giovedì 29 luglio 2021

Canone Rai: l’imposta resta nella bolletta elettrica. Ecco quanto pesa e l’impegno preso dal governo con l’Europa. - Celestina Dominelli

 

I punti chiave


L’unica certezza per ora è la seguente: il canone Rai continuerà a essere riscosso attraverso la bolletta elettrica. L’ipotesi di eliminare l’imposta dalla fattura energetica, rilanciata nei giorni scorsi da alcuni rumors di stampa e sostenuta da alcuni ambienti della maggioranza, non trova conferme nell’esecutivo né risulta che sia oggetto di un intervento ad hoc nella bozza del disegno di legge per la concorrenza. Quest’ultimo, peraltro, in base alla tabella di marcia dettata dal Recovery Plan, doveva essere presentato entro fine luglio, ma si va verso uno slittamento del provvedimento che potrebbe essere procrastinato a fine agosto o all’inizio di settembre.

La misura introdotta dal governo Renzi.

Ma quanto pesa il canone Rai in bolletta e quando è stato introdotto? Come si ricorderà, la misura è stata predisposta nel 2015 dal governo Renzi per contrastare la diffusa evasione sull’imposta per la tv pubblica: si tratta di un esborso per le famiglie di 9 euro al mese per 10 mesi, per complessivi 90 euro all’anno a fronte dei 113 riscossi prima della riforma. Per le casse della Rai, l’introduzione del canone in bolletta ha comportato un flusso di ricavi certo che è stato quantificato in 1,7 miliardi di euro l’anno.

Quanto entra nelle casse Rai.

È bene, però, ricordare, come hanno precisato più volte gli stessi vertici Rai che, a fronte dei 90 euro di ammontare annuo, Viale Mazzini ne percepisce 75,4 euro. Il passaggio del canone infatti non avviene direttamente dalla bolletta alla Rai, ma transita per l’agenzia delle Entrate e poi da questa alle casse della televisione pubblica. E i 90 euro sono comprensivi del contributo al Fondo per l’Editoria in capo alla presidenza del Consiglio e di quello per le antenne locali, in capo al Mise. Da qui, la differenza che finisce alla tv pubblica rispetto alla cifra riscossa in bolletta.

L’impegno inserito nel Recovery Plan.

Fin qui, il perimetro dell’imposta e la sua destinazione. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, però, il governo ha messo nero su bianco con l’Europa uno sforzo chiaro come si evince dagli allegati tecnici trasmessi a Bruxelles insieme al Recovery Plan: nessun cenno esplicito al canone Rai, sia chiaro, ma una duplice sottolineatura. Da un lato, l’impegno ad aumentare la trasparenza nella bolletta elettrica - aspetto, quest’ultimo, su cui l’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente è al lavoro ormai da tempo - fornendo ai consumatori pieno accesso «alle subcomponenti che rientrano sotto la voce oneri di sistema» e, dall’altro, l’esigenza di eliminare la richiesta in capo ai fornitori di riscuotere «charges unrelated to the energy sector», vale a dire tasse non collegate al settore dell’energia. E tra queste rientrerebbe anche il canone Rai. Se dunque l’impegno nel Pnrr è di andare verso l’eliminazione di spese “improprie” in bolletta non collegate all’energia, bisognerà trovare, non solo per il canone Rai, forme di riscossione alternativa. Che siano altrettanto efficaci.

La natura giuridica del canone tv.

Sull’imposta, però, va fatta un’ultima precisazione. Quello che viene definito impropriamente canone Rai, infatti, è una tassa la cui natura giuridica rinvia a un regio decreto-legge del 1938, mai abrogato, che stabilisce quanto segue: chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto». A chiarire ulteriormente la natura del canone sono poi intervenuti diversi pronunciamenti che hanno stabilito che la sua imponibilità dipende esclusivamente dalla detenzione di un apparecchio e non è collegata «all’effettiva ricezione dei programmi della Rai o alla mancanza di interesse a riceverne».

IlSole24Ore

Come volevasi dimostrare, il "Canone rai" resta in bolletta Enel con la doppia anomalia: 1) non è un canone rai, 2) non si dovrebbe pagare attraverso la bolletta relativa alla fornitura di altro servizio.
Il governo commette reati relativi all'uso improprio di denominazione di un servizio e relativo obbligo di pagamento dello stesso, inserendolo nella bolletta relativa ad altro servizio, e nessuno, ripeto, nessuno gli fa causa o scende in piazza per protestare?
Siamo messi veramente male...
Cetta.

