giovedì 7 ottobre 2021

Astensione programmata. - Marco Travaglio

 

Anch’io, come Padellaro, ho visto i colleghi del Giornale Unico esultanti per la morte del populismo (notizia, fra l’altro, fortemente esagerata). E mi sono domandato: ma che avranno da gioire, con Salvini e Meloni insieme al 40% e un elettore su due astenuto? Certo, la gioia incontenibile è per la sconfitta degli odiati 5Stelle di Conte (peraltro non candidato). Ma c’è di più. Per noi democratici, fissati con la Costituzione e la sovranità popolare, l’astensione è un tragedia: per lorsignori, che democratici non sono anche se fingono bene, è una risorsa. Anzi, è il fondamento del loro piano oligarchico: meno gente vota e meglio è, perché alle urne vanno solo quelli che votano “bene”. Non i bifolchi brutti sporchi e cattivi delle periferie, che sbagliano sempre a votare; ma i buoni saggi moderati e obbedienti delle Ztl.

Nella Prima Repubblica, senza vincoli di bilancio e di spesa, il potere si garantiva i consensi degli ultimi distribuendo posti, soldi e prebende clientelari, scambiando voti e favori con le mafie e chiudendo un occhio sull’illegalità di massa (evasione, abusivismo, lavoro nero, falsi invalidi). Nella Seconda Repubblica, finiti i soldi e ingabbiati dalla Ue, la platea dei clientes s’è ristretta, ma per trascinare la gente alle urne s’è inscenato il finto bipolarismo Berlusconi-centrosinistra, le due facce furbe dello stesso sistema. Un gioco a somma zero su una roulette truccata, dove vinceva sempre il banco. Con l’avvento dei partiti anti-sistema (i 5Stelle e poi la Lega salviniana e FdI) la maschera è caduta e le periferie sociali e politiche rassegnate a non contare più nulla han trovato qualcuno che parlava di loro, con loro e come loro. E sono tornate alle urne, mandando in tilt il sistema. Che nel 2013 s’è ammucchiato in orrendi assembramenti contro natura (i governi Letta, Renzi e Gentiloni) pur di tenere i barbari fuori dal recinto. Ma nel 2018 ha dovuto arrendersi alla legge dei numeri e subire ben due governi di cambiamento: il Conte-1 e il Conte-2. Nel 2021 le acque del Mar Rosso si sono richiuse violentemente col Conticidio e l’avvento di Draghi che, con la scusa dei vaccini e del Pnrr (già pronti col governo precedente), si allarga un bel po’ e svela il suo vero mandato: raddrizzare le gambe ai cani, cioè ai partiti, rendendoli tutti docili e obbedienti al sistema. Raddrizzare le gambe agli elettori è più arduo: sono troppi. Ma basta raccontargli ogni giorno a reti unificate che il loro voto non serve a nulla, tanto Draghi (o una sua controfigura se lui ascenderà al Colle) resterà a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni, comunque vadano, senza neppure l’incomodo di candidarsi. Così l’elettore si rassegna: se gli piace il presepe, vota “bene”; se non gli piace, sta a casa.

ILFQ

Recovery, il flop della Sicilia: 31 progetti bocciati su 31 per i sistemi di irrigazione. Dalla Regione accuse a Patuanelli, che risponde: “Requisiti non rispettati”. Ecco tutti gli errori. - Luisiana Gaita e Manuela Modica

 

Date di verifica mancanti, durate di intervento superiori al consentito, assenza di valori fondamentali. Quella siciliana è l'unica regione che si è vista rispedire tutti i piani per ottimizzare l'irrigazione dei campi agricoli. Musumeci ne fa una questione territoriale: "Favorito il Nord". Eppure la Calabria ha avuto 20 approvazioni. Tantissimi buchi su 23 criteri stringenti, costruiti in accordo con le Regioni e su cui il ministero dell'Agricoltura aveva creato un help desk. Le opposizioni in regione attaccano: "Inadeguati, siamo già i peggiori in assoluto". Ma non tutto è perduto.

