mercoledì 21 luglio 2021

La finta unità nazionale perde i pezzi. - Antonio Padellaro

 

Quando dopo l’avvenuto Conticidio, lo scorso 2 febbraio Sergio Mattarella convocò al Quirinale Mario Draghi, indicò come unica soluzione possibile un governo di unità nazionale “per fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria” (l’altra ipotesi era il voto anticipato descritto però come una specie di calamità nazionale). Quando il nuovo premier mise insieme una larga maggioranza (a eccezione di FdI e della Sinistra di Fratoianni) vi furono cori da stadio, tipo Wembley, e nei ditirambi dell’informazione al seguito s’immaginò un Paese finalmente affratellato, per risolvere tutti insieme appassionatamente le “gravi emergenze presenti”. Un luogo incantato tipo quello nel quale il “leone e il vitello giaceranno insieme” (Isaia), “anche se il vitello non dormirà molto” (Woody Allen). Infatti, qualche voce dissonante si era detta perplessa sulla possibilità di tenere insieme Lega e Pd, FI e M5S, vale a dire tutto e il contrario di tutto, a eccezione dei due Matteo, già in “palese fidanzamento” (Bersani). Tranquilli, risposero gli aruspici del Foglio convinti che il governo dei Migliori, sommato alla vittoria dei Måneskin, al trionfo degli Azzurri e alla finale persa da Berrettini, annunciasse il migliore dei mondi possibili. In questo paradiso in terra, nel caso di qualche disputa di sicuro irrilevante, SuperMario avrebbe paternamente ascoltato per poi emettere il suo saggio, autorevole e insindacabile giudizio. Del resto, il compromesso non è forse la sublimazione della politica, che a sua volta è l’arte del possibile, eccetera? Purtroppo, entrata a vele spiegate nell’età dei prodigi, la supposta unità nazionale diede, trascorsi pochi mesi, una formidabile musata contro la dura realtà delle cose. Chi poteva immaginare che uno stravagante leader (leghista) della Santa Alleanza fondasse da un giorno all’altro una nuova branca della virologia, stabilendo che al compimento dei 40 anni si poteva (forse) contrarre la perniciosa variante Delta, ma che sotto i 40 anni (ora più ora meno) il virus sarebbe risultato praticamente innocuo? Oppure, che una prestigiosa giurista, pronosticata al Quirinale, elaborasse una riforma della Giustizia che in due anni, indipendentemente dalla gravità dei reati ne sancisse l’improcedibilità, e oplà, il processo non c’è più? Provocando un tale gigantesco falò nei tribunali che a paragone il famoso rogo delle leggi “inutili” organizzato da quell’altro buontempone di Calderoli, sarebbe sembrato una grigliata. Domanda: è possibile cercare l’unità nazionale nell’insensatezza? O nella malafede?

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Salvaladri, Gratteri e De Raho: “È più conveniente delinquere”. - Giampiero Calapà

 

Il procuratore nazionale: “È un forte indebolimento della lotta a terrorismo, mafie, corruzione: lesione alla sicurezza del Paese”.

“Una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”. “Un indebolimento della lotta alle mafie”. “Converrà di più delinquere”. “Il cinquanta per cento dei processi saranno improcedibili”. È cominciata malissimo ieri la giornata per la guardasigilli Marta Cartabia, la cui riforma della giustizia è stata fatta a pezzi dalle audizioni, in commissione alla Camera, del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e del capo della Procura di Catanzaro Nicola Gratteri. La ministra, dal canto suo, incontrando i capi degli uffici giudiziari della Corte d’appello di Napoli ha cercato di tenere il punto: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. E anche in quella sede non è andata un granché bene col procuratore generale Luigi Riello che non si è tirato indietro: “Mi sembrerebbe molto triste dover trarre la conclusione che l’unico modo di fare i processi in questo Paese sia non farli, sia offrire ponti d’oro agli imputati per indurli a scegliere, a suon di sconti, saldi, liquidazioni e riti alternativi”.

