara. Ferri è uno dei partecipanti alla riunioni in cui Palamara, togati del Csm e il deputato Luca Lotti discutevano dei futuri assetti della procure, a partire da quella di Roma . Fuzio aveva già esercitato l' azione nei confronti di Palamara e di cinque consiglieri del Csm, anche loro coinvolti nella vicenda, quattro dei quali si sono dimessi, mentre resta autosospeso il togato di Magistratura indipendente Paolo Criscuoli.

Tra pochi giorni, lunedì 8 luglio, il Csm si pronuncerà sulle istanze di ricusazione presentate dal pm romano Luca Palamara nei confronti di due dei suoi giudici disciplinari. Il vice presidente del Csm David Ermini ha infatti costituito il collegio che se ne dovrà occupare, evitando che ci siano rinvii nel giudizio sulla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio di Palamara chiesta dal Pg Riccardo Fuzio. L'udienza è già fissata per il giorno successivo, il 9 luglio.

https://www.ilsole24ore.com/art/scandalo-csm-pg-fuzio-chiede-collocamento-riposo-ACdMNlW

Putin a Roma fa aspettare tutti, 'Ma con l'Italia c'è intesa.'


Giuseppe Conte e Vladimir Putin, durante la cena alla fine dell'incontro a Villa Madama, Uff. Stampa Palazzo Chigi.

La capitale blindata per l'occasione. Lungo colloquio con il Papa, poi incontra Mattarella e Conte.


Dopo oltre due ore è terminata la cena a Villa Madama tra le delegazioni italiana e russa. Alla cena, oltre al presidente russo Vladimir Putin e al premier Giuseppe Conte, hanno partecipato i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e il suo omologo russo Sergej Lavrov. Al termine della cena Putin è andato allo scalo di Fiumicino dove ha incontrato Silvio Berlusconi.
Menù di pesce e tavoli dedicati all'arte italiana alla cena italo-russa a Villa Madama, che vede assieme il presidente russo Vladimir Putin, il premier Giuseppe Conte e i vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini. "L'incontro tra il pescato e il crostacei con dadolata di mela verde e pesca" figura come antipasto. Come primo piatto sono servite mazzancolle con moscardini, gamberetti e scorfano mentre come secondo a tavola arriverà una spigola agli agrumi accompagnata da un flan di verdure di campo. Come dessert il menù presenta fragoline di bosco con gelato alla vaniglia, prima del caffè finale. E ciascun tavolo presenta il nome di un grande pittore italiano: da Raffaello a Pinturicchio, da Tiziano a Leonardo fino a Caravaggio.
"Abbiamo confermato l'eccellente stato delle nostre relazioni bilaterali, nonostante il permanere delle condizioni che hanno condotto al deterioramento delle relazioni con l'Ue e quindi alle sanzioni. In un momento delicato per l'economia globale è di reciproco interesse" una buona relazione tra i due Paesi. Lo ha detto il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi con il presidente russo Vladimir Putin.
"Riteniamo che Mosca sia un attore ineludibile per individuare soluzioni nelle principali crisi regionali. Con Putin siamo d'accordo sul fatto che queste soluzioni, per essere sostenibili, devono essere politiche". Lo afferma il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa.
"Noi riteniamo che le sanzioni siano un fine, riteniamo che sia un regime transitorio e l'Italia lavora perché si creino le premesse per un superamento di questo stato di rapporti tra l'Ue e la Russia che non fa bene alla Russia, all'Ue e nemmeno all'Italia che potrebbe aumentare le relazioni commerciali. Per raggiungere questo obiettivo, cui l'Italia è devota, occorre che maturino le circostanze e noi lavoreremo per questo", ha affermato Conte.
Comprendiamo che l'Italia è legata con gli impegni europei e non abbiamo nessuna pretesa rispetto agli amici italiani ma speriamo che l'Italia sulle sanzioni porti avanti la posizione di un ritorno dei rapporti a 360 gradi con la Russia". Lo afferma il presidente russo Vladimir Putin in conferenza stampa congiunta con il premier Giuseppe Conte. "Siamo grati all'Italia per la posizione che consiste nel fatto che bisogna ristabilire il regime pieno dei rapporti tra Usa e Russia", aggiunge.
Il premier italiano ha accolto Putin nel cortile di Palazzo Chigi dove il presidente russo è entrato con la Aurus, la macchina presidenziale del numero uno del Cremlino. I due, dopo una stretta di mano, si sono intrattenuti per un paio di minuti per uno scambio di battute, prima di ascoltare il picchetto d'onore composto dai Carabinieri e dai lancieri di Montebello. Putin è arrivato a Palazzo Chigi con un'ora e trenta di ritardo rispetto all'agenda iniziale.
Putin ha lasciato il Quirinale, dopo l'incontro con il presidente Sergio Mattarella.