Sono le primissime battute del Recovery plan, e la Sicilia incassa già il suo primo flop. Perfino con clamore: su 31 progetti ammessi, 31 progetti sono stati bocciati dal ministero dell’Agricoltura. Si tratta di una prima tranche di investimenti per ammodernare o mettere in sicurezza i sistemi di irrigazione dei campi agricoli. E la Sicilia, che aveva chiesto più di 400 milioni di euro, non avrà neanche un centesimo. L’unica regione d’Italia ad ottenere solo bocciature e a restare all’asciutto, anche in senso letterale, è il caso di dire. Inanellando invece un lungo elenco di veri e propri strafalcioni che però non ha frenato le prime, infuocate, reazioni del governo regionale andato subito all’attacco diretto del ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli: “Con quale criterio e come si è proceduto alla selezione?” si chiedeva immediatamente dopo avere appreso la notizia della bocciatura, lo scorso lunedì, l’assessore siciliano all’agricoltura, Toni Scilla. E si rispondeva: “È chiaro che qualcosa non quadra. Il ministro Patuanelli scade in valutazioni sommarie a tutto svantaggio della Sicilia, e non è la prima volta che lo fa”. Ma il resoconto nel dettaglio mostra errori come quello di non avere indicato la data di progettazione in ben 12 progetti, mentre per altri 12 non è stata inserita la data di durata dei lavori. Per 27 progetti, invece, non è stata neanche inserita la data di verifica. Lo stesso ministro Patuanelli, rispondendo durante il question time a un’interrogazione sui progetti per l’ammodernamento delle reti irrigue nell’ambito del Pnnr, con particolare riferimento al Mezzogiorno, ha spiegato che nessuno dei progetti presentati dalla Sicilia è risultato ammissibile “per motivi meramente tecnici” specificando, ad esempio, che “17 progetti presentavano una durata di intervento e realizzazione delle opere superiore ai 30 mesi. Abbiamo delle scadenze – ha commentato Patuanelli – che non sono derogabili, come è noto”. Ma è solo la punta dell’iceberg. Basti pensare che nella lista ci sono anche due progetti (ente attuatore è il Consorzio di Bonifica di Siracusa) da 4,3 e 4,8 milioni di euro che non rispettano 16 criteri su 23. In pratica si fa prima a dire quali sono stati rispettati (sette). Il progetto di Gela, da 31 milioni, per la rete irrigua dell’invaso Gibbesi, non risponde a 13 criteri. A 12 criteri non rispondono altri due progetti che riguardano Gela (da 19 e 15 milioni di euro) e altrettanti in provincia di Catania (per 4,8 e 4,3 milioni). Poi ci sono altri 5 progetti a Trapani (quasi 8 miliardi, 8,2, 4,3 e 5,2 miliardi) e ancora a Siracusa (4,6 miliardi) che non rispondono a 11 criteri. E poi ci sono altri 19 progetti che non rispondono a un numero di criteri che varia dall’uno agli 8.

E questo solo per citare alcuni dei problemi che hanno consegnato il record di bocciature alla Sicilia. Record che ha scatenato le prime reazioni al vetriolo, con l’assessore Scilla che nonostante questi dati ha continuato ad attaccare il ministro: “Ricordiamo il tentativo di scippare fondi del Programma di sviluppo rurale. Un atteggiamento ostile, che registriamo per l’ennesima volta, e che ci porterà ad effettuare le dovute verifiche e valutazioni”. Ancora più duro il presidente siciliano, Nello Musumeci che addirittura scomoda un conflitto territoriale: “È una vergogna nel Pnrr continuare a guardare a progetti del Centro-Nord e non a quelli del Sud e della Sicilia. Non è un problema di risorse, ma di progettualità. E la Regione Siciliana ha priorità davanti alle quali il governo nazionale si gira dall’altra parte”. Reazioni a caldo, a inizio settimana, poi riviste. Fino a chiedere, ieri, un incontro al ministro. Mentre Scilla ha passato tutto il pomeriggio rinchiuso in una riunione fiume con i suoi dirigenti per capire dove risiedano le responsabilità di un tale flop, in vista dell’appuntamento di questa mattina in commissione Attività produttive all’Assemblea regionale siciliana, dov’è stato convocato per riferire sulle bocciature. D’altronde a poco serviva appellarsi a un ipotetico sbilanciamento a favore del Nord, considerando che la Calabria ha avuto sì 16 progetti bocciati ma ha potuto incassare anche 20 approvazioni. Ma nell’attesa che si scovino le responsabilità, anche Gaetano Armao, assessore all’Economia, ha puntato il dito contro i criteri di valutazione, perché non erano stati discussi con le Regioni: “Non c’è mai stato alcun confronto in conferenza stato-regioni, e il problema è più generale: o si incardina tutto secondo legge o il ministero va avanti coi suoi parametri e con una gestione del tutto autonoma al di fuori dei normali iter”. Tutta colpa dei criteri, dunque. Erano 23 in tutto e secondo Patuanelli erano “gli stessi adottati nell’ambito del programma nazionale di sviluppo rurale 2014-2020 e concordati con le Regioni e province autonome nel 2015″.

