venerdì 26 febbraio 2021

“Sistema 15%”: Calderoli e la norma salva-leghisti. - Stefano Vergine


“Dazione” dei nominati - Nel 2012 i pm di Forlì ravvisano l’elusione fiscale. Ma nel 2014 a sanare tutto arriva l’emendamento-condono.

Erogazioni liberali: si chiamano così i soldi che ogni persona può donare a un partito politico. E infatti questa è la dicitura trovata a fianco alle decine di versamenti di cui abbiamo dato notizia in questi mesi sul cosiddetto “sistema del 15%”, quello attraverso il quale i nominati e gli eletti della Lega hanno finanziato il partito restituendo una parte del proprio stipendio pubblico. Un meccanismo che ha permesso al Carroccio di incassare milioni di euro e ai suoi donatori di pagare meno tasse. Sì, perché le erogazioni liberali si possono detrarre dalle imposte. Peccato che di liberale, nei versamenti leghisti, ci sia ben poco. A sostenerlo adesso non sono più solo le fonti citate nella nostra inchiesta a puntate. Lo dicono anche l’Agenzia delle Entrate, una Procura e due commissioni tributarie. Siamo dunque alla vigilia di un’inchiesta fiscale nei confronti della Lega? No, perché nel frattempo tutto è stato condonato, sanato per legge in modo retroattivo grazie a un emendamento proposto dalla Lega.

Andiamo per gradi. Il Fatto ha ottenuto decine di scritture private tra la Lega e i suoi esponenti, in cui i politici s’impegnano, se vogliono essere candidati, a versare al partito una parte del proprio stipendio in caso di elezione. Punto 4 del contratto: “Il candidato si impegna a versare, per le obbligazioni assunte dalla Lega Nord, la somma di 145.200,00 in rate mensili di 2.420,00 a decorrere dal primo mese successivo all’inizio del mandato”. Punto 5: “Il punto 4 vale da riconoscimento di debito, per cui la presente scrittura privata è dichiarata consensualmente idonea per l’emissione di decreto di ingiunzione anche provvisoriamente esecutivo”. Punto 6: “In caso di mancata elezione nulla è dovuto dal candidato e, sia la Lega Nord sia il candidato, sopporteranno le proprie spese affrontate”. Tra i 66 contratti analizzati ci sono quelli del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e quelli dei deputati Fabrizio Cecchetti e Daniele Belotti. Sono tutti accordi preparati prima delle Regionali del 2005 in Lombardia, ma le stesse scritture private – come vedremo – sono state usate anche nelle elezioni successive, sia locali che nazionali. I documenti dimostrano che i soldi versati in quegli anni dai vari esponenti del Carroccio non erano erogazioni liberali, cioè volontarie, ma conseguenza diretta di un contratto. E qui arriviamo alla parte più interessante.

Nel 2012 la Procura di Forlì, guidata da Sergio Sottani, apre un’inchiesta sull’allora deputato leghista Gianluca Pini con l’ipotesi di millantato credito. Analizzando i suoi conti correnti, i magistrati scoprono che Pini ogni anno faceva importanti donazioni alla Lega e poi detraeva dalle imposte quanto donato. Insospettito dalle cifre, Sottani ordina perquisizioni nei confronti della Lega in via Bellerio e alla Camera. E scopre che così facevano tutti. Vengono trovati i contratti con cui ogni politico leghista, prima di essere eletto, s’impegnava a versare una parte del proprio futuro stipendio al partito. Per i pm di Forlì non è evasione fiscale (penale) ma elusione (illecito amministrativo). Per questo le carte vengono mandate all’Agenzia delle Entrate, che inizia il tentativo di recupero delle somme eluse. Il fatto è dimostrato dalle ordinanze emesse da due commissioni tributarie provinciali. Qui si scopre che sotto il faro dell’Agenzia erano finiti, tra i tanti, Sergio Divina, storico senatore trentino, e il piemontese Roberto Simonetti, oggi direttore amministrativo del Gruppo Lega Salvini Premier alla Camera, all’epoca parlamentare.

Le ordinanze delle commissioni tributarie offrono dettagli ulteriori sul sistema del 15%. Viene fuori che anche per i candidati al Parlamento la cifra da restituire era pari a 145mila euro in cinque anni, proprio come per i consiglieri regionali. E che, grazie alle detrazioni d’imposta, ogni anno gli eletti recuperavano il 19% della somma versata al partito: ossia 27.550 euro di tasse risparmiate ogni 5 anni. Un beneficio illegittimo, secondo le due ordinanze: “Il candidato e il partito Lega Nord stipulavano un accordo in cui si affermava espressamente che il versamento delle somme dal candidato al partito avveniva in correlazione con ‘le obbligazioni assunte dalla Lega Nord’, il che esclude in radice lo spirito di liberalità (inteso come mera e spontanea elargizione fine a se stessa) e la detraibilità ai sensi dell’art.15, comma 1-bis, decreto legislativo n.917/1986”, scrivono i giudici tributari. Nonostante questo parere del 4 dicembre 2014, i parlamentari della Lega alla fine non hanno dovuto risarcire il danno. Come mai? Il motivo è spiegato nelle stesse ordinanze delle commissioni tributarie. Il 21 febbraio 2014, prima dunque che i giudici si esprimessero sui casi, il Parlamento ha convertito in legge il decreto sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Dentro c’era un emendamento promosso da due senatori leghisti, Roberto Calderoli e Patrizia Bisinella, che di fatto ha legalizzato il sistema del 15%. Un condono retroattivo che spiega perché, ancora oggi, senatori, deputati, consiglieri regionali ed eletti di ogni sorta, ma anche nominati a diversi incarichi pubblici, possono pagare meno tasse grazie ai soldi che versano al proprio partito. E lo possono fare anche se la donazione è frutto di un obbligo contrattuale, come è il caso della Lega.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/26/sistema-15-calderoli-e-la-norma-salva-leghisti/6114160/

giovedì 25 febbraio 2021

Financial Times: la scommessa di Tesla sui bitcoin è un’idiozia ambientale. - Jonathan Ford

 

Le aziende tecnologiche dovrebbero evitare di sostenere soluzioni energivore e insensate. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo  del processo di produzione dei bitcoin: circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile.