A Roma, appunto, nelle stesse ore il dibattito sulla riforma si spostava in commissione Giustizia a Montecitorio. Il primo a sedersi di fronte ai deputati è stato Gratteri, subito pronto a denunciare “un grande allarme sociale che riguarda la sicurezza: il cinquanta per cento dei processi finiranno sotto la scure della improcedibilità. E temo che i sette maxi processi contro la ’ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro saranno dichiarati tutti improcedibili in appello. Uno dei punti qualificanti della riforma Cartabia è, appunto, l’improcedibilità dell’azione penale che prevede l’annullamento della sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi precedenti trascorsi due anni e un anno rispettivamente in appello e Cassazione. È una disposizione che avrà come effetto quello di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta”. L’improcedibilità renderebbe quasi impossibili i processi con molti imputati. Il lavoro di anni, per Gratteri, rischia di andare in fumo per colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del governo “dei migliori”, capace di arrivare dove neppure nel Ventennio berlusconiano si era arrivati con le cosiddette riforme della giustizia e i continui attacchi pubblici alla magistratura.

La riforma Cartabia è un vero colpo di mano, infatti, per Gratteri, che ha continuato: “In termini concreti le conseguenze saranno la diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancor di più conviene delinquere”.

Se le parole di Gratteri bastavano a mandare di traverso il caffè alla guardasigilli e anche al premier Mario Draghi, il carico da novanta è arrivato poco dopo, quando sulla stessa seggiola di Montecitorio si è seduto il procuratore nazionale Antimafia De Raho: “Non è per nulla condivisibile che un procedimento per un delitto di mafia o di terrorismo diventi improcedibile, perché nella fase di appello non si è pervenuti a sentenza nei due anni o non è stato prorogato il termine dal giudice procedente. Il contrasto alle mafie ne uscirebbe fortemente indebolito. L’esigenza della ragionevole durata del processo richiede il superamento degli ostacoli che impediscono alla macchina della giustizia di muoversi velocemente, rendendo la giustizia più efficiente e consentendole di celebrare i processi in tempi rapidi, coprendo o aumentando gli organici dei magistrati e fornendo di assistenza necessaria l’attività giudiziaria. La durata dei gradi di giudizio – ha concluso De Raho con un’ultima sberla al governo – non può rendere improcedibili i delitti di mafia, di terrorismo e di corruzione, rappresentando essi una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”.

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I veri anti-italiani/4. - Marco Travaglio

 

Mentre attendiamo le scuse dei finti patrioti che una settimana fa ci insultavano per i nostri titoli sulle “Notti magiche inseguendo il Covid” e sulla “Trattativa Stato-Bonucci”, mentre l’assessore laziale alla Sanità attribuisce all’“effetto Gravina” il boom di nuovi contagiati e ricoveri in ospedale per i folli festeggiamenti legittimati da SuperMario (“Con quella Coppa possono fare ciò che vogliono”), concludiamo il racconto del Consiglio Europeo di un anno fa, quando Conte portava a casa 209 miliardi e i veri anti-italiani rosicavano di brutto. Vedi mai che qualcuno capisca la differenza tra tifare contro il proprio Paese e mantenere la lucidità (e la salute) dinanzi a undici tizi in mutande (più riserve).

Il 22 luglio 2020, al suo ritorno dalla battaglia vinta a Bruxelles, Conte viene elogiato persino da B. (“Accordo buono”), Meloni (“Abbiamo tifato Italia, poteva andare meglio, ma Conte è uscito in piedi”) e financo Renzi (“Conte in Europa ha lavorato bene”). Solo Salvini non ce la fa proprio (“È una superfregatura grossa come una casa, una resa senza condizioni alle scelte della Commissione”). Mattarella riceve il premier al Quirinale e si congratula, così come la stampa e le cancellerie estere. Ma i giornali italiani sono un mondo a parte: confondono gli sporchi interessi dei loro padroni con la realtà e non permettono ai fatti di disturbare i loro pregiudizi. Trovare il nome del premier su una prima pagina è un’impresa disperata, per esperti di nanoparticelle armati di microscopio elettronico.