Referendum: Salvini arruola Totò Cuffaro, Paolo B. e Alemanno. - Lorenzo Giarelli

 

Il variegato universo dei promotori del referendum della Giustizia si arricchisce ogni giorno di fantasiose sorprese. A fianco a Lega e Radicali – binomio già di per sé insolito – si stanno facendo avanti pregiudicati e impresentabili, innamorati come Matteo Salvini ed Emma Bonino della separazione delle carriere, della responsabilità civile dei pm, delle limitazioni alla custodia cautelare e della revisione della legge Severino, oltreché delle modifiche ad alcune norme relative al Csm.

Gli ultimi a firmare per i quesiti sono stati, ieri, Catello Maresca e Paolo Berlusconi. Il primo, candidato sindaco del centrodestra a Napoli, fa rumore soprattutto perché magistrato, evidentemente già calatosi alla perfezione nelle vesti del politico. Anche Paolo Berlusconi firma in virtù di una certa familiarità con le aule dei tribunali, lui che nel 2010 è stato condannato in Cassazione a 4 mesi di reclusione per alcune false fatturazioni dopo aver patteggiato 1 anno e 9 mesi per concorso in corruzione e reati societari nella gestione di una discarica del milanese.

Ma ai banchetti di raccolta-firme sarà possibile imbattersi pure in Totò Cuffaro, la cui nuova Dc sostiene i quesiti referendari. In questi giorni l’ex presidente della Regione Sicilia, condannato a 7 anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio, partecipa a una serie di incontri con l’associazione radicale Nessuno tocchi Caino, a sua volta impegnata sul tema delle carceri e della giustizia.

Fresco di firma è poi Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma che si porta dietro una condanna definitiva a sei mesi per finanziamento illecito ed è in attesa che la Corte d’appello ridetermini la pena per traffico di influenze, dopo la pronuncia della Cassazione. Il tutto per colpa “di due sentenze basate su teoremi – assicura lui – che dimostrano che molto deve essere cambiato anche nel rapporto tra politica, magistratura e mondo giornalistico”.

Insieme ad Alemanno, al gazebo c’era Guido Bertolaso, factotum della Sanità che durante l’emergenza Covid si è spostato tra Lombardia, Umbria, Abruzzo e Sicilia, secondo il quale la riforma della Giustizia “è la madre di tutte le battaglie”. Una sensibilità che nei giorni scorsi ha smosso anche Matteo Renzi, ai gazebo con altri italovivi come Davide Faraone e Raffaella Paita e festeggiato anche dai social della Lega appena dopo la firma.

Non un gran portafortuna in materia di referendum, l’ex premier, ma una tessera in più in un mosaico partitico già pittoresco. Basti pensare che a mobilitarsi per le firme sarà anche CasaPound, che a inizio settembre organizzerà iniziative in favore dei referendum durante la propria festa nazionale.

E se poi nemmeno tutti questi illustri testimonial dovessero bastare, Salvini e compagnia potranno sempre affidarsi alle Regioni, secondo Costituzione titolate – se si coordinano almeno in cinque – a richiedere i referendum anche senza il raggiungimento delle 500 mila firme: ieri la Sicilia è stata la quinta Regione a far approvare alla propria assemblea di eletti i quesiti sulla giustizia, raggiungendo gli altri feudi di centrodestra in Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Umbria.

ILFQ

Fondamentali di robotica per i ragazzi che non frequentano l’ora di religione, l’Unione atei: “Così promuoviamo la cultura scientifica”. - Alex Corlazzori

 

L'Unione ha messo in campo 70mila euro che hanno consentito di distribuire 170 kit “LEGO® Spike” per la didattica legata alla scienza e alla robotica. “Non pensavamo che sarebbero arrivate così tante richieste - spiegano - Probabilmente se dal ministero arrivassero risorse adeguate, le scuole riuscirebbero a valorizzare al meglio questo tempo. Nel frattempo saremmo felici di essere copiati su larga scala”.