Qualche settimana fa Elon Musk ha messo 100 milioni di dollari per finanziare un bando per sistemi innovativi per la rimozione dell’anidride carbonica dall’aria o dall’acqua. Per aggiudicarsi una fetta del premio occorre “creare e dimostrare una soluzione che consenta di estrarre l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera o dagli oceani e stoccarla in modo ecologico e in via permanente”.

La mossa ha senz’altro dato a Musk un’occasione per lucidare alla sua immagine green, ma ha anche offerto una buona sponda a tutti gli acquirenti delle sue auto elettriche, che avranno un motivo in più per sentirsi orgogliosi di far parte della famiglia Tesla: l’ambiente. Tuttavia, prima di buttar giù senza fiatare questa versione verde del magnate del tech, clienti e azionisti farebbero meglio a guardare un po’ più nel dettaglio il modo in cui Tesla spende effettivamente il loro denaro.

La settimana scorsa l’azienda ha rivelato di aver investito 1,5 miliardi di dollari in bitcoin e ha annunciato che intende accettare pagamenti in criptovaluta, anche se “inizialmente in misura limitata”. Tra le esultanze dei fan, il valore del bitcoin è schizzato sopra i 48.000 dollari. Quanto a Tesla, si è subito detto che questa mossa per ingraziarsi i ricchi speculatori in criptomoneta le farà vendere più auto.

C’è solo un problema: è molto difficile fa convivere l’entusiasmo per i bitcoin con l’ambientalismo. Perché i bitcoin non sono per niente innocui per l’ambiente, anzi dal punto di vista delle emissioni risultano un’enorme e inquinante idiozia, e l’ovazione dei tifosi di Elon Musk non fa che peggiorare il loro impatto.

Solitamente, chi critica i bitcoin tende a dipingerli come una cosa inutile, che non produce reddito e non ha una funzione. C’è un altro argomento da considerare, ovvero che le conseguenze ambientali di questo giocattolo per speculatori finaziari sono molto serie. Il “mining”, il processo con cui si aumenta la disponibiltà di criptomoneta, consuma una quantità impressionante di elettricità, perché si base su un funzionamento h 24 di computer costantemente connessi. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo totale del processo di produzione dei bitcoin a circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile, di 20 milioni di abitanti. Una singola transazione in bitcoin utilizza la stessa quantità di energia richiesta da 436.000 pagamenti attraverso il circuito Visa.

Né si tratta di energia particolarmente pulita. Come ha sottolineato ancora de Vries, i “minatori” di bitcoin non sono interessati alle fonti di energia rinnovabile, più care e a rischio intermittenza. Dovendo far funzionare le loro macchine 24 ore su 24, 7 giorni su 7, molti prefersicono collocare i loro server in posti dove l’elettricità è a basso costo e magari è alimentata a carbone, come in Iran, nella provincia dello Xinjiang in Cina o in Kazakistan. Lo scorso autunno un gruppo di bitcoin mining ha persino evitato la chiusura di una centrale a carbone nel Montana.

Questa predilezione per i combustibili fossili produce un’impronta di carbonio enorme. Secondo uno studio del 2019, l’intensità di carbonio del network dei bitcoin si aggirerebbe tra 480 e 500g di CO2 per chilowattora (KWh) di elettricità. Per fare un paragone, l’impronta della rete elettrica del Regno Unito è di circa 250g CO2/KWh.

L’ingresso di Tesla in questo circuito probabilmente peggiorerà questi numeri. Quanto più i prezzi del bitcoin salgono tanto più è forte l’impulso a diventare potenziali minatori. La Judge Business School dell’Università di Cambridge ha rilevato che negli ultimi giorni il consumo di energia dei bitcoin è salito a livelli equivalenti a 121 TWh di consumo annuale, ovvero approssimativamente la quantità di energia assorbita dall’intera economia dei Paesi bassi.

Naturalmente, il bitcoin non è l’unico servizio digitale che consuma quantità folli di elettricità. Anche la Silicon Valley è molto vorace: l’Agenzia internazionale dell’energia riporta che nel 2019 i data center sparsi in tutto il mondo hanno divorato circa 200 TWh.

È vero che i giganti tecnologici statunitensi stanno cercando di ridurre le emissioni associate alle loro attività aumentando gli acquisti di energia rinnovabile. Ma se le big tech tendono ad accaparrarsi quanta più energia verde possibile, agli altri non rimane altro che ricorrere alle forme di produzione più “sporche”.

La scelta di Musk è molto discutibile. È difficile immaginarsi come le azioni di Tesla potranno rimanere in qualunque portafoglio verde se l’azienda comincerà a investire in bitcoin. Eppure, al momento il rating di sostenibilità dell’azienda assegnato dal compilatore dell’indice MSCI è di livello “A”.

L’ascesa delle criptovalute è l’esempio lampante di quanto sia difficile raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni finché le aziende tecnologiche saranno incentivate a sviluppare applicazioni sempre più energivore (Zoom e Netflix, per fare due esempi). La Silicon Valley vagheggia di risolvere questa contraddizione con soluzioni ingegneristiche non testate, come la cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria. Musk ha addirittura ventilato l’ipotesi di inviare persone su Marte, come una sorta di polizza assicurativa rispetto a quello che succederà sul nostro pianeta. Ma la verità è che la soluzione potrebbe essere ben più “terrena”, e risiedere nella capacità dei governi di tassare le esternalità e frenare la domanda galoppante.