Tra Russia e Italia "i rapporti bilaterali sono ottimi". E' quanto riferiscono fonti del Quirinale al termine dell'incontro tra il presidente Sergio Mattarella e il presidente russo Vladimi Putin. I rapporti bilaterali, si è appreso da fonti del Quirinale, rimangono quindi ottimi nonostante il raffreddamento delle relazioni tra la Federazione e l'Occidente dovuta alle diverse valutazioni sull'Ucraina.

E' stata registrata una "preoccupazione comune per la guerra civile in Libia e il conseguente ritorno del terrorismo islamico battuto in Siria". Lo fanno sapere fonti del Quirinale al termine del colloquio tra il presidente Sergio Mattarella e il presidente Vladimir Putin. E' stata anche evidenziata l'importanza della stabilità libica per l'Italia e per l'Europa. Da parte russa si è sottolineata la diversa posizione dei Paesi vicini sulla soluzione politica.

Il presidente russo ha avuto in tarda mattinata un colloquio con papa Francesco e successivamente col cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. La visita è durata in tutto circa un'ora e 45 minuti. "Grazie per il tempo che mi ha dedicato e per il discorso molto sostanzioso e interessante", ha detto il presidente russo Vladimir Putin al Papa al momento di congedarsi. "Preghi per me", gli ha detto a sua volta Francesco.
LA GIORNATA - Dopo essere atterrato a Fiumicino il presidente è stato ricevuto in udienza da papa Francesco. Il corteo di auto, proveniente direttamente da Fiumicino, è giunto in Vaticano attraversando Piazza San Pietro e l'Arco delle Campane, per raggiungere quindi il Cortile di San Damaso. Qui Putin e il suo seguito, in presenza del picchetto d'onore della Guardia Svizzera, sono stati accolti dal prefetto della Casa Pontificia, mons. Georg Gaenswein, che poi li accompagna all'ascensore per salire alla Terza Loggia e all'incontro col Pontefice. Il presidente russo Vladimir Putin è stato accolto da papa Francesco al suo arrivo nella Sala del Tronetto dell'Appartamento pontificio con una calorosa stretta di mano.Quello di oggi è stato il terzo incontro in Vaticano tra papa Francesco e Vladimir Putin. Il primo fu il 25 novembre 2013 e il secondo il 10 giugno 2015. Ma in tutto le udienze avute da Putin con tre Papi in 19 anni salgono a sei, dato che il 6 giugno 2000 e il 5 novembre 2003 incontrò anche Giovanni Paolo II e il 13 marzo 2007 Benedetto XVI, tanto da diventare in assoluto uno dei più 'assidui' capi di Stato in visita Oltretevere.
Il leader del Cremlino, atterrato con quasi mezz'ora di ritardo, è arrivato in Vaticano per l'incontro con il Papa quasi un'ora dopo l'orario previsto. Il ritardo si è quindi accumulato ulteriormente, di almeno un'ora e dieci, all'arrivo di Putin al Quirinale, previsto inizialmente tra le 14.45 e le 15. Putin è noto per far aspettare i suoi interlocutori e ospiti illustri, dal presidente americano Donald Trump alla cancelliera tedesca Merkel, dalla regina Elisabetta allo stesso papa Francesco, tutti "vittime" dei suoi lunghi ritardi. Solo con il leader nordcoreano Kim Jong-un si è presentato non solo puntuale ma con 30 minuti di anticipo in un recente incontro a Vladivostok. Nel cortile d'onore sono risuonati gli inni nazionali dei due Paesi mentre veniva issata sul Torrino del Quirinale la Bandiera della Federazione russa.