Chi non studia a scuola la vita di Gesù d’ora in poi, grazie a un’iniziativa dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, imparerà la robotica grazie ai kit “LEGO® Spike”. È quando accadrà dal prossimo anno scolastico in 85 scuole secondarie di secondo grado che hanno partecipato al bando promosso dall’Uaar in sostegno dell’ora alternativa all’insegnamento della religione cattolica. Un’idea che ha trovato la condivisione di molti dirigenti scolastici. Le scuole che hanno presentato richiesta si trovano infatti in Liguria, Piemonte, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Sardegna.

D’altro canto, oggi, chi non fa l’ora di religione spesso o torna a casa prima dalle lezioni o viene affidato a progetti estemporanei che non sempre riescono a fornire un sufficiente apporto di conoscenze negli studenti. L’Uaar ha così pensato di mettersi in campo con una spesa di 70mila euro che ha consentito di distribuire 170 kit per la didattica legata alla scienza e alla robotica. “La nostra associazione da anni sostiene il diritto a un valido insegnamento alternativo a quello della religione cattolica. Ci siamo chiesti – spiega Manuel Bianco, responsabile della comunicazione interna e ideatore dell’iniziativa – cosa potevamo fare per dare un aiuto concreto alle scuole che spesso, date le scarse risorse economiche, non hanno a disposizione grandi mezzi per valorizzare quello spazio di apprendimento. Avendo tra i nostri obiettivi la promozione della cultura scientifica, abbiamo pensato di investire su uno strumento utile a insegnare le materie attualmente fondamentali per capire il presente e modellare il futuro, come scienzatecnologiaingegneria e matematica”.

I ragazzi delle medie che riceveranno questi strumenti potranno avere l’opportunità di sperimentare un metodo innovativo. Il set “LEGO® Education SPIKE™ Prime” è lo strumento di apprendimento ideale per gli alunni della fascia di età 11-14 anni. Si possono combinare elementi di costruzione colorati Lego attraverso un hardware semplice da usare e con un intuitivo linguaggio di programmazione. Nulla di noioso: il kit coinvolge gli alunni in attività di apprendimento progressive e giocose mirate a sviluppare il pensiero critico e a risolvere problemi complessi, indipendentemente dal livello di apprendimento. Inoltre l’intuitività dello strumento non richiede conoscenze tecnologiche pregresse degli insegnanti.

Una risposta concreta ai tanti ragazzi che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica: secondo i dati della Conferenza episcopale italiana, nel 2020 gli studenti che uscivano dall’aula quando entrava l’insegnante di religione erano il 14%. Un dato sempre più in aumento visto che negli ultimi trent’anni, ovvero dalla riforma del Concordato tra Stato italiano e Chiesa Cattolica, i frequentanti sono diminuiti di circa il 10%. Lo dimostra anche il successo dell’iniziativa dello Uaar: “Non pensavamo che sarebbero arrivate così tante richieste. Ne siamo felici – spiega Bianco – perché lo riteniamo un segnale positivo per l’ora alternativa. Probabilmente se dal ministero arrivassero risorse adeguate, le scuole riuscirebbero a valorizzare al meglio questo tempo. Nel frattempo saremmo felici di essere copiati su larga scala”.

ILFQ

Delenda Cartabia. - Marco Travaglio

 

Stupirsi perché l’informazione non informa, anzi disinforma, è come meravigliarsi perché la pioggia non è asciutta. Eppure, a vedere le tv e i giornali sulla “riforma” Cartabia, c’è da rabbrividire. L’Anm, che non è un covo di terroristi ma il sindacato dei magistrati, prevede la morte di 150 mila processi in corso e chissà quanti futuri. Cafiero de Raho, che non è una testa calda ma il procuratore nazionale antimafia, dichiara in Parlamento che l’improcedibilità in appello dopo 2 anni dalla sentenza di primo grado e in Cassazione dopo 1 anno da quella d’appello “mina la sicurezza e la democrazia” perché manda impuniti “reati gravissimi di mafia, terrorismo e corruzione”; e affidare al Parlamento la scelta dei reati da perseguire o ignorare “non è conforme alla Costituzione”. Gli stessi concetti, condivisi da magistrati, giuristi e avvocati, li esprimerà oggi il Csm, che non è un covo di tupamaros ma un organo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, se finalmente il Colle gli leverà il bavaglio. Davigo dimostra sul Fatto, sentenze Cedu alla mano, che la procedura d’infrazione, scampata grazie alla blocca-prescrizione Bonafede, ora è assicurata.