Fonte: FT

Traduzione di Riccardo Antoniucci

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/15/financial-times-la-scommessa-di-tesla-sui-bitcoin-e-unidiozia-ambientale/6101601/

Oh no! Il nuovo rinascimento è fermo ai dpcm. - Antonio Padellaro

 

Il mio manuale personalizzato di rieducazione “Cancella il Conte che è in te” si fonda (anzi si fondava) su due capitoli fondamentali. Il titolo del primo è un imperativo categorico: Basta con i Dpcm!

Impone lo studio mnemonico della dottrina di cui siamo debitori al professore Sabino Cassese che sul tema si è più volte espresso con parole severe ma giuste. “Prima o poi anche la Corte costituzionale boccerà le misure anti-Covid del governo Conte, allora si riconoscerà che i Dpcm e i decreti sono illegali. Mancavano strumenti adatti? Lo strumento c’è ed è il decreto legge” (intervista a La Verità del 4.1.2021). Secondo il giudice emerito della Consulta, i limiti costituzionali previsti per interventi straordinari come il famigerato Dpcm non sono stati superati con la pandemia da Covid-19. Leggiamo avidamente che “la Costituzione ne detta tre: straordinarietà, necessità e urgenza. Prenda la seconda ondata della pandemia: era straordinaria? Non era stata prevista? Non si potevano, quindi, apprestare per tempo gli strumenti per fronteggiarla?”. Parole sacrosante, alle quali dal giorno della meritata cacciata di Conte ho cercato di uniformarmi, convinto che, generosamente, il professor Cassese aveva preferito non calcare la mano: la necessità di contrastare il cosiddetto Covid non era stata forse ampiamente sopravvalutata?

Si può immaginare dunque il mio sgomento alla notizia che il governo Draghi – sigh, il governo Draghi – ha approvato un nuovo Dpcm valido fino al 6 aprile, inclusa Pasqua. Mi sono sentito come lo sciamano Jake Angeli spedito da Donald Trump all’assalto di Capitol Hill e poi indegnamente mollato. Tradimento! Non riuscivo a raccapezzarmi finché non è comparsa la figura del ministro Speranza, lascito del passato regime e sicuramente parte attiva nella losca congiura del Dpcm riesumato. Senza arrossire, egli ha spiegato che per contrastare le varianti del virus occorre fare in fretta e il Dpcm resta “lo strumento più immediato”. Un grido erompe dal mio foro interiore: perché il professor Cassese tace! Calma, non dubitare, probabilmente l’emerito già invoca sollecite pronunce contro il mostro giuridico mentre batte pancia a terra i tribunali della Repubblica. Spero a questo punto che non si rinneghi il secondo caposaldo del nuovo Rinascimento di Palazzo Chigi: basta riunioni con il favore delle tenebre! “Penso che alle 11 di sera ci sia poca gente lucida”, ha detto un altro saggio, Franco Bernabè. Vero, e spesso ci scappa anche il ruttino.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/25/oh-no-il-nuovo-rinascimento-e-fermo-ai-dpcm/6113033/

Effetto Draghi. - Eugenio Orso

 

L’avvento di Draghi è stato pianificato da tempo, allo stesso modo in cui nel 2011 è stato pianificato l’avvento di Monti, tanto che si aspettava solo l’occasione giusta per mettere in azione Renzi il guastatore e Mattarella il basista istituzionale della Troika.
Si era già stabilito, probabilmente da alcuni mesi, che Conte sarebbe stato “a tempo” e non ci sarebbe stato un suo governicchio ter.
Il trasformista Conte ha fatto comodo, in due governi colorati in modo diverso, per “stemperare” la situazione sociale in Italia, per fingere di affrontare i problemi cruciali del paese, concedendo di governare a partiti come M5S e Lega definiti a livello mediatico “populisti” prima, “sovranisti” dopo, intendendo presunti portatori di una volontà popolare “eurocritica”, che oltre all’inevitabile delusione nei confronti di unione e euro chiedeva di riappropriarsi la Sovranità Nazionale perduta.
L’ingenuo “popolo sovranista” (deplorevoli negli Usa) si illuse, allora, che ci potesse esser un cambio di politiche economiche e sociali, la fine della distruttiva austerity, imposta dalla sopranazionale Ue/ Troika e una libertà di scelta, per l’Italia, dei partner commerciali e addirittura politici, come ad esempio l’orientamento proficuo verso Russia, Cina e Iran.

Dopo il “contentino” del primo Conte dato ai “sovranisti/populisti” (in Usa chiamati deplorevoli dal Deep State), per l’occasione colorato di giallo-verde, il secondo Conte ha cambiato colore in modo camaleontico, diventando giallo-rosso, ma sostanzialmente mantenendo – e questo era ciò che contava per i controllori dell’Italia – l’aggancio alla Ue, all’euro, all’atlantismo, agli Usa, senza uscire dal solco delle politiche neoliberiste imposte al paese.
In pratica, con il primo Conte giallo-verde si è mostrato, con buona esposizione mediatica, un certo tasso di fallimento dei (finti) “sovranisti” parlamentari, in sostanziale continuità con l’eurismo e l’atlantismo dei governi precedenti, poi si è deciso altrove, in alto e fuori dall’Italia, di cambiare registro e colore, ma solo in apparenza, perché la linea politica neoliberista, con annessa e automatica sottomissione alle “alleanze occidentali”, è l’unica cosa di fondamentale importanza che non può cambiare.
Con l’emergenza covid-19, in verità arma biologica diffusa dagli elitisti occidentali dalla Cina agli Usa per scopi ben precisi di potere, la situazione è diventata favorevole per impostare un “change” politico e di “governance” in Italia, che portasse, di fatto, al commissariamento finale neoliberista e globalista del paese.