Il Cazzaro Verde è un Cazzaro Verde. - Marco Travaglio


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È ufficiale: da ieri si può dire che il vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dell’Interno, nonché capo della Lega, al secolo Matteo Salvini, è un Cazzaro Verde. E il merito di questa storica acquisizione si deve, per quanto strano possa apparire, proprio a lui: al Cazzaro Verde. Era stato lui, infatti, a querelare il sottoscritto per diffamazione, contestando davanti al Tribunale di Milano un editoriale satirico del 6 maggio 2018 intitolato appunto “Il Cazzaro Verde”, in cui si dimostrava per tabulas la sua essenza di Cazzaro Verde che fa politica a suon di “supercazzole” anziché lavorare. L’articolo riscosse un certo successo fra i lettori, tant’è che produsse una rubrica pressoché quotidiana sul Fatto, in cui, anziché inseguire con commenti e cronache sdegnate la sua incessante attività cazzara e supercazzolara sui social, a cura dell’apposita struttura comunicativa denominata orgogliosamente La Bestia, raccogliamo il meglio del peggio delle sue sparate via Twitter e Facebook su tutto lo scibile subumano: dalle colazioni a base di pane e Nutella agli sbarchi dei migranti, dal festival di Sanremo ai vari dl Sicurezza, dagli insulti a chi lo critica alla Flat tax, dalle recensioni del Grande Fratello Vip e di simili programmi culturali agli altri punti programmatici della Lega (che momentaneamente ci sfuggono).
Le querele, si sa, sono armi a doppio taglio: si possono vincere, ma anche perdere; e chi le perde autorizza chi le vince a rivendicare come lecito ciò che chi perde riteneva diffamatorio. È proprio quel che è accaduto al Cazzaro Verde, che ieri s’è visto archiviare la sua denuncia dal gip Luigi Gargiulo, il quale ha accolto la richiesta della Procura di Milano e del mio difensore Caterina Malavenda e respinto il ricorso del suo difensore Claudia Eccher. La Procura riteneva che dare a Salvini del Cazzaro Verde esperto in supercazzole non fosse diffamazione, ma uso legittimo di “espressioni veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira” che “consistono in un’argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolve in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui”. Ora il gip va oltre e nota che il Cazzaro Verde, nella sua querela, “non nega mai i fatti oggetto dell’articolo”, anzi arriva ad ammettere che “nella vita politica la critica può assumere toni aspri di disapprovazione”, pur opinando che “cazzaro verde” e “supercazzola” superino il “requisito della continenza”. E invece no, il giudice Gargiulo ritiene che io non sia (ancora) incontinente.
Alla luce della giurisprudenza della Cassazione sul diritto di critica e di satira, quelle espressioni possono essere “ineleganti, pungenti, inadeguate”, ma non certo diffamatorie in un linguaggio politico ormai “greve e imbarbarito”. Anche grazie al Cazzaro Verde, che non è proprio lord Brummel, anche se ha la querela facile (con noi ne ha già perse otto). E qui il giudice piazza un colpo da maestro, citando una frase di Di Maio che accusa la Lega di avallare “la supercazzola” del Tav Torino-Lione; ma soprattutto due dichiarazioni di Salvini: “Il sindaco di Napoli… ha fatto tutta una supercazzola sulla prevenzione”; “Il piano B del governo per affrontare l’emergenza immigrazione mi sa tanto di supercazzola”.
Cos’abbia indotto il Cazzaro Verde a querelare un giornalista perché gli imputa delle supercazzole, quando è lui stesso a imputare delle supercazzole ad altri, resta un mistero. Spiegabile solo con la sua essenza di Cazzaro Verde. Anche perché – ricorda il gip – “il termine ‘supercazzola’ nel 2015 è persino entrato a far parte del dizionario Zingarelli” (senza offesa per il nostro fiero nemico dei rom). In più, le mie accuse di supercazzolismo sono formulate “a corredo di un ragionamento logico di critica politica”, dunque non ho “mai inutilmente e gratuitamente offeso la sfera morale” del Cazzaro Verde, “impiegando invero termini privi di idoneità lesiva, utilizzati in maniera ironica”. Tantopiù che, con un altro memorabile autogol, è il Cazzaro Verde medesimo a riconoscere nella sua querela che “cazzaro” è “in uso nel linguaggio giovanile per indicare un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone”. Un autoritratto che più somigliante non si poteva, infatti proviene da uno che si conosce bene: “esattamente il profilo tracciato dall’indagato (il sottoscritto, ndr) quando ricordava l’irrealizzabilità delle promesse fatte dal querelante”. Conclusione: “Tale definizione non può certo essere considerata lesiva dell’onore e della reputazione” del Cazzaro Verde, “soprattutto in quanto si tratta di un uomo politico che, per sua natura, è sottoposto non solo alla più feroce critica, ma anche alla satira”. Ergo “la condotta dell’indagato (sempre io, ndr) risulta scriminata dal legittimo esercizio di critica politica” e “si ritiene di dover aderire alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm, rilevata l’infondatezza della notitia criminis”. A noi non rimane che ringraziare il Cazzaro Verde per averci querelati: se non l’avesse fatto, non avremmo mai saputo che dargli del Cazzaro Verde e del supercazzolaro è legittimo e avremmo continuato a chiamarlo così col timore di esagerare. Ora invece lo faremo senza più remore. Anche tutti i giorni, prima e dopo i pasti. E siamo lieti di comunicarlo coram populo, affinché chiunque voglia provare la stessa liberatoria ebbrezza segua il nostro esempio sui social, a cena con gli amici, al bar, sui mezzi pubblici, nelle piazze, negli striscioni da balcone che accolgono il Cazzaro Verde nel suo frenetico giro d’Italia per non lavorare. Da oggi dire che il Cazzaro Verde è un Cazzaro Verde si può: grazie al Cazzaro Verde.