Una risposta che smentisce il governo siciliano che all’esordio sul recovery plan è già nella bufera. “Siamo alle prime battute e siamo già i peggiori in assoluto”, commenta Luigi Sunseri consigliere regionale del M5s. E continua: “Se il governo non è in grado di rispettare criteri, peraltro già stabiliti in conferenza stato-regione, non lo deve dire ora, doveva saperlo e dirlo prima, dal dettaglio emergono non solo errori ma gravi illiceità”. “Se questa è la prima, non voglio vedere le altre. Ed è inutile buttarla in caciara menzionando un conflitto col Nord”, interviene, invece, Valentina Zafarana, membro per i Cinquestelle in commissione Attività produttive, dove stamattina Scilla dovrà riferire. “Strafalcioni terrificanti e per l’ennesima volta registriamo come non ci sia nessun membro di questo governo in grado di ammettere le proprie responsabilità e scusarsi con i cittadini”, commenta anche Claudio Fava. “La responsabilità per questo clamoroso flop è evidentemente ascrivibile alla inadeguatezza degli apparati regionali e al mancato coordinamento da parte del governo”, sottolinea Cleo Li Calzi, responsabile del dipartimento regionale Pnrr del Pd. Ma d’accordo con Li Calzi c’è lo stesso Armao che dai banchi del governo lancia l’allarme: “Abbiamo senza dubbia urgenza di reclutare personale di alto livello, dopo che negli anni passati si è spinto per i pensionamenti, siamo in grande difficoltà: la mia proposta, a questo punto, è di attingere agli ultimi concorsi lanciati da Brunetta con il quale sto dialogando”. “Armao dice una cosa vera – ribatte Sunseri – la Regione non è in grado e andrebbe commissariata”.

In effetti, in molti casi si tratta di errori e lacune banali. La nota ufficiale del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) spiega che per l’87% dei progetti candidati (27 progetti) non è stata inserita la data della verifica. E questo vale anche per il progetto con l’importo maggiore, quello da 63 milioni di euro per la sostituzione delle condotte in amianto a Dittaino, in provincia di Catania. Per venticinque progetti (l’80,6%) il valore inserito nel campo ‘Superficie totale dell’area attrezzata sottesa all’intervento (ha)’ è pari a zero. Tra questi il progetto da 39,1 milioni ad Agrigento per utilizzare le acque delle dighe Prizzi e Gammauta con l’alimentazione a cascata della vasca Alta Martusa di Cartabellotta e potenziare il sistema di irrigazione dell’area di Ribera. Per 24 progetti, alla voce ‘Verifica progetto’ è stato scritto no, contrariamente a quanto indicato. Per 23 progetti è stato inserito il valore ‘0’ nel campo ‘Misuratori al Prelievo Installati a titolo dell’investimento’. Per 19 progetti non è ammissibile il valore inserito sullo stato delle autorizzazioni (le opzioni erano ‘da acquisire o da rinnovare entro 6 mesi’ e ‘acquisite e in corso di validità). Tra questi, per 14 progetti non è stato inserito alcun valore. Per altri 14 non è stato rispettato il criterio che riguarda la data di progettazione che, in 12 casi, non è stata proprio inserita, mentre in altri due casi è antecedente al 2016. Diciassette progetti, invece, non rispettano il criterio della durata dei lavori. Tra questi, per 12 progetti non è stato inserito alcun valore, per altri 5 la durata contrattuale dei lavori è superiore a 30 mesi.