Con Monti, “salito in politica” nel 2011, dal 16 novembre di quell’anno saldamente al governo, è iniziata la serie dei “premier” alieni, non scelti con elezioni politiche, e la vera sostanza della democrazia liberale, occidentale, “avanzata” avrebbe dovuto essere chiara a tutti già allora.
Lo stesso Conte, messo da parte come una scarpa vecchia, si inserisce a pieno titolo in quella ormai lunga serie di nomi, mentre l’ultimo e più pericoloso, il Quisling Troika/atlantista ed “europeista” Draghi, è espressione terminale di questa “democrazia commissariata” dai poteri forti sopranazionali.
Che poi si parli di governi “tecnici” o “tecnico-politici”, per segnare differenze apparenti fra Monti e Draghi e ingannare il popolo, non ha alcuna importanza.
La presenza nell’esecutivo Draghi delle varie comparse Speranza, Giorgetti, Guerini, Franceschini, Di Maio, Brunetta eccetera eccetera, non rende il governo “politico”, ma serve per dare un contentino ai partiti “draghisti” e una ridicola illusione agli elettori, che voteranno alle politiche solo quando lo stabilirà l’élite.

Qualcosa d’importante, di decisivo è cambiato, in particolare nell’ultimo decennio, dall’ABC a sostegno di Monti alla quasi unanimità nel sostegno a Draghi e nella scelta di maggioranze parlamentari e governi “in democrazia”?
Certo, è proprio così, tanto che il “commissariamento della democrazia” al quale assistiamo oggi, evidente anche per un cieco, allinea perfettamente il sistema di governo detto democratico alle superiori istanze e agli interessi dell’élite finanz-globalista-giudaica, che domina incontrastata la vasta area del mondo chiamata “occidente”.
Le continue cessioni di sovranità al sopranazionale, che riguardano in modo subdolo anche gli esecutivi (soprattutto quelli italiani), oltre a disintegrare progressivamente la (necessaria) sovranità dello Stato, che oggi si dovrebbe scrivere con la esse minuscola in quanto “commissariato”, consentono all’élite di appropriarsi delle risorse e delle ricchezze del paese, nel quadro di quello che io ho definito, in altri anni, la nuova forma di “imperialismo finanziario privato”.
Il fatto che non si ricorra più alle elezioni politiche per scegliere gli esecutivi, elezioni ammesse solo quando non c’è un rischio per il potere effettivo elitista, è il miglior segnale che questo “cambiamento” si è ormai compiuto.
Il vero scopo non è quello, come conclamato dai media prezzolati, di una maggior integrazione europea, della “new generation” europide, o della “coesione sociale” e politica interna, nell’affrontare emergenze create ad arte dagli stessi elitisti che ci controllano, in attesa del Great Reset.
Giunti a questo punto, ci si dovrebbe porre seriamente domande sulla sostanza della tanto osannata democrazia e su chi rappresentano veramente i cosiddetti rappresentanti del “popolo sovrano”, in parlamento.
Ci si dovrebbe chiedere cosa sono e a quali interessi rispondono i “partiti politici” e i cosiddetti gruppi parlamentari, che in questi anni nascono e muoiono sempre più velocemente, si compongono e si ricompongo opportunisticamente, fino ad approssimare la breve vita dei moscerini del mosto.
Domande, queste, che una popolazione ormai “zombificata”, indebolita, impaurita e sottilmente ricattata come quella italiana non si pone, o meglio, non ha più gli strumenti culturali minimi e un minimo di pensiero critico per porsele.

La democrazia si allinea, come già rilevato, al dominio assolutistico dei “mercati & investitori” (vecchia e ipocrita espressione giornalistica), che dettano le regole del gioco, della politica e dei governi.
Quella dei mercati & investitori elitisti è una sorta di (Fiat) Voluntas Dei assolutamente laica, finanziaria e mercantile, al quale l’occidente e, in prospettiva futura tutto il mondo, dovranno sottomettersi fino alla “fine della storia”, provocata da democrazia e mercato.
L’unicum che risulta da questo allineamento della democrazia al libero mercato globale, possiamo chiamarlo, se vogliamo, “governance globale” con espressione esotica, una nuova forma di governo, non prevista dagli antichi greci, in cui la stessa politica, non più con l’inziale maiuscola, è sottomessa al mercato, quale necessario preludio del tanto atteso (dagli elitisti) e irreversibile “governo mondiale”.
Andando con la memoria al passato, il Novecento è stato, fra l’altro, un secolo di confronto per la supremazia fra Stato e mercato e possiamo guardare alle esperienze comunista sovietica, nazista tedesca e fascista italiana, nonché alle guerre scatenate (secondo conflitto mondiale, guerra fredda successiva), come tentativi, molto diversi da loro, fuori e dentro il capitalismo, di sottomettere allo Stato (e quindi alla Politica, intesa come corretta amministrazione della casa comune) il libero mercato con tendenza sopranazionale e anomica.
Anzi, direi che lo scontro fra Stato/Politica e libero mercato apolide, dominato dall’1% (per capirci), è stato addirittura più importante del conflitto verticale all’interno del capitalismo produttivo di allora, universalmente noto come Lotta di Classe (non me ne voglia il grande Marx!), ed è stato una sorta di serrato e sanguinoso confronto fra Etica e anomia, detto con parole diverse ma sempre coerenti con l’intima natura del conflitto.