giovedì 4 luglio 2019

Cognato di Renzi e fratelli: pm chiedono rinvio a giudizio per i milioni destinati ai bambini africani e poi spariti.


Cognato di Renzi e fratelli: pm chiedono rinvio a giudizio per i milioni destinati ai bambini africani e poi spariti

La Procura di Firenze ha chiesto il processo per Andrea, Alessandro e Luca Conticini accusati a vario titolo di appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio.

Alessandro, Luca e Andrea Conticini (il cognato di Renzi in quanto marito di sua sorella Matilde) vanno processati per appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio. È la richiesta della Procura di Firenze, che ha chiesto il rinvio a giudizio per i fratelli, indagati a vario titolo nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza, tra l’altro, la sottrazione di 6,6 milioni di dollari destinati all’assistenza all’infanzia in Africa. I reati contestati dagli inquirenti sono appropriazione indebita e autoriciclaggio ad Alessandro e Luca Conticini, e riciclaggio ad Andrea Conticini. Le donazioni oggetto d’indagine provenivano da Fondazione Pulitzer tramite Operation Usa, Unicef e altri enti umanitari internazionali. Secondo le indagini, Alessandro e Luca Conticini sono accusati di appropriazione indebita di 6,6 milioni di euro, parte dei 10 milioni donati da Fondazione Pulitzer alle organizzazioni no profit Play Therapy Africa LimitedInternational development association limited e International development association Sa, di cui era titolare effettivo lo stesso Alessandro Conticini.
Per l’accusa il denaro è transitato, senza alcuna giustificazione, sui conti correnti personali di Alessandro Conticini, accesi presso la Cassa di Risparmio di Rimini, agenzia di Castenaso (Bologna). La procura accusa inoltre Alessandro e Luca Conticini di autoriciclaggio, per aver impiegato parte dei 6,6 milioni di dollari per sottoscrivere nel settembre 2015 un prestito obbligazionario per 798mila euro emesso dalla società Red Friar Private Equity Limited Guernsey, e per aver fatto un investimento immobiliare in Portogallo di 1.965.455 euro tra il 2015 e il 2017. Accusato di riciclaggio Andrea Conticini: per l’accusa, in qualità di procuratore speciale del fratello Alessandro (procura speciale datata 30 dicembre 2010), nel 2011 ha utilizzato parte del denaro destinato all’Africa per l’acquisto di partecipazioni societarie della ‘Eventi 6 srl’ di Rignano sull’Arno – società riconducile a familiari dell’ex premier Matteo Renzi (di cui è cognato) – per un totale di 187.900 euro, della Quality Press Italia srl per 158mila euro, e diDot Media srl per 4mila euro.
Contestualmente l’avvocato Federico Bagattini lascia l’incarico di difensore di Andrea Conticini, per cui i pm Luca Turco e Giuseppina Mione contestano un ipotesi di riciclaggio di circa 350mila euro. A dare l’annuncio della rinuncia all’incarico lo stesso Bagattini: “La propagazione alla stampa della richiesta di rinvio a giudizio quando ancora il professionista si trovava in una fase di attesa rispetto alle determinazioni del pubblico ministero – si legge in una nota diffusa dal legale – crea grave e insuperabile imbarazzo nei confronti del cliente, rispetto al quale erano state fornite notizie conformi alle attività di recente compiute dal suo difensore. “In questo modo – prosegue – è stata svilita la professionalità del difensore al quale, a tutela della propria onorabilità e delle ragioni del proprio cliente, non resta che rinunciare all’incarico”. Andrea Conticini, a differenza dei fratelli, dopo aver ricevuto la notifica della chiusura indagini aveva chiesto e ottenuto di essere interrogato dai pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, e aveva risposto alle loro domande. L’avvocato Federico Bagattini resta al momento difensore di Alessandro e Luca Conticini.