Insomma un disastro. A maggior ragione alla luce di quanto ha dichiarato il ministro durante il question time: “Ricordo che dopo aver condiviso con le regioni i criteri di ammissibilità, abbiamo attivato un help desk con 118 faq di risposta e un dialogo costante con chi stava inserendo i progetti per aiutare ed evitare la commissione di errori”. Già. E allora potrà la Regione Sicilia porre rimedio al pasticcio? “Su questo ovviamente siamo disponibili a far rimediare – ha spiegato il ministro – per esempio a chi ha barrato un numero sbagliato. E sempre nel rispetto di chi ha già fatto le cose in modo corretto”. Ma ci sono altri due aspetti che il ministro affronta nel suo intervento. Intanto le risorse nazionali a disposizione per il sistema irriguo. Come a dire: c’è un altro treno, per chi perderà questo. “Ci sono 440 milioni di finanza messi sulle leggi di Bilancio dei prossimi anni – ha spiegato – che non sono soggette ai tempi del Pnrr”. E c’è un’altra questione su cui riflettere: “Alcuni consorzi e alcuni enti che sono vigilati dalle Regioni non hanno avuto la capacità tecnica di presentare i progetti. Potremo aiutarli con le risorse nazionali”.

ILFQ

Soldi all'estero, maxi sequestro per frode internazionale.

 

Gdf di Milano, oltre 1.500 raggirati e 21 Mln recuperati.


Oltre 1.500 investitori truffati, convinti di effettuare investimenti in fondi mobiliari costituiti alle Isole Bermuda e in Lichtenstein. E' quanto hanno scoperto la guardia di Finanza e la procura di Milano in un'indagine che ha portato al sequestro preventivo di oltre 21 milioni nei confronti di 11 indagati residenti in Svizzera, in Lombardia, a Roma e in provincia di Pesaro. 

"Bisogna fare attenzione ai guadagni facili, laddove ci sono proposte di trading on line in cui vengono prospettati profitti facili attraverso strumenti finanziari, bisogna essere particolarmente attenti".

Lo ha spiegato il procuratore aggiunto di Milano Eugenio Fusco in relazione all'inchiesta, coordinata anche dal pm Luigi Furno e condotta dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf milanese, che ha portato oggi al sequestro di oltre 21 milioni di euro per una maxi truffa con oltre 1500 investitori raggirati. "In questi casi di investimenti in fondi chiusi - ha aggiunto - va prestata massima cautela".

ANSA

Cartelle esattoriali, così il Governo punta a incassare 7 miliardi nel 2021. - Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste

 

(Illustrazione Giorgio De Marinis)

All’esame delle Camere il piano del Mef con obiettivi di fine anno e indicatori di efficienza Il 46% delle entrate complessivamente preventivate deve arrivare da rottamazione ter e saldo e stralcio.

Dalle cartelle esattoriali il Governo conta di incassare 7,2 miliardi. L’obiettivo 2021 che l’agenzia Entrate-Riscossione (Ader) dovrà centrare entro il 31 dicembre è stato fissato dall’atto aggiuntivo alla convenzione che ogni anno il ministero dell’Economia stipula con le Entrate.

Atto che, come prevede la legge, deve ottenere l’ok delle commissioni Finanze di Camera e Senato. Proprio mentre la maggioranza non perde occasione di chiedere sospensioni delle notifiche, rinvii dei versamenti o remissioni in termini per chi è decaduto dai piani di rateizzazione, la stessa maggioranza è chiamata a dare il via libera al piano di azione dell’agente pubblico della riscossione.

Un intreccio reso ancora più delicato sia dalla risoluzione proprio delle due commissioni Finanze sullo stato della riscossione e sulle misure da adottare per riscrivere il sistema, sia dall’annunciato via libera al prossimo Consiglio dei ministri della delega fiscale, dove troverà posto anche l’indicazione sul riordino del recupero coattivo di multe, imposte e contributi. Due appuntamenti in calendario nei prossimi giorni.

Il piano del Mef.

Tornando al piano presentato dal ministero dell’Economia alle Camere, come detto, si prevede un volume di incassi di circa 7,2 miliardi di euro per il 2021 (erano stati 6,4 miliardi nel 2020), destinati a salire a 11,7 miliardi nel 2022 e a 10,4 miliardi nel 2023. Una stima ambiziosa che comunque tiene conto, come si legge nella relazione che accompagna il piano, degli interventi di sostegno a imprese e cittadini adottati durante la pandemia che per la riscossione si sono tradotti nella sospensione della notifica delle cartelle e di tutti gli atti della ex Equitalia dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021. E ora, nel solco tracciato da ministero e Governo, la linea dell’agenzia della Riscossione è di procedere comunque a una ripresa più graduale dell’attività di notifica delle cartelle riferite ai ruoli consegnati durante il periodo di sospensione e a quelli che saranno inviati entro fine anno.