Questo inizio del terzo millennio, come è facile osservare, sancisce inequivocabilmente il trionfo del mercato sullo Stato e la dissoluzione della sovranità nazionale, almeno nella porzione occidentale del pianeta nella quale, purtroppo, anche noi ci troviamo a vivere.
Oltre la porzione di mondo dominata dai “mercati & investitori”, mascheramento dell’élite finanz-globalista-giudaica, ci sono gli Stati ancora Sovrani e Etici sotto attacco, come la Russia, l’Iran, la Siria, l’Iraq, il Venezuela, parte di questi assediati dai lanzichenecchi Usa e Nato (la Russia), o dagli scherani dell’asse del male occidentale-elitista-ebrea (vedi l’Iran) e alcuni letteralmente devastati, con la guerra in casa e i mercenari degli elitisti in azione (come l’isis e al-nusra in Siria e Iraq).
A partire dalla formazione sociale nord-americana, assunta sempre di più come modello sul quale appiattirsi nell’Europa occidentale e in Italia, si stanno formando veri e propri “feudi”, accanto alle grandi banche d’affari tradizionale strumento di potere elitista e ai consueti gruppi finanziari-industriali.
Feudi neocapitalisti come ad esempio quelli di Amazon e Facebook, che sono già più potenti di alcuni stati, con un potere sfuggente e decisamente “trasversale”, in grado di influenzare addirittura i rapporti di lavoro dipendente (i “buoni spesa” erogati da Amazon ai lavoratori, in luogo di una paga dignitosa) e i rapporti in rete, diventati fondamento di un mondo virtuale che diverge da quello reale, oscurando ciò che all’élite è politicamente sgradito, o “politicamente scorretto” in senso occidentale e quindi vietato.
Siamo giunti a uno snodo della storia cruciale, in cui l’asse del male elitista, confortata negli Usa dalla presidenza Biden, si risolverà in breve allo scontro finale con gli Stati Liberi, non ancora asserviti al suo potere e tutt’altro che in via di capitolazione.
Per questo, in previsione di un confronto militare con la Russia, con la Cina, con l’Iran, scatenato dall’occidente all’attacco, nel feudo europeo si cerca di “normalizzare” la vita politica, e se c’è un Macron in Francia, espressione convinta dell’élite (ebrei Rothschild ramo francese, per fare dell’ironia ma non troppo), in Italia, paese completamente sottomesso e piegato su sé stesso, serve un Draghi, un Quisling di provata fede, che funga da liquidatore finale del’ ex bel paese, dal quale estrarre risorse per affrontare i futuri conflitti con Russia, Cina, Iran e per assicurare la “fedeltà” dell’Italia al campo occidentale, anche e soprattutto in tempi di guerra, attivando le molte basi Nato presenti sul nostro territorio.
Se qualcuno ci ha fatto caso, Draghi al suo esordio come presdelcons “tecnico” e Nuovo Salvatore dopo Monti (più pericoloso di Monti stesso), ha espresso fedeltà all’”Europa”, naturalmente non quella millenaria e variegata, ma quella unionista-monetaria-elitista, e ha dichiarato la sua fede atlantista, che implicherà la partecipazione alle guerre devastanti decise sull’altra sponda dell’Atlantico.
Facile intuire quale sarà l’Effetto Draghi in questo disgraziato paese: impoverimento di massa, saccheggio del patrimonio nazionale (si venderà Piazza San Marco come la Grecia il Pireo?) e appoggio incondizionato alle guerre di aggressione elitiste contro gli Stati Etici ancora liberi.
L’Effetto Draghi sulla vita di noi tutti, nel nostro quotidiano sarà più devastante della pandemia covid-19 + varianti, che, guarda caso, è servita per innescarlo.

https://comedonchisciotte.org/effetto-draghi/


Rispetto le opinioni altrui, leggo spesso anche quelle che contrastano fortemente con le mie per poterne valutare la validità e, se ne traggo una certa logica, sono anche propensa a cambiare idea, perché nella vita non si finisce mai di imparare e, quindi, di crescere.
E nel caso in questione concordo su alcune argomentazioni, ma dissento su altre.
Non v'è dubbio alcuno che a comandare sul pianeta sia l'economia con chi la rappresenta; il potere economico, la brama di ricchezza e, pertanto, di potere in senso lato, rappresentano l'attrattiva più potente che spinge gli uomini deboli a cessare di essere uomini dimenticando etica, onore, dignità, rispetto verso gli altri, pur di ottenere ricchezza e potere.
Chi scrive l'articolo non riconosce la forza che spinge gli uomini forti a cercare di cambiare con tenacia ciò che è sbagliato e lo fa senza lasciarsi imprigionare da paletti ed etichette creati dagli uomini deboli per dividere, separare e, infine, comandare.
L'uomo forte non si trincera negli schemi, non segue religioni, non segue partiti per ottenere vantaggi, non insegue ricchezze perdendo se stesso, non ama spasmodicamente il potere, l'uomo forte pensa e si adopera per aggiustare ciò che non funziona, e lo farà finché avrà vita perché sa che quando tutto funzione bene, tutti stanno meglio.
Questi uomini meritano rispetto, non vanno derisi, vanno compresi, appoggiati e imitati.
Cetta.

I 4 dell’Ave Mario. - Marco Travaglio

 

Sei giorni fa titolavamo: “Perché è caduto Conte?”. Ora, alla luce delle prime scelte di Draghi, possiamo cancellare il punto interrogativo. Conte non è caduto per la blocca-prescrizione (confermata dal governo Draghi). Non per i Dpcm (li fa anche Draghi). Non per le chiusure anti-Covid (elogiate, ribadite e inasprite da Draghi). Non per i vertici serali (li fa pure Draghi, ieri per la mega-rissa sui sottosegretari). Non per ministri e collaboratori incapaci (quasi tutti confermati da Draghi, con l’aggiunta di Brunetta, Gelmini, Carfagna, Garavaglia, Stefani&C. per aumentare il tasso di competenza). Non per il Mes (non lo prende neanche Draghi). Non per il Reddito di cittadinanza (non lo cancella neanche Draghi). Non per il ponte sullo Stretto (non ne parla neppure Draghi). Non per Arcuri (finora se lo tiene anche Draghi). Non perché accentrava la governance del Recovery in soli tre ministeri (Draghi l’accentra in uno: il Mef del fido Franco). E qui finiscono i pretesti ripetuti per due mesi dall’Innominabile e dai suoi pappagalli per giustificare la crisi: erano tutte balle.