Sambuca Molinari, su Repubblica, in evidente imbarazzo dopo le centurie alla Nostradamus dei giorni precedenti (“Sul ring europeo con le mani legate”, “Ue, l’Italia all’angolo”), scrive come se Conte a Bruxelles non fosse neppure presente: “Dopo 5 giorni di maratona negoziale (che poi sono 4, ndr) la battaglia di Bruxelles… si è conclusa con un successo del fronte franco-tedesco… La maratona mozzafiato… ha visto Francia e Germania determinate… contro i Paesi ‘frugali’… e sovranisti”. L’Italia non c’era. Sempre su Rep, Stefano Folli è nero di lutto e verde di bile: quella pippa di Conte “ha ottenuto solo in parte quello che ha chiesto (36,5 miliardi in più del previsto, ndr), ma vanterà in ogni caso una vittoria”. Roba da matti. Ma c’è ancora speranza che cada: “C’è una precisa discriminante ed è il Mes… Conte spera ancora di farne a meno, ma è difficile”. Infatti non prenderà il Mes né Conte né Draghi. Segue straziante appello a chi di dovere per “evitare che sia Conte a gestire in solitudine o quasi la leva di potere creata dal Recovery”.

Anche Massimo Franco, sul Corriere, è affranto per l’esultanza di Conte e del governo.

Quindi devono “evitare la tentazione più insidiosa: il trionfalismo”, perché sì, Conte ha “confermato le sue doti di negoziatore” e “ha scelto le sponde continentali giuste nella penombra dei consigli del Quirinale” (senza Mattarella, si sarebbe alleato ai frugali), ma “senza l’appoggio tedesco e francese, il risultato sarebbe stato ben diverso”. In effetti, se la partita l’avesse giocata Rutte da solo, avrebbe vinto l’Olanda. Ora Conte si guardi dal “rischio concreto” dell’“ideologia grillina” contro il Mes (sempre sia lodato). I noti economisti di Libero non riescono a riaversi: “Festeggiano Conte perché ci indebita” (Senaldi), “Occhio alla fregatura. Non illudetevi, alla fine pagheremo noi” (Feltri), “Conte lecca Berlusconi e teme l’ira popolare quando emergeranno le bugie sul Recovery” (Farina). C’è pure Facci, inconsolabile, che si sfoga come può ripescando dalla preistoria un incidente stradale del 1981: “Grillo, la vera storia dell’incidente mortale”. Apperò. Alla Verità sono sull’orlo del suicidio: “L’Ue ci presta i soldi (nostri) ma solo dall’anno prossimo” (Belpietro), “Da dove viene quel denaro? Guardate nei salvadanai” (Veneziani). Sul Giornale, l’autorevole Minzolingua rivela: “Il governo rischia il crac sui fondi Ue” perché “è il governo delle marchette” (bei tempi quelli delle nipoti di Mubarak, delle igieniste dentali e delle marchette a spese della Rai).

Per trovare un po’ di obiettività bisogna andare all’estero. Il 23 luglio Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, in un lungo articolo sul New York Times porta il governo Conte a modello per gli Usa: “Perché l’America di Trump non può essere come l’Italia?”. “Dopo una terribile partenza, l’Italia si è mossa rapidamente per fare ciò che era necessario contro il Covid. Ha imposto restrizioni molto severe e vi si è attenuta. Gli aiuti del governo hanno sostenuto i lavoratori e le imprese… In un caso estremo di ‘non trumpismo’, il primo ministro si è persino scusato per i ritardi negli aiuti. E soprattutto l’Italia ha schiacciato la curva: ha mantenuto il blocco finché i casi sono diventati relativamente pochi ed è stata cauta riguardo alla riapertura… L’America avrebbe potuto seguire la stessa strada, ma Trump ha spinto per una rapida riapertura, ignorando gli epidemiologi… Oggi gli americani possono solo invidiare il successo dell’Italia… Che viene spesso definita ‘il malato d’Europa’. Ma, se è così, noi cosa siamo allora?”. Il 26 luglio, mentre Cassese sul Corriere paragona Conte a Orbán, El País lo elogia come l’ex “sconosciuto e sottovalutato”, il “figlio dell’emergenza” divenuto “protagonista dell’Europa”. Ma quelli, non essendo italiani, sono giornali veri.