Cosa arriva ai cittadini dell’immane catastrofe che sta per abbattersi sulla giustizia, sulla sicurezza, sulla Costituzione, sul dovere dello Stato di punire i colpevoli, sul diritto delle vittime a essere risarcite e degl’innocenti a essere assolti? Nulla, se non che c’è uno “scontro” fra il cattivo Conte e i “giustizialisti” 5Stelle da una parte e i bravi e onniscienti Draghi e Cartabia dall’altra per mettere i bastoni fra le ruote ai Migliori. Sul merito, non una sillaba. Sulle decine di migliaia di processi di mafia, corruzione, stupro, rapina, frode fiscale, giù giù fino ai reati minori (un saluto affettuoso alla legge Zan) al macero, tutti zitti. Dove sono i grandi costituzionalisti che si stracciavano le vesti nel 2009, quando B. tentò la stessa porcata (un po’ meno porca) col “processo breve”? Spariti. Dove sono i Saviano e gl’intellettuali antimafia e anticamorra da parata e da anniversario? Estinti. Nessuno si prende neppure la briga di smentire De Raho, Davigo, l’Anm, il Csm. L’unica cosa che conta è non disturbare il governo, che peraltro nessuno disturba. A questo punto è inutile avvitarsi in mediazioni al ribasso, come se evitare di incenerire 150 mila processi non fosse un dovere di Draghi & Cartabia, ma una gentile concessione a Conte (e naturalmente al Fatto). Molto meglio lasciar passare la porcata così com’è. Chi la vuole vota sì, chi non la vuole vota no. Ciascuno si assume le proprie responsabilità. Poi, ai primi mafiosi, stupratori e rapinatori improcedibili cioè impuniti, le vittime sapranno chi andare a ringraziare. E anche i lettori e gli elettori.

ILFQ


Eutanasia: già superate 250mila firme per il referendum.

 

Cappato(Coscioni), gente conosce problema nonostante silenzio tv.

"Nell'inerzia del Parlamento e nel silenzio dei salotti televisivi", in poche settimane sono già state superate 250.000 firme per convocare il referendum sulla legalizzazione dell'eutanasia, ovvero la metà delle 500.000 necessarie. Lo rende noto il Comitato promotore del Referendum per l'Eutanasia Legale, sottolineando come questo risultato sia merito di 10.937 volontari e quasi 2000 autenticatori, provenienti da oltre 2300 città e appartenenti a qualsiasi schieramento politico e fede religiosa.

Le prime 10 regioni per firme raccolte ai tavoli ogni 10.000 abitanti sono Valle d'Aosta, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Umbria, Trentino Alto Adige.

Mentre Cuneo è il comune con più di 50.000 abitanti che ha registrato più firme in rapporto alla popolazione, con 31 firme ogni 1000 abitanti, seguita da Cagliari (29), Trieste (26), Treviso (25), Trento (24), Pavia (23).

"Che si tratti di gazebo, conferenze stampa e comizi improvvisati, dibattiti o altri punti di raccolta - afferma Marco Cappato, Tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni - la scena è sempre la stessa: entusiasmo, voglia di firmare e di partecipare al raggiungimento dell'obiettivo. Un'atmosfera che non vedevo da molti anni, con una straordinaria partecipazione giovanile, mentre il dibattito in Parlamento è affossato, nel silenzio assoluto dei vertici nazionali dei principali partiti e dei salotti televisivi, la campagna referendaria sta riscuotendo un successo di partecipazione democratica senza precedenti. Le persone, infatti, conoscono l'importanza del tema della malattia terminale e della libertà di scelta per averlo vissuto direttamente in famiglia". la raccolta firme è partita il 17 giugno e nelle prossime settimane verranno raccolte anche nelle località di vacanza. 