Le vere ragioni del ribaltone sono altre: mettere le mani dei soliti noti sui miliardi del Recovery e dirottarli verso Confindustria&C. Per chi nutrisse ancora dubbi, basta leggere i nomi dei ministri Franco, Cingolani, Colao, Giorgetti e (a pag. 2-3) dei sottostanti boiardi e retrostanti lobbisti, su su fino al neoconsigliere economico Francesco Giavazzi: un turboliberista che predica da sempre contro l’impresa pubblica e a favore di quella privata (ma con soldi pubblici) e che neppure i giornaloni riusciranno a spacciare per “liberalsocialista”, “keynesiano” e “allievo di Caffè” (che non smette più di rivoltarsi nella tomba, tanto nessuno sa dove sia). Mentre i partiti giocano agli adulti nel cortile dell’asilo coi loro ministri e sottosegretari superflui, Draghi e i Quattro dell’Ave Mario si occupano delle cose serie. Cioè della scelta meno tecnica e più politica del mondo: a chi destinare i miliardi del Recovery. Ricordate il mantra del Piano “scritto coi piedi” da Conte e Gualtieri e “migliorato” in extremis dal provvidenziale intervento renziano? Ora Repubblica titola: “Pulizia sul Recovery Plan. Il governo taglia subito 14 miliardi di progetti… senza copertura finanziaria. Sfoltite le iniziative in eccesso previste dal Conte2, si torna a quota 209,5 miliardi”. Già: ma le “iniziative in eccesso” sono quelle chieste dal Rignanese nel celebre Piano Ciao e aggiunte da Gualtieri per tacitarlo. Quindi era meglio il Piano Conte prima della cura Iv: quello “scritto coi piedi”, senza i famosi “miglioramenti” renziani che ora Draghi deve “ripulire”. Ma questo i repubblichini si scordano di scriverlo. Vergogniamoci per loro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/25/i-4-dellave-mario/6112986/

Governo Draghi, i sottosegretari scelti col Cencelli e il bilancino (più dei ministri). I berlusconiani si prendono Editoria e Giustizia. Ai Servizi va Gabrielli. - Martina Castigliani e Giuseppe Pipitone

 

Ancora una volta vince - anzi stravince - l’equilibrio della bilancia di precisione: 11 sottosegretari al M5s, 9 alla Lega, 6 per Pd (5 donne) e Forza Italia. Nel M5s non ci sono Fraccaro e Buffagni ma quattro news entry (tutte donne), il leghista Molteni torna al ministero dell’Interno. I berlusconiani piazzano uno dei loro all'Editoria e Sisto alla Giustizia (ma anche Mulè alla Difesa), Renzi ottiene di far rientrare Bellanova e Scalfarotto. Spazio anche per Tabacci e Della Vedova.

Peggio dei ministri, almeno di quelli politici. E d’altra parte questa volta le scelte erano tutte in mano ai partiti. Se esistesse qualcosa di più partitocratico dell’ormai mitologico manuale Cencelli di sicuro sarebbe stato utilizzato per nominare i sottosegretari di Mario Draghi. Già quando aveva letto la lista dei suoi ministri le scelte dell’ex presidente della Bce avevano deluso chi da settimane parlava del “governo dei migliori“. Niente da dire, fino alla prova dei fatti, sugli otto tecnici piazzati nei dicasteri chiave. Musica molto diversa sulle 15 poltrone divise col bilancino tra la maggioranza a larghe intese che appoggia il governo. Stesso spartito per le lista dei 39 sottosegretari, arrivata a dieci giorni dal giuramento: 11 poltrone vanno ai 5 stelle, primo gruppo in Parlamento, 9 alla Lega, 6 per il Pd e 6 per Forza Italia, due per Italia viva. Un incarico a testa per i partiti piccoli e quindi Leu, +Europa (con Benedetto Della Vedova), Centro democratico (Bruno Tabacci) e perfino Noi con l’Italia, quella che alle politiche del 2018 doveva essere “la quarta gamba” del centrodestra e poi è sparita dai radar. Ricompare con la nomina di Andrea Costa, consigliere regionale, alla Salute. Non ha un seggio in Parlamento anche Alessandra Sartore, assessore al Bilancio in Regione Lazio che Nicola Zingaretti ha promosso al governo per sopperire alla contestatissima mancanza di donne del Pd al governo. Alla fine su sei posti per i dem, questa volta solo uno va ad un uomo.

Una lista composta col bilancino dell’orafo – Anche sul fronte delle quote genere la lista dei sottosegretari del governo Draghi è stata stilata mixando il Cencelli e il bilancino di precisione dell’orafo. Alla fine su 39 incarichi (sei da viceministro) le donne sono una leggerissima maggioranza: 20 contro 19 uomini. Tra questi ultimi rientra anche l’unico tecnico della partita: Franco Gabrielli lascia l’incarico di capo della Polizia per prendere la delega ai servizi segreti. Lo stesso cursus honorum seguito a suo tempo da Gianni De Gennaro che però tra il vertice della Polizia e l’incarico di governo guidò il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Gabrielli, invece, cambia veste in 24 ore e prende la delega contestata da Matteo Renzi quando a reggerla era Giuseppe Conte. Precisione finissima è stata poi utilizzata per quanto riguarda gli schierementi: per ogni delega ci sono sempre almeno due componenti, uno della ex maggioranza del governo Conte 2 e uno della vecchia opposizione. Resta da capire come faranno a lavorare insieme persone che fino a due settimane fa non se le mandavano a dire. E anche ultimamente non si sono trattenute. Bilancino e sostanziale pareggio anche per le provenienze geografiche (anche se tra i ministri c’era un’ampia maggioranza di “nordisti”): i sottosegretari provenienti dal Sud e dalle isole sono in totale 16 (6 solo dalla Puglia). In sette sono originari dalle Regioni del Centro Italia, mentre altri 16 provengono dalle Regioni settentrionali (7 sono lombardi).