(4 – fine)

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Lega, i 49 mln: che fine ha fatto il bottino. - Marco Grasso e Davide Milosa

 

Va verso la chiusura l’indagine sui soldi alla “Lista Maroni”. Tesoro sparito: Genova archivia, ma invia gli atti ai magistrati di Milano.

Dopo anni di indagini, dei 49 milioni di euro della Lega, si può dire di certo che sono spariti. Dove siano andati e, soprattutto, se e come siano ritornati indietro, rischia di restare un interrogativo (almeno per ora) senza risposta.

La Procura di Genova si appresta a interrompere la caccia al tesoro, conservato fino al 2012 su un conto della Banca Aletti, gestito dall’ex tesoriere Francesco Belsito: i pm stanno per chiudere le indagini e chiedere il rinvio a giudizio per i 450mila euro erogati alla lista “Associazione Maroni Presidente”. Il fascicolo, per competenza, sarà trasferito a Milano. L’altro grande filone, quello sui 10 milioni di euro finiti in Lussemburgo, va invece verso la richiesta d’archiviazione. Anche se gli atti, richiesti espressamente dai colleghi di Milano potrebbero dare nuova linfa alle inchieste dei pm lombardi.

L’origine di tutto è la condanna di Belsito: ex cassiere di Umberto Bossi, per i giudici ha truccato bilanci e truffato lo Stato, facendo ottenere al partito 49 milioni di euro pubblici che non gli spettavano. Ma quando nel 2017 la Guardia di Finanza si presenta per chiederli indietro, di quei soldi sono rimaste le briciole, 3 milioni. La Lega Nord si offre di ripagare il debito in comode rate di 80 anni, e viene trasformata da Matteo Salvini in una bad company: tutta l’attività politica (con i nuovi finanziamenti) viene trasferita nella nuova Lega. Nel frattempo, varie Procure cominciano a dare la caccia al patrimonio evaporato.

La vicenda dell’“Associazione Maroni Presidente” è una fetta apparentemente piccola della torta, che però rappresenta per la Guardia di Finanza una parte per il tutto. Nel 2013 la lista che sostiene la corsa di Bobo Maroni a governatore in Lombardia riceve dalla Lega Nord 450mila euro inizialmente messi a bilancio come “erogazione liberale”. Voce poi cambiata in “prestito/finanziamento infruttifero”. Il problema è che la fonte iniziale, secondo i pm, sarebbero i soldi della maxi-truffa: ecco perché il loro reimpiego costa al presidente della lista civica, Stefano Bruno Galli, assessore regionale della giunta di Attilio Fontana, un’accusa di riciclaggio. Secondo i pm, nel 2015 in una riunione romana cui partecipa Galli e il tesoriere di nomina salviniana Giulio Centemero (non indagato) si decide di trasformare la dicitura erogazione liberale in “restituzione prestito”. L’indagine nasce da un esposto dell’ex capogruppo della lista, Marco Tizzoni, che ai pm in sostanza dice: mai visti quei soldi. Sulla carta sarebbero stati spesi in volantini stampati da una società di Fabio Boniardi, parlamentare leghista (non indagato). Per gli inquirenti, coordinati dal procuratore Francesco Pinto e dal colonnello Andrea Fiducia, quelle fatture sono servite a far uscire i 450mila euro dalle casse della Lega verso l’“Associazione Maroni Presidente”, e poi restituirli alla Lega stessa.