'Ndrangheta: politica e affari nel Varesotto, 34 arresti. Cosche puntavano a Malpensa.

Lo slot di Malpensa (archivio) © ANSA
Lo slot di Malpensa (archivio ansa)

Sequestrati due car parking e società non in area aeroportuale.


'Ndrangheta, politica e gestione di attività commerciali attorno all'aeroporto di Malpensa. Sono gli elementi dell'indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano e condotta dai carabinieri del comando provinciale del capoluogo lombardo, che dalle prime luci dell'alba stanno eseguendo un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 34 persone (32 italiani, un marocchino e una romena) in varie province italiane. Al centro dell'inchiesta ci sono le dinamiche della locale di 'ndrangheta di Legnano (Milano)-Lonate Pozzolo (Varese).
Sono 400 i carabinieri impegnati nell'esecuzione dell'ordinanza nelle province di Milano, Ancona, Aosta, Cosenza, Crotone, Firenze, Novara e Varese. I destinatari del provvedimento (27 in carcere e 7 ai domiciliari) sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, danneggiamento seguito da incendio, estorsione, violenza privata, lesioni personali aggravate, minaccia, detenzione e porto abusivo di armi, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (tutti aggravati perché commessi avvalendosi del metodo mafioso e al fine di agevolare le attività dell'associazione mafiosa), truffa aggravata ai danni dello Stato e intestazione fittizia di beni, accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. L'indagine è partita nell'aprile 2017 e ha documentato la capacità dell'associazione di infiltrarsi negli apparati istituzionali dell'area di Varese. Gli investigatori hanno inoltre accertato che dalla seconda metà del 2016 era in corso un processo di ridefinizione degli assetti organizzativi della locale di 'ndrangheta di Legnano-Lonate Pozzolo, a seguito della scarcerazione di due boss in contrasto tra loro. 
L'indagine dei Carabinieri e della Dda di Milano avrebbe accertato un legame tra l'ex sindaco di Lonate Pozzolo (Varese), Danilo Rivolta, e alcuni esponenti del locale di 'ndrangheta. L'elezione di Rivolta sarebbe stata appoggiata da influenti famiglie calabresi che lo avrebbero aiutato in cambio di un assessorato alla nipote del boss Alfonso Murano, ucciso il 28 febbraio del 2006 a Ferno (Varese). Tra gli indagati anche un consigliere di Fratelli d'Italia e un perito che lavorava per la Procura di Busto Arsizio (Varese): avrebbe fatto da 'talpa' su alcune indagini.
Le cosche puntavano ai parcheggi attorno all'aeroporto di Malpensa e alla costruzione di nuove attività commerciali in aree nei comuni adiacenti. E' uno degli aspetti che emergono dall'inchiesta "Krimisa" che questa mattina ha portato all'arresto di 34 persone accusate a vario titolo di reati commessi con l'aggravante del metodo mafioso. Il gip della procura di Milano ha disposto il sequestro di due parcheggi privati, "Malpensa Car Parking" e "Parking Volo Malpensa", oltre a metà delle quote della società "Star Parkings", che non si trovano nell'area aeroportuale. In totale il decreto ha consentito di sequestrare beni per un valore complessivo di 2 milioni di euro. I carabinieri sono riusciti a documentare summit criminali durante i quali, oltre alle questioni prettamente politiche, c'era anche la pianificazione imprenditoriale della cosca, i cui proventi erano investiti in parte nell'acquisto di ristoranti e di terreni per la costruzione di parcheggi poi collegati con navette all'aeroporto.