Altro dato che emerge dall’atto aggiuntivo è che circa il 46% dei 7,2 miliardi attesi come incasso 2021 dovrà arrivare dalle definizioni agevolate come la rottamazione ter e il saldo e stralcio anche queste stimate al momento in 3,3 miliardi.

Ipotesi allo studio.

Alla luce di questo obiettivo da centrare nei tre mesi rimasti del 2021 non appare poi tanto casuale che il Governo, con il prossimo decreto fiscale collegato alla manovra, tra le ipotesi allo studio abbia inserito anche quella di una remissione in termine per tutti i contribuenti decaduti dai piani di rateizzazione, sia quelli concessi per difficoltà economiche sia quelli scaduti di luglio e settembre.

Il target fissato da Via XX Settembre per la riscossione tiene conto anche dei 16 milioni di cartelle che entro il 31 ottobre saranno cancellate e relative ai carichi affidati all’agente della riscossione dal 2000 al 2010 di valore fino a 5mila euro e notificati ai contribuenti con redditi 2019 fino a 30mila euro.

Nuovi indicatori e costi

Tra gli indicatori su cui si dovrà misurare l’attività di agenzia Entrate/Riscossione il piano del ministero fissa nel 75% la percentuale di rateizzazioni concesse entro cinque giorni dalla presentazione dell’istanza, rispetto al totale delle dilazioni concesse con un limite di importo fino a 100mila euro (quelle per cui non serve documentazione a supporto). Viene poi introdotto un nuovo indicatore superiore al 25% per misurare la capacità di avviare, nel rispetto del principio della gradualità, la notifica dei ruoli ricevuti dagli enti impositori nel corso del 2020.

In termini di costi della riscossione l’Agenzia (che dal 1° ottobre è subentrata a Riscossione Sicilia) dovrà mantenere nel 2021 lo stesso livello dell’anno precedente pari a 13,5 euro per ogni 100 euro riscossi. E questo richiede un efficientamento sempre maggiore dell’attività svolta allo sportello sia fisico sia online, quest’ultimo in sperimentazione in quattro province e che da metà ottobre sarà esteso in altre tre.

IlSole24Ore

Arriva il nuovo forfait per 1,9 milioni di partite Iva. Come funziona. - Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste

 

(Illustrazione di Laura Cattaneo)

Nel 2021 il 46% delle nuove attività sceglie la flat tax. Il Parlamento conferma il regime mentre si studiano ritocchi ai coefficienti di redditività e si allontana l’estensione dell’obbligo di e-fattura.

I 153mila italiani che hanno aperto una partita Iva scegliendo il regime forfettario nel 2021 possono stare tranquilli: la riforma fiscale non cancellerà l’agevolazione. Sono in arrivo, però, diversi correttivi. Che potrebbero riguardare i coefficienti di redditività e i casi di superamento del limite di 65mila euro di ricavi o compensi. Si allontana, invece, l’ipotesi di estendere a tutti i forfettari l’obbligo di fatturazione elettronica dal 1° gennaio 2022.

Verso il Consiglio dei ministri.

Il disegno di legge delega è atteso in settimana in Consiglio dei ministri, come annunciato dal premier Mario Draghi. Ma la Nota di aggiornamento al Def (Nadef) anticipa già che la base della riforma sarà la relazione votata dalle commissioni parlamentari lo scorso 30 giugno. Un documento che riporta alcune indicazioni:

il regime forfettario fino a 65mila euro di ricavi e compensi sopravvivrà al riordino delle imposte sostitutive, con le aliquote al 15% e al 5% (per le nuove attività);

si raccomanda di introdurre un regime biennale di favore che accompagni verso la tassazione ordinaria chi supera i 65mila euro (al momento, invece, c’è un salto all’Irpef a partire dall’anno successivo); in relazione al complesso delle sostitutive, si ipotizza una revisione della base imponibile; il che – tradotto per il forfettario – significherebbe ritoccare i coefficienti di redditività (la percentuale che, applicata ai ricavi, determina il reddito da tassare).

Un’uscita morbida.

Si può stimare che oggi i contribuenti nel forfait siano circa 1,9 milioni, contando chi ha applicato i regimi agevolati nelle dichiarazioni dell’anno scorso (compresa una “coda” di vecchi minimi) e chi ha optato aprendo una partita Iva tra il 2020 e il 30 giugno di quest’anno, al netto delle chiusure. Ognuno di loro paga in media 1.730 euro di sostitutiva.