Va verso la richiesta di archiviazione, invece, la parte più consistente dell’indagine genovese: l’inchiesta sui 10 milioni di euro partiti dalla Banca Sparkasse di Bolzano e finiti in Lussemburgo, un investimento ritenuto anomalo perché, a stretto giro, 3 milioni di quell’operazione erano rientrati in Italia, poco prima delle elezioni politiche del 2018 (e subito dopo il primo sequestro ai conti del Carroccio). Determinante è stato l’esito della relazione depositata alcuni giorni fa dai consulenti di Banca d’Italia, coordinati dal capo degli ispettori antiriciclaggio Emanuele Gatti. Secondo gli 007 di via Nazionale non ci sono prove documentali sufficienti per collegare quei soldi alla Lega. E dimostrare la tesi accusatoria: che il capitale iniziale – che Sparkasse ha sempre sostenuto essere proprio – fosse garantito da una provvista in contanti. Un’operazione chiamata in gergo back to back, di cui la Procura ha cercato invano tracce con rogatorie in Svizzera e nel Granducato.

Dalle ceneri di questi accertamenti, tuttavia, potrebbe ripartire però Milano (dove i pm di Genova ora spediranno nuovi atti): l’inchiesta sul Lussemburgo aveva portato infatti alle perquisizioni dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni e dello studio di via Angelo Maj, a Bergamo, dove hanno sede sette società controllate da una holding lussemburghese; quel blitz è stato foriero di una miniera di informazioni, parte delle quali, soprattutto migliaia di mail e chat, ancora da sviluppare. È anche sulla base di questo capitale informativo che il procuratore Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi sono arrivati alle condanne della coppia Manzoni e Di Rubba (uomini di fiducia di Centemero) nella vicenda della Lombardia Film Commission. In un vertice che si è tenuto nei giorni scorsi, i pm milanesi hanno concordato con i colleghi di Genova l’acquisizione di tutti gli atti sull’inchiesta del Lussemburgo: “Se non ci fossero elementi di interesse questo passaggio non ci sarebbe nemmeno”, spiega un inquirente.

A collegare la Lega e quell’investimento nel Granducato erano state le dichiarazioni del commercialista Michele Scillieri. Ai magistrati aveva riferito di aver avuto una confidenza da Di Rubba: “Quando nel dicembre 2018 uscirono gli articoli sull’Espresso sulle sette società, gli chiesi se c’era un collegamento con i 7 milioni finiti in Lussemburgo. Lui mi fece un gesto, come a indicare dei rivoli, e io intuii che ogni società aveva in dote un milione”. E ancora: “Da quello che sapeva lui (Di Rubba, ndr), tramite l’avvocato Aiello (ex legale della Lega, ndr), i famosi 10 milioni erano effettivamente transitati dalla Sparkasse sul Lussemburgo”. Agli atti dell’inchiesta di Genova c’è anche un’intercettazione tra due ex manager di Sparkasse, Dario Bogni e Sergio Lo Vecchio, che nel 2018 parlavano preoccupati dell’affaire dei 10 milioni: “Il problema è il collegamento con Brandstatter”. Gerard Brandstatter, presidente della banca altoatesina, ha condiviso in passato lo studio proprio con Aiello (che aveva avuto a sua volta ruoli nel consiglio di vigilanza di Sparkasse): “Credo che sia ancora con Aiello, in quello studio a Milano”.

Insomma, le intercettazioni che per la Procura di Genova da sole non bastano a richiedere un processo, fanno parte degli atti che interessano e saranno trasferiti a Milano.