Ai berlusconiani Editoria e Giustizia – Per il resto fa rumore lo scippo dei berlusconiani che riescono a mettere le mani sulla delega all’Editoria, fondamentale per i destini dell’impero di Arcore. Forza Italia avrebbe voluto piazzare lì addirittura Giorgio Mulè, berlusconianissimo ex direttore di Panorama: i 5 stelle e il Pd hanno fatto muro, provocando a un certo punto la sospensione del Consiglio dei ministri. Alla fine la quadra è stata trovata spostando Mulè alla Difesa, ma mantenendo la preziosissima delega a giornali e informazione: finisce a Giuseppe Moles, non un pretoriano ma comunque berlusconiano della prima ora. Ex assistente di Antonio Martino all’università e poi nel primo governo Berlusconi, è alla seconda legislatura in Parlamento. È al quinto giro, invece Francesco Paolo Sisto, una sorta uomo-immagine della giustizia made in Arcore: l’avvocato pugliese fu uno degli scudi umani del capo durante la legislatura delle leggi ad personam e delle nipoti di Mubarak. Negli ultimi tempi non è cambiato. Quando per esempio il leghista Armando Siri dovette dimettersi perché era indagato per corruzione, Sisto tuonò in Parlamento: “Il Paese è nelle mani della magistratura. Le Procure decidono la composizioni del governo, questo è un attacco alle istituzioni. Ce ne rendiamo conto? Sveglia, sveglia”. Dove poteva finire oggi? Ovviamente alla giustizia. Tenterà, con ogni probabilità, di bombardare in ogni modo le riforme anticorruzione e sulla prescrizione del Movimento 5 stelle.

I 5 stelle tra new entry e uscenti blindati. Ma non ci sono Fraccaro e Buffagni – Toccherà alla grillina Anna Macina provare a neutralizzare Sisto. Pure lei legale originaria della Puglia, è firmataria della legge sul conflitto di interessi (uno dei provvedimenti più importanti per il M5s), siede in commissione Affari costituzionali e nella Giunta per il regolamento. A ottobre 2019 era in corsa per diventare capogruppo, ma finì nel tritacarne dei veti incrociati (era un nome gradito a Di Maio) e decise di ritirarsi. Macina è una delle deputate alla prima legislatura su cui i 5 stelle cercano di puntare per ricomporre un gruppo massacrato da polemiche e guerre interne. È lo stesso caso di Rossella Accoto, fino a oggi capogruppo in commissione bilancio del Senato (molto attiva sul fronte Ristori) e da domani sottosegretaria al Lavoro: cercherà di preservare l’influenza 5 stelle in un dicastero in cui sono passati prima Di Maio e poi Nunzia Catalfo. Tra i nuovi ingressi: Barbara Floridia all’Istruzione, senatrice che già l’ex capo politico aveva scelto per il suo “team del futuro” come facilitatrice per l’area “formazione e personale”; Ilaria Fontana, deputata laziale conosciuta nel Movimento per le sue battaglie su ambiente ed economia circolare: sarà sottosegretaria del nuovo superministero alla Transizione ecologica. Primo incarico al governo, ma seconda legislatura, per Dalila Nesci: calabrese, neo sottosegretaria al Sud. E’ considerata vicina a Roberto Fico, ma soprattutto è la principale esponente della corrente Parole guerriere (come Gallo e Brescia) e tra le prime a spingere per il sostegno al governo Draghi. Confermata dal precedente esecutivo la presenza di Giancarlo Cancelleri ai Trasporti (il siciliano era viceministro, ora sarà sottosegretario), Giampaolo Sileri alla Salute e Alessandra Todde allo Sviluppo Economico. Sono al terzo incarico (facevano parte anche del Conte 1) Laura Castelli all’Economia, Carlo Sibilia agli Interni e Manlio Di Stefano agli Esteri. In particolare su Castelli, Di Stefano e Cancelleri sarebbe arrivata la blindatura di Di Maio, ma in generale i registi delle trattative sono stati il capo politico reggente e i due capigruppo (tutti e tre per scelta esclusi dalle nomine). Fuori dal governo, invece, resta Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidente con Conte, considerato molto vicino all’ex premier. E pure Stefano Buffagnirumors raccontano che sull’ex sottosegretario lombardo sia calato il veto di Vito Crimi, ma anche la Lega rivendica la sua esclusione come un successo del Carroccio.