Dopo il balzo di adesioni del 2019 – quando fu innalzata la soglia di ricavi – l’appeal del regime resta elevato. Ancora nei primi sei mesi del 2021, il 46% delle nuove partite Iva ha scelto la flat tax.

Ma l’attuale assetto dell’agevolazione «finisce con l’inibire la crescita dimensionale» di molte partite Iva individuali, per dirla con le parole delle commissioni Finanze. Da qui la proposta di un’uscita morbida dal regime per chi supera i 65mila euro (restando entro una soglia ancora da definire): due anni supplementari di forfait con aliquota al 20%, a patto di incrementare il volume d’affari di almeno il 10% all’anno.

Nulla si dice, invece, circa gli altri vincoli: ad esempio per chi si trova a superare il limite dei 30mila euro di reddito da lavoro dipendente, magari a causa di un aumento di stipendio. In questo caso, scatta l’esclusione dal forfait senza uscita morbida. Mentre chi incassa altri tipi di reddito (immobiliari o di capitali) non ha divieti. Insomma, sono diversi gli aspetti che – volendo – potrebbero essere razionalizzati.

Coefficienti da aggiornare.

A proposito della base imponibile, la revisione dei coefficienti di redditività è stata suggerita – tra gli altri – dal direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella, al Parlamento (il 16 marzo scorso). I coefficienti, infatti, non sono stati modificati quando è stata elevata la soglia di ricavi e oggi «non sono coerenti con la struttura dei costi di imprese di dimensioni meno contenute».

Secondo un’analisi preliminare delle Finanze, un adeguamento dei coefficienti comporterebbe una riduzione della base imponibile – e quindi del prelievo – per i settori del commercio ambulante (oggi al 40% per gli alimentari e al 54% per gli altri prodotti) e delle costruzioni (86%), e un aumento per gli intermediari del commercio (oggi a 62%). Invariati gli altri coefficienti, compreso quello dei professionisti che sono il secondo settore d’attività più numeroso, proprio dopo il commercio.

E-fattura incompatibile.

Altro tema: gli adempimenti. Che la fattura elettronica sia utile a combattere l’evasione fiscale Iva lo dice chiaramente la Relazione sull’economia non osservata, allegata alla Nadef. E infatti nei mesi scorsi l’Italia ha chiesto l’ok di Bruxelles per estendere la e-fattura ai forfettari, che sono esclusi dall’obbligo.

Sul punto, però, la stessa Relazione è netta: «Al di sotto di una determinata soglia di ricavi e compensi, l’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica non è compatibile con la disciplina dell’Unione europea».

ISole24Ore

Perché la pressione fiscale resta alta nonostante il Pil in crescita? - Dino Pesole

 

(Illustrazione di Andrea Marson)

Il Governo vuole procedere a tappe: un primo intervento nella prossima legge di Bilancio, poi decreti legislativi nel corso del 2022 con effetti non prima del 2023.

Il Pil cresce e dovrebbe consolidare l’attuale rimbalzo congiunturale così da assicurare un percorso di crescita strutturale nei prossimi anni, ma la pressione fiscale resta sostanzialmente ferma tra il livello stimato per il 2021 (41,2% del Pil, contro il 42,1% del 2020) e il 41,5% del 2024. Stando a quel che prevede la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, al netto della misura che riguardano l’erogazione del beneficio dei 100 euro mensili (che viene conteggiata tra le maggiori spese), la pressione fiscale passerebbe dal 41,2% del 2021 al 40,9% nel 2024.

Al momento si può contare sul “fondo potenziale” da destinare alla riduzione della pressione fiscale pari a 4,3 miliardi nel 2021 e sull’intenzione - ribadita dal Governo - di ridurre la pressione fiscale «utilizzando prioritariamente le risorse derivanti dal contrasto all'evasione nell'ambito della sessione di bilancio».

L’urgenza della riduzione delle tasse.

La pressione fiscale fotografa l’insieme delle tasse e dei contributi incassati dallo Stato in rapporto al Pil. È un indicatore importante da valutare nella sua dinamica anno dopo anno, che tuttavia non fotografa il peso reale del complesso delle entrate fiscali e contributi sui singoli contribuenti. In molti casi, il livello effettivo del prelievo si attesta su valori decisamente superiori rispetto all’indice ufficiale, a causa del permanere di un’alta evasione (la stima varia dai 110 ai 130 miliardi l’anno). Va dunque senz’altro accolta con favore l’intenzione del Governo di agire sul fronte del contrasto all’evasione (intendimento che peraltro è agevole individuare in tutti i programmi di governo degli ultimi decenni).