L’arrivo dei nuovi atti è destinato ad aprire altre piste investigative. La Procura di Milano punta sulla nascita della nuova Lega di Matteo Salvini. Qui il punto, rimarcato negli interrogatori con il commercialista Michele Scillieri, è comprendere come e perché è nato il nuovo soggetto e in che modo il partito e le varie leghe regionali abbiano rappresentato, come spiega Scillieri, i “rivoli” in cui sarebbero stati riversati i soldi della nuova Lega. E, in parte, ciò che restava dei 49 milioni. L’obiettivo di queste newco leghiste, come si legge in una email del tesoriere Giulio Centemero, e come svela Scillieri, era quello di evitare i sequestri di Genova. Un altro filone da approfondire riguarda la figura dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara (non indagato), finito nel mirino per un’operazione di acquisto e vendita con una plusvalenza di circa 24 milioni di euro. Subito dopo l’operazione Carrara chiede un finanziamento da 65 milioni di euro alla Swiss Merchant Corporation, con la mediazione di Di Rubba e Scillieri: per quale motivo, se aveva tutta quella liquidità? Il sospetto della Procura è che i 24 milioni fossero una partita di giro e soprattutto non fossero tutti di Carrara. Insomma, la caccia al tesoro è tutt’altro che finita.

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Mafia: secondo blitz in due giorni a Palermo, 8 arresti.

 

Nuovo colpo al mandamento di Tommaso Natale. 


I Carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno eseguito un'ordinanza cautelare in carcere (una ai domiciliari) emessa dal gip Lorenzo Jannelli nei confronti di otto indagati ritenuti componenti del mandamento mafioso di Tommaso Natale, accusati a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsioni aggravate e danneggiamento seguito da incendio. L'operazione antimafia 'Bivio 2', la seconda in due giorni a Palermo, è stata coordinata da un pool di magistrati della Dda guidati dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca.

L'indagine ruota attorno alla figura del boss Giulio Caporrimo, già arrestato in passato. Dalle indagini emerge la continua richiesta del pizzo nei confronti delle imprese che operano sul territorio. Gli investigatori hanno accertato 11 estorsioni e due tentativi non andati a buon fine, mentre solo in due casi le vittime hanno denunciato spontaneamente le pressioni subite. I carabinieri hanno ricostruito diverse intimidazioni, spesso con attentati incendiari, messe in atto dagli uomini di Giulio Caporrimo per scalzare i concorrenti e accaparrarsi alcuni appalti. E' il caso dell'incendio doloso ai danni di un esercizio commerciale di Sferracavallo. Un attentato che sarebbe stato ideato da Caporrimo, dal figlio Francesco e da Francesco Ventimiglia per ottenere la gestione del locale. L'attentato doveva servire a vincere la resistenza del titolare. Con un altro rogo è stato colpito un cantiere edile per la realizzazione della rete fognaria sempre a Sferracavallo. A ideare l'intimidazione sarebbero stati Antonino Vitamia e Vincenzo Taormina per ottenere alcuni lavori in sub appalto. Anche il furgone di una ditta di costruzioni fu danneggiato dal fuoco mentre le microspie dei carabinieri registravano tutto "in diretta". Un'altra intimidazione colpì una società edile che stava svolgendo lavori di ristrutturazione in un immobile, con l'obiettivo di ottenere la commessa per lavori di impiantistica. Diversi gli episodi accertati anche ai danni di commercianti della zona. La cosca faceva profitti anche grazie ai cosiddetti "cavalli di ritorno", le somme che gli uomini di Caporrimo si facevano consegnare per la restituzione di veicoli rubati.

Negli anni il nucleo investigativo dei carabinieri aveva già assestato duri colpi al mandamento di Tommaso Natale con le operazioni Oscar (2011), Apocalisse (2014), Talea (2017), Cupola, 2.0 (2018/2019), Teneo (2020), e Bivio (2021). Proprio a quest'ultima operazione del gennaio scorso si ricollega il blitz odierno che ruota attorno alla figura di Giulio Caporrimo. Quest'ultimo, tornato in libertà nel maggio del 2019, per volontà del boss Calogero Lo Piccolo trovò al vertice del mandamento un nuovo capo, Francesco Palumeri. Caporrimo prima si trasferì a Firenze per prendere le distanze dal nuovo assetto che non condivideva e poi, dopo aver costretto il rivale a fare un passo indietro, fece rientro a Palermo da reggente ricompattando il mandamento. Con questa nuova indagine i carabinieri avrebbero fatto luce su una serie di gravi reati commessi dagli arrestati, a cominciare dallo stesso Giulio Caporrimo e dal figlio Francesco che avevano investito sulle scommesse on line, uno dei settori più a rischio per infiltrazioni mafiose. Uno degli arrestati, Giuseppe Vassallo, palermitano trasferitosi a Firenze, grazie agli accordi con Giulio Caporrimo e Antonino Vitamia, commercializzava i propri siti per le scommesse on line proprio sul territorio del mandamento di Tommaso Natale, riconoscendo parte degli utili alla famiglia mafiosa   