Il ritorno dei leghisti e dei renziani – Dopo l’esperienza gialloverde il partito di Matteo Salvini riporta al governo Claudio Durigon al Lavoro, Vannia Gava alla Transizione ecologica e Lucia Borgonzoni ai Beni culturali: nel 2018, quando venne nominata per la prima volta, disse di non leggere un libro da tre anni. Chissà se nel frattempo ha migliorato la sua media. L’anno scorso fu protagonista della campagna elettorale per le Regionali in Emilia-Romagna: dopo aver giurato che anche in caso di sconfitta sarebbe rimasta in Regione, perse le elezioni contro Stefano Bonaccini ritornò in Senato. Ma non è il tasto più dolente: è ancora consigliera comunale a Bologna e nel 2020 ha disertato tutte le sedute (anche se erano da remoto). Rientra all’ultimo agli Interni Nicola Molteni, co -firmatario dei decreti Sicurezza di Salvini, sul quale era stato posto un veto del Pd: senza successo a quanto pare. Inascoltata pare sia stata la richiesta di Stefano Patuanelli che non voleva come sottosegretario all’Agricoltura Gian Marco Centinaio. Tra i leghisti sarà il primo giuramento invece per Alessandro Morelli, ex presidente della commissione Trasporti, ex direttore di Radio Padania e attuale numero uno del giornale online Il Populista: è considerato molto vicino all’uomo del Carroccio a Mosca, Gianluca Savoini. Esordio al governo pure per Stefania Pucciarelli, piazzata alla Difesa: una volta mentre viaggiava in treno ci tenne a sottolineare di essere “l’unica italiana in un vagone pieno di stranieri, tutti di colore. Tutti sprovvisti di biglietto”. Aneddoto simile per Rossano Sasso, all’Istruzione: anni fa organizzò un flash mob per una violenza sessuale in spiaggia chiamando “bastardo irregolare” il presunto violentatore, che però si è poi rivelato innocente. Squadra completamente confermata, invece, per Italia viva: dopo la ministra Elena Bonetti, tornano al governo Teresa Bellanova Ivan Scalfarotto, che questa volta si occuperanno – rispettivamente da viceministra e sottosegretario – di Trasporti e Interni. Sono praticamente le stesse persone che facevano parte del governo Conte e che lo fecero cadere dimettendosi. Per settimane Matteo Renzi si è vantato urbi et orbi che per lui “non era una questione di posti”, che il suo partito era l’unico ad aver “fatto dimettere i propri ministri”. Quaranta giorni dopo le dimissioni sono di nuovo lì.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/24/governo-draghi-i-sottosegretari-scelti-col-cencelli-e-il-bilancino-piu-dei-ministri-i-berlusconiani-si-prendono-editoria-e-giustizia-ai-servizi-va-gabrielli/6112661/

Nominati 39 sottosegretari, le donne sono 19, i viceministri 6.

 

I veti reciproci e il pressing dei partiti della larga maggioranza complicano fino all'ultimo la partita dei sottosegretari che, comunque, alla fine viene chiusa, attraverso un Consiglio dei ministri non privo di tensioni. La riunione è caratterizzata da turbolenze sui nomi, da veti incrociati e da qualche richiesta disattesa.

Tanto che a un certo punto il Cdm viene sospeso, addirittura con l'ipotesi di uno slittamento al giorno dopo. Poi, finalmente, la chiusura del cerchio. Della squadra fa parte il capo della Polizia, Franco Gabrielli, che ha la delega ai servizi segreti. Mentre sulla casella dell'Editoria lo scontro va avanti fino all'ultimo minuto. Nutrita la compagine femminile: quasi la metà, 19, sono donne. Anche lo sport resta uno dei nodi da sciogliere: la delega, viene spiegato, sarà assegnata successivamente. In giornata, il presidente del consiglio Mario Draghi decide di accelerare e nel pomeriggio modifica l'ordine del giorno di un Consiglio dei ministri già convocato, per inserire la decisione sulla squadra di governo.

La lista, limata a Palazzo Chigi a partire dalle rose di nomi presentate dai partiti, viene resa nota solo all'ultimo, ma non tutto quadra: in Cdm emergono dubbi su alcuni nomi e caselle, la riunione viene sospesa per trovare una sintesi. Riuniti attorno a un tavolo a Palazzo Chigi, i ministri cercano di trovare la sintesi di un lavoro che va avanti ormai da giorni, fra le attese dei partiti, le aspirazioni dei singoli, la necessità di mantenere gli equilibri. Trapelano dei rumors. Il primo a sollevare obiezioni sarebbe stato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini: c'è l'intenzione di assegnargli un solo sottosegretario, ma lui avrebbe obiettato che, alla luce del lavoro che spetta al ministero, questo tipo di formula non è tecnicamente sostenibile. Alla fine l'avrà vinta. Nel gioco dei pesi fra i partiti, il conto vede 11 sottosegretari per il M5s, 9 per la Lega, 6 per FI e Pd, 2 per Italia Viva, uno di Leu, uno del centro democratico, e uno di più Europa.

Questa la squadra. Presidenza del Consiglio • Deborah Bergamini, Simona Malpezzi (Rapporti con il Parlamento) • Dalila Nesci (Sud e coesione territoriale) • Assuntela Messina (Innovazione tecnologica e transizione digitale) • Vincenzo Amendola (Affari europei) • Giuseppe Moles (Informazione ed editoria) • Bruno Tabacci (Coordinamento della politica economica) • Franco Gabrielli (Sicurezza della Repubblica) Esteri e cooperazione internazionale Marina Sereni - viceministro Manlio Di Stefano, Benedetto Della Vedova Interno Nicola Molteni, Ivan Scalfarotto, Carlo Sibilia Giustizia Anna Macina, Francesco Paolo Sisto Difesa Giorgio Mulè, Stefania Pucciarelli Economia Laura Castelli - viceministro Claudio Durigon, Maria Cecilia Guerra Alessandra Sartore Sviluppo economico Gilberto Pichetto Fratin - viceministro Alessandra Todde - viceministro Anna Ascani Politiche agricole alimentari e forestali Francesco Battistoni, Gian Marco Centinaio Transizione ecologica Ilaria Fontana, Vannia Gava Infrastrutture e trasporti Teresa Bellanova - viceministro Alessandro Morelli - viceministro Giancarlo Cancelleri Lavoro e politiche sociali Rossella Accoto, Tiziana Nisini Istruzione Barbara Floridia, Rossano Sasso Beni e attività culturali Lucia Borgonzoni Salute Pierpaolo Sileri, Andrea Costa. Sarà successivamente designato il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport.

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/02/24/il-cdm-slitta-alle-18-allodg-la-nomina-dei-sottosegretari_34ad4387-4c1f-48ca-a2fa-167adf960ca5.html