Certamente passi in avanti sono stati compiuti verso quello che i tecnici definiscono «l’adempimento spontaneo al pagamento delle imposte» (la cosiddetta tax compliance), ma l’evasione resta uno dei problemi principali da affrontare attraverso un mix di misure di contrasto, il pieno utilizzo degli incroci con le banche dati, una drastica opera di semplificazione degli adempimenti tributari e il potenziamento dei pagamenti digitali. Sono linee di indirizzo che dovrebbero tra breve essere inserite nel disegno di legge delega che il Governo si appresta a presentare in Parlamento.

Razionalizzazione della spesa e contrasto all’evasione.

Per ridurre la pressione fiscale occorre un giusto dosaggio, in termini di corrette coperture finanziarie, tra un programma pluriennale di razionalizzazione della spesa corrente - come peraltro annunciato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco nel corso dell’audizione parlamentare dello scorso 21 luglio - e di aumento del gettito per effetto dell’azione di contrasto all'evasione.
Per quel che riguarda questa seconda fonte di finanziamento della riforma fiscale, va tuttavia precisato che le maggiori entrate che si ipotizza di incassare grazie alla lotta all’evasione dovrebbero essere correttamente contabilizzate solo ex post, una volta che siano state effettivamente incassate. Utilizzarle come fonte di copertura ex ante (lo si è già fatto in passato) pare una strada non del tutto coerente con i dettami di finanza pubblica, oltre a presentare margini di aleatorietà.

Si dovrebbe agire anche intervenendo sul complesso universo delle agevolazioni fiscali (oltre 600 per un costo di 68 miliardi), ma si tratta di un’operazione che richiede un ampio consenso in sede politica, perché comunque si tratta di decidere quali categorie andare a “colpire”, e tutto ciò può avere un costo in termini di consenso, e dunque di riscontro a breve dal punto di vista elettorale.

Il Pil e il fisco.

La nuova previsione tendenziale del Governo indica tassi di crescita del Pil reale dal 6% del 2021 al 4,2% del 2022, per poi attestarsi al 2,6% nel 2023 e all'1,9% nel 2024. Previsioni già validate dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che porterebbero il Pil al di sopra del trend pre-crisi nel 2024. Il quadro macroeconomico programmatico, che incorpora l’effetto della politica economica “espansiva” indicata nella Nadef, vede il Pil di quest’anno al 6%, al 4,7% nel 2022, che passa al 2,8% nel 2023 e all'1,9% nel 2024.

La politica fiscale dovrà rafforzare l’incremento del “denominatore” (il Pil), favorendo in tal modo il percorso di graduale riduzione della pressione fiscale. Ma la riforma dovrà puntare prima di tutto all’equità e alla corretta distribuzione del carico tributario, intervenendo sull’Irpef, ma anche sul cuneo fiscale, sull’Iva e sull’Irap. Il tema delle risorse è decisivo, e l’intendimento del Governo è di procedere a tappe, con un primo intervento (con ogni probabilità sul cuneo fiscale) da inserire nella prossima legge di Bilancio, per poi affidare il percorso di taglio delle tasse ai decreti legislativi che dovrebbero vedere la luce nel corso del 2022, con effetti tangibili dunque non prima del 2023.

Quanto al fondo da 4,3 miliardi indicato nella Nadef, si tratta di un insieme di risorse “potenziali” che emergono da quello che il Governo definisce il miglioramento della propensione di imprese e cittadini a pagare le imposte. Ora la quantificazione del maggior gettito dovrà essere ratificato e indicato nel Fondo speciale con un ulteriore provvedimento del ministro dell’Economia.

IlSole24Ore

Riforma del catasto vuol dire aumento delle tasse sulla casa? - Dino Pesole

 

(Illustrazione Giorgio De Marinis)

Nell'immediato, poiché quello sul fisco è un disegno di legge delega (la cui attuazione è demandata ai successivi provvedimenti) non cambia nulla. Si immagina che gli effetti del riordino delle rendite catastali cominceranno a dispiegare i loro effetti entro il 2026.