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Lite a Voghera, assessore spara e uccide uno straniero in piazza.

Massimo Adriatici, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia)

 Arrestato Massimo Adriatici, avvocato e assessore alla sicurezza del Comune.

E' stato Massimo Adriatici, avvocato, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia), a sparare il colpo di pistola che ieri sera, poco dopo le 22, ha ucciso un uomo di 39 anni di nazionalità marocchina. Il fatto è accaduto in piazza Meardi nella città oltrepadana.

Adriatici si trova ora agli arresti domiciliari.

Sul posto sono subito intervenuti gli operatori del 118 che hanno trasportato in ambulanza il ferito al pronto soccorso del locale ospedale.

Inizialmente le condizioni dell'uomo non sembravano gravi, poi si sono aggravate sino al decesso. Sul fatto stanno indagando i carabinieri. Dai primi accertamenti condotti dai carabinieri, sembra che l'assessore Massimo Adriatici abbia esploso un colpo di pistola verso l'uomo di origini marocchine dopo una lite tra i due, avvenuta davanti a un bar. Il ferito è stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale di Voghera (Pavia). Le sue condizioni, che all'inizio non sembravano preoccupanti, si sono aggravate rapidamente sino alla morte avvenuta nella notte. Da quanto si è appreso Adriatici deteneva regolarmente la pistola con cui ha sparato. L'avvocato è assessore alla sicurezza nella giunta di centrodestra guidata dal sindaco Paola Garlaschelli.

Massimo Adriatici, originario di Voghera, è assessore alla Sicurezza del Comune oltrepadano da ottobre del 2020. Eletto nelle file della Lega, è titolare di uno studio di avvocatura molto noto, ed è salito all'onore delle cronache locali per iniziative contro la cosiddetta 'malamovida' come l'abuso di sostanze alcoliche nelle ore serali. Adriatici, dal suo profilo Facebook, risulta "docente di diritto penale e procedura penale presso Scuola allievi agenti Polizia di Stato Alessandria" ed "ex docente dell'Università del Piemonte Orientale". In un'intervista alla Provincia Pavese del 29 marzo 2018 affermava che "L’uso di un’arma deve essere giustificato da un pericolo reale, per la persona che la usa, per le sue proprietà o quelle altrui. Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Ovvero, la legittima difesa si configura se sparo per evitare che qualcuno spari a me, o non ci sono altro mezzi per metterlo in fuga ed evitare che rubi. Sparare deve essere l'extrema ratio, l’ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre".

ANSA

Giovani medici, 17mila posti in arrivo. Stipendi a confronto in Europa. - Marzio Bartoloni

 

Arriva il concorso per le specializzazioni, con il triplo di borse rispetto al 2018: addio all’imbuto formativo. Per gli ospedali forze fresche anti carenze.

Dopo lo tsunami che ha investito gli ospedali italiani che durante le ondate più violente del Covid si sono trovati a corto di posti letto e di medici, soprattutto rianimatori e anestesisti da assoldare in fretta e furia per la trincea delle terapie intensive e quasi impossibile da trovare, arriva la prima concreta contromisura.