ANSA


Tarquinio, direttore di Avvenire, sostiene di essere contrario all'eutanasia, ma ritiene che si dovrebbe spingere il governo a prestare le migliori cure per rendere gli ultimi istanti di vita del malato il più gradevoli possibile.
Praticamente chiede che venga messo in pratica un dovere dello stato, peraltro sempre disatteso e poco attuabile, vista la scarsissima volontà di attuazione, ma non valuta la volontà dell'individuo che si vede negato il diritto di decidere di non trascorrere gli ultimi istanti di vita in un letto e in assoluta incoscienza provocata dai farmaci.
Se definisce vita quella di un malato terminale buttato in un letto in totale incoscienza non ha rispetto della vita.

Io sono per la libertà individuale di decidere se accettare una lugubre agonia-prigionia o farla finita ridendo e dedicando gli ultimi istanti accanto agli affetti più cari.
Cetta.

mercoledì 28 luglio 2021

Con la riforma Cartabia rischiano di andare in fumo anche i processi per reati commessi prima del 2020. Il precedente della Consulta (e la ministra era giudice). - Paolo Frosina

 

L'improcedibilità della nuova norma rischia di essere considerata retroattiva al primo ricorso delle difese che si appelleranno al favor rei. Almeno a leggere una sentenza della corte Costituzionale del 2019 (quando ne faceva parte pure la Guardasigilli), che cita a sua volta un'altra pronuncia del 2006.  Pasquale Bronzo, docente di Procedura penale alla Sapienza: "Qualsiasi avvocato solleverà la questione".

La riforma Cartabia non renderà impunibili solo i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, ma molto probabilmente anche quelli precedenti. Tra cui il crollo del ponte Morandi, il disastro di Rigopiano, la trattativa Stato-mafia. Lo dicono avvocati, accademici e persino la Corte costituzionale, che ha sempre espresso un principio chiaro: le norme penali più favorevoli si applicano retroattivamente ai processi in corso, e la legge non può – come fa il testo del Governo – limitarne l’applicazione nel tempo senza una valida ragione. “Dal punto di vista costituzionale, quella norma è piuttosto pericolante“, conferma al fattoquotidiano.it Pasquale Bronzo, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma. E la Guardasigilli lo sa benissimo. L’ultima sentenza a esplicitare il principio, infatti, è la 63 del 2019: il presidente della Consulta è Giorgio Lattanzi, proprio l’ex magistrato voluto da Cartabia a capo della commissione di studio del progetto di riforma. Il relatore è il penalista Francesco Viganò. E tra i nove giudici del collegio c’è lei, la studiosa di diritto costituzionale ora ministra della Giustizia. La regola fondamentale da cui parte il ragionamento è quella dell’articolo 2, quarto comma del codice penale, il principio di retroattività della legge penale più favorevole: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.

Ma il valore di questo principio, spiega la Corte, non è quello di una semplice norma di legge ordinaria. “La regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior (la legge meno severa, ndr) in materia penale”, si legge, “non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza di questa Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis (la depenalizzazione, ndr) o la modifica mitigatrice”. Quindi: l’imputato sotto processo ha il diritto di godere della norma più favorevole, anche se non era in vigore nel momento in cui ha commesso il reato. E a dirlo non è solo la Costituzione ma il diritto internazionale ed europeo: la retroattività, ricordano i giudici, “è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (…) quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.

È per questo che nel 2006 un’altra pronuncia della Consulta – citata da Lattanzi, Cartabia e gli altri – ha dichiarato incostituzionale una norma molto simile a quella con cui la Cartabia esclude dai propri effetti i reati commessi prima del 2020. Era l’articolo 10, comma 3 della legge ex-Cirielli – la famosa “accorcia-prescrizione” voluta dal secondo governo Berlusconi – che proibiva di applicare la prescrizione più breve ai processi in cui fosse già stato aperto il dibattimento di primo grado. La regola, concludeva la sentenza, “limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite e viola l’art. 3 della Costituzione”: quel principio infatti “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo“, e in quel caso, secondo la Corte, non ce n’erano. Cosa succederebbe se, all’entrata in vigore della riforma Cartabia, gli imputati per reati anteriori al 2020 chiedessero l’applicazione retroattiva delle nuove norme, come hanno già annunciato alcuni legali nel processo per il crollo del Morandi? Non c’è motivo di pensare che la decisione dovrebbe essere diversa.