Un approccio “gradualista”, una sorta di percorso a tappe dai tempi lunghi (l'orizzonte è il 2026) che prova a scommettere su un principio-base tutto da verificare in corso d'opera: la revisione del catasto (attesa da decenni e ritenuta necessaria per rendere più equo e trasparente il prelievo sugli immobili) non comporterà la modifica delle rendite su cui si basa la tassazione.

In sostanza, al percorso che il Governo ha affidato ai 10 articoli del disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri (con la palese dissociazione della Lega) viene sottratto almeno nelle linee guida al rituale balletto dei distinguo in sede politica. Come sarà possibile modificare la struttura del catasto (operazione certo molto complessa che richiederà anni) senza quanto meno ricalibrare il prelievo lo si vedrà quando verrà approvato il relativo decreto legislativo. E non sarà da attenderlo in tempi brevi.

L’impegno di Draghi.

“È stata approvata la riformulazione del catasto. Il governo si impegna ad accatastare tutto quello che non è accatastato, terreni, abitazioni, e procede a una revisione delle rendite catastali adeguandole alle rendite di mercato. Occorrono cinque anni, ma il governo si impegna che nessuno pagherà di più o di meno, le rendite restano invariate”. Questo è il commento del presidente del Consiglio, Mario Draghi all'approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge sul fisco. La revisione delle rendite catastali è uno dei capitoli della riforma, e al pari degli altri assi portanti (dall'Irpef all'Irap e all'Iva) contiene i principi base. Una volta ottenuto dal Parlamento il via libera all'esercizio della delega, saranno i successivi decreti legislativi a entrare nel merito dei singoli passaggi della riforma entro 18 mesi dall'approvazione del ddl. La dote finanziaria è tutta da definire.

Lo ha spiegato il ministro dell'Economia, Daniele Franco: “Ogni decreto legislativo comporterà una riduzione di gettito. La copertura andrà individuata con le leggi di Bilancio”. Al momento si può contare su uno stanziamento di oltre 2 miliardi per il 2022, e di circa 1 miliardo per ognuno degli anni successivi. Si vedrà se sarà possibile potenziarlo.

L’invarianza del gettito.

L'obiettivo del Governo (ora da verificare in corso d'opera) è di avviare la revisione delle rendite catastali cercando, per quanto possibile, di mantenere l'invarianza del gettito. In sostanza la redistribuzione del carico fiscale sulla casa dovrebbe passare dall'adeguamento delle rendite ai valori di mercato, senza con questo far crescere l'importo complessivo delle tasse sul mattone. E senza toccare l'abitazione principale. Esercizio complesso. Non a caso tutti i più recenti tentativi di mettere mano alla revisione delle rendite catastali è naufragato sotto il peso delle pressioni politiche.

L'interrogativo è legittimo. I tempi? Difficile ipotizzare che si possa metter mano a un capitolo così controverso e a così alta valenza politico-elettorale, nell'anno (il 2022) che precederà l'appuntamento con le elezioni politiche del 2023 (ammesso che la legislatura giunga al suo naturale compimento). Certo dovrebbero essere poi le aliquote a determinare il prelievo, e pare corretto non assimilare tout court la revisione delle rendite catastali all'incremento della tassazione sugli immobili. Occorrerà evidentemente procedere a tappe, e rendere esplicito uno dei principi-cardine enunciati nel ddl delega, vale a dire quello della “trasparenza”. Che non potrà essere disgiunto dall'altro caposaldo: la semplificazione.

Cosa accade nell'immediato.

Nell'immediato, trattandosi di un disegno di legge delega (la cui attuazione è demandata ai successivi provvedimenti) non cambia nulla. E non vi è da attendere che cambi qualcosa nell'immediato futuro per quel che riguarda le tasse sul mattone. L'obiettivo che il Governo intende perseguire è quello della revisione e dell'aggiornamento dei sistemi di mappatura degli immobili. In questo modo si punta anche a contrastare l'evasione, ma anche ad avviare la complessa revisione del catasto fabbricati. Il tutto entro il 2026, anno in cui si immagina che gli effetti del riordino delle rendite catastali comincerà a dispiegare i suoi effetti. Il dettaglio sarà affidato a un decreto legislativo ad hoc che dovrebbe affiancare alla rendita catastale il valore patrimoniale dell'immobile e una rendita ai valori di mercato. Operazione – promette Draghi – che non comporterà aumenti del prelievo. Come lo si riuscirà a fare lo vedremo nei prossimi anni.

IlSole24Ore