Il Servizio sanitario nazionale mette in palio una quantità di borse di studio mai viste nella storia che consentiranno a 17.400 giovani laureati in medicina di specializzarsi facendo pratica negli ospedali, dove grazie anche alle norme approvare durante l’emergenza, potranno essere assunti con contratti a tempo determinato e a tempo parziale già dal terzo anno di formazione (le specializzazioni durano in media 4-5 anni) riempiendo così carenze e buchi negli organici ridotti all’osso dopo anni di tagli – in 10 anni il Ssn ha perso oltre 40mila operatori – e di uscite di massa anche a causa di quota 100 e della fuga più recente dal settore pubblico dei camici bianchi che nel privato hanno trovato meno stress e stipendi più alti.

La lezione della pandemia.

Questo maxi-ingresso di forze fresche è una boccata d’ossigeno fondamentale che garantirà il rafforzamento del Ssn dopo i colpi duri inferti dal Covid. «La pandemia – ricorda il ministro della Salute Roberto Speranza al Sole 24 Ore – ci ha insegnato che una mascherina o un respiratore puoi comprarlo sul mercato internazionale. Un medico no. Un medico va formato con investimenti pluriennali. Con le 17.400 borse – sottolinea ancora il ministro della Salute – programmiamo la più grande immissione di medici che si sia vista nella storia recente del nostro Paese. È la risposta giusta a questi mesi così difficili».

Numeri da record.

In effetti il numero di borse messe a disposizione è da record, visto che solo nel 2018 erano un terzo (6.200) e due anni fa neanche la metà (8mila), mentre per il 2020 – primo anno della pandemia – il Governo era corso ai ripari con un primo aumento importante di borse di specializzazione medica che erano state portate a 13.400.
Ora il nuovo balzo con altri 4mila posti in più, uno sforzo ingente che è stato possibile anche grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, visto che questo investimento rientra tra i primi impegni di spesa del Pnrr per la salute che sulla formazione investe 740 milioni.

Il numero di borse dell’anno scorso e di quest’anno assestano un colpo quasi mortale al fenomeno tutto italiano del cosiddetto “imbuto formativo”: per anni i laureati in medicina dopo il titolo in buona parte non trovavano posto nei corsi post-laurea di fronte alle poche borse disponibili (in passato circa 6mila di media) rimanendo esclusi dalla specializzazione necessaria per lavorare in ospedale. E così si è formata una coda che si è ingrossata negli anni.

«Lo scorso anno ci furono 24 mila concorrenti su 14 mila posti per specializzarsi – ricorda Angelo Mastrillo, docente in organizzazione delle professioni sanitarie, dell'Università di Bologna – . Dunque, ci dovrebbero essere circa 10mila medici che non entrarono lo scorso anno. Se li aggiungiamo agli ipotetici altri 10mila laureati del 2020 diventano 20 mila a concorrere sugli attuali 17.400 mila posti promessi dal Governo, anche se potrebbero essere ancora di più i candidati visto che ci sono anche tutti quelli che si sono immatricolati nel 2014-2015 dopo aver vinto il ricorso contro l’esclusione per il numero chiuso a Medicina».

Rischio imbuto lavorativo.

Per ora non è ancora deciso se questo maxi-aumento di borse continuerà anche nei prossimi anni. Resta comunque aperto tutto il tema della programmazione dei posti per il percorso formativo per diventare medici che dura un decennio (laurea più specializzazione). Se l’imbuto formativo potrebbe essere quasi del tutto superato in futuro potrebbe crearsi il rischio di un imbuto lavorativo.
Se i posti di ingresso al corso di laurea in medicina dovessero crescere ancora – oggi siamo arrivati a 14mila posti disponibili – in futuro dopo il 2030 potrebbe crearsi una eccessiva offerta di giovani medici. Con il rischio di vederli fuggire all’estero dopo essersi formati in Italia, anche perché i nostri stipendi sono più bassi di 30-40mila euro lordi l’anno rispetto a quelli di molti Paesi del Nord Europa. Una nuova beffa dopo quella che ha visto tanti giovani camici bianchi aspettare anni prima di potere entrare in una corsia d’ospedale.

IlSole24Ore