O meglio, in teoria c’è: perché la norma transitoria nel ddl Cartabia è definita come una regola processuale, che non rientra nel principio enunciato dal codice penale. Ma l’opinione più diffusa tra gli addetti ai lavori è che invece – di fatto – sia una norma sostanziale, perché incide direttamente sulla punibilità. È semplice: se il processo muore dopo due anni in Appello, l’imputato non può più essere condannato. Nè più nè meno che se il reato fosse prescritto. Per questo il professor Bronzo, uno dei più stretti collaboratori di Lattanzi, definisce la previsione “pericolante” e immagina già le conseguenze. “L’efficacia retroattiva si può sicuramente ipotizzare. Impedire la retroattività dando una veste processuale alla norma è l’ambizione di chi ha scritto il testo: se si applicano gli ultimi criteri dettati dalla Corte europea, l’improcedibilità si può definire una norma a effetti sostanziali. Qualsiasi avvocato diligente solleverà la questione, anche soltanto ponendo una questione di eguaglianza: possiamo dare per scontato che il tema arriverà di fronte alla Corte costituzionale“. Una pioggia di ricorsi, che, quella sì, di certo non velocizzerà i processi.

ILFQ

Ove Mai. - Marco Travaglio


Paolo Mieli vaga ramingo di talk in talk lacrimando non tanto per quel che ho detto su Draghi alla festa di Articolo 1, quanto perché la gente applaudiva. In effetti è bizzarro che il popolo della sinistra non si prostri adorante al culto mariano del governo che prende ordini da Confindustria e persino da Bonucci&Chiellini, sblocca i licenziamenti, blocca il cashback, condona gli evasori, ingaggia la Fornero, fa politiche ambientali da Premio Attila e riforme della giustizia da Trofeo Berlusconi. Io però, appena vedo Mieli, non riesco a non pensare al suo scoop del 17 giugno a Otto e mezzo sul cambio della guardia tra Figliuolo e Arcuri: “Quando è arrivato Draghi, ha trovato che Conte e Arcuri avevano acquistato mascherine per 763 settimane, cioè per 14 anni e mezzo, da qui al 2035!”. Obiettai che era una cifra campata per aria. Ma lui ripeteva a macchinetta: “Segnàtevi questo dato: 763 settimane, 14 anni e mezzo di mascherine comprate… un giorno faremo i conti… opacità, cose strane… 763 settimane, 14 anni e mezzo!”. Ricordai che l’inchiesta romana riguarda l’acquisto di circa 1 miliardo di mascherine dalla Cina nel marzo 2020. Ma Mieli mi incalzò implacabile: “Ammetti che sono troppe, ove mai fosse vero che Draghi e Figliuolo han trovato nei loro magazzini 14 anni e mezzo di mascherine?”.

Arcuri smentì quel dato iperbolico con le cifre ufficiali e ricordò che nel marzo 2020 servivano mascherine per un mesetto, poi partì la produzione nazionale. Mi attendevo una puntuta replica, almeno un “ove mai”, invece Mieli non ne parlò più. Ma siccome ha detto che “un giorno faremo i conti”, appena lo vedo spero sempre che il giorno sia arrivato. Nell’attesa, a parte la scena comica di Arcuri che chiama il fornitore e intima “mi mandi 763 settimane di mascherine”, come se si ordinassero a mesi e non a numero, qualche conto l’ho fatto io. Posto che nel lockdown, per ogni italiano circolante (40 milioni su 60), occorrevano due mascherine al giorno (vanno cambiate ogni 4 ore), il fabbisogno giornaliero era 80 milioni, pari a 427,3 miliardi per 763 settimane. A 1 euro a pezzo, Conte e Arcuri avrebbero speso 427,3 miliardi di euro: metà della spesa pubblica annua, oltre il doppio del Recovery fund, sommetta difficile da occultare nelle pieghe del bilancio. Dove avranno preso tutti quei soldi? E dove saranno i famosi magazzini in cui Draghi e Figliuolo han trovato quel po’ po’ di mascherine? A metterle l’una sull’altra a mucchietti, formerebbero un parallelepipedo alto 4mila km su una base di 7,2 milioni di kmq (vasta poco meno dell’Europa). Non vediamo l’ora di andarci in visita guidata, con Mieli, Draghi e Figliuolo come guide turistiche. Ove mai non fossero tutte cazzate.

ILFQ