martedì 4 dicembre 2018

Mafia, decapitata la nuova Cupola Palermo, 46 arresti FOTO-VIDEO - Riccardo Lo Verso

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L'anziano Settimo Mineo e altri tre boss guidavano la commissione provinciale di Cosa nostra.
PALERMO - Il 29 maggio 2018 alcuni boss si rendono irreperibili e violano contemporaneamente la sorveglianza speciale. È il giorno in cui da qualche parte, a Palermo o in provincia, si è riunita la commissione provinciale di Cosa nostra. Non accadeva dal 1993, anno dell'arresto di Totò Riina. A presiederla il più anziano dei capimafia in libertà, Settimo Mineo.
È lui, secondo la Procura di Palermo e i carabinieri del Comando provinciale guidati dal colonnello Antonio Di Stasio, l'uomo chiave del dopo Riina. Nella notte è stato arrestato assieme ad altre 45 persone che compongono gli organigrammi di quattro mandamenti: Mineo è il capo a Pagliarelli, Gregorio Di Giovanni a Porta Nuova, Francesco Colletti a Bagheria-Villabate e Filippo Bisconti a Misilmeri-Belmonte Mezzagno.

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Il resoconto del vertice della nuova Cupola è stato raccolto dai militari che hanno registrato una inequivocabile conversazione in macchina fra il boss di Villabate e il suo autista, poche ore dopo il più importante vertice della mafia degli ultimi decenni. Una leggerezza che consentito al procuratore Francesco Lo Voi, all'aggiunto Salvo De Luca, Salvatore De Luca e ai sostituti Maurizio Agnello, Bruno Brucoli, Francesca Mazzocco, Amelia Luise, Dario Scaletta, Gaspare Spedale di trovare riscontri decisivi alle ricostruzioni sulla mappa del potere sei mesi dopo la morte di Totò Riina.

Mineo aveva l'anzianità e lo spessore per accollarsi il tentativo di serrare i ranghi dell'organizzazione e guardate avanti, oltre la morte del padrino corleonese, la cui detenzione ha tenuto legate le mani dei boss. Morto il capo è partita la ricostruzione attraverso il rispetto delle vecchie regole: la spartizione territoriale sulla base di confini rigidi, la collaborazione fra mandamenti, la nomina di capi condivisi, il richiamo per chi sbaglia. Finora sono stati ricostruiti gli organigrammi di Pagliarelli, Porta Nuova, Villabate e Misilmeri, ma nelle intercettazioni ci sono ampi riferimenti a chi comanda in altre zone di città e provincia.
Ottant'anni e una lunga militanza in Cosa nostra fanno di Mineo un personaggio carismatico. Di lui per la prima volta aveva parlato Tommaso Buscetta al tempo della condanna al Maxi processo. Mineo era un grande nemico di Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, ed era scampato all'agguato che costò al vita ai fratelli Giuseppe e Antonino. Poi nel 2006, il boss finì in carcere assieme al suo padrino, Nino Rotolo, nei giorni del blitz Gotha che iniziò a togliere l'acqua in cui sguazzava Bernardo Provenzano. Di Rotolo che negli anni Ottanta, in piena guerra di mafia gli salvò la vita, Mineo è stato l'ambasciatore nei rapporti con le altre famiglie mafiose: Corso dei Mille, Bolognetta e Partanna Mondello. Era l'uomo degli affari, del controllo degli appalti illeciti e dei contatti con la mafia americana. E in America nelle scorse settimane Mineo era pronto a tornare. Gli era stato pure rilasciato il passaporto. Il suo prossimo viaggio, bloccato da un problema di visto, è uno dei presupposti del fermo eseguito oggi. La mafia prova a rialzare la testa fra pizzo, droga, scommesse sportive e vecchie regole, ma il blitz di pm e carabinieri stoppa il progetto, proprio come è accaduto dieci anni fa con l'operazione Perseo.

Noam Chomsky compie 90 anni: come un anarchico americano è più che sopravvissuto. - Bruce E. Levine

“Chi sostiene la legittimità dell’autorità si assume l’onere di giustificarla. E se non la può giustificare, è illegittima e dovrebbe essere destituita. A dire la verità, per me l’anarchia non è altro che questo.”
Noam Chomsky
Il 7 Dicembre 2018 Noam Chomsky ha compiuto 90 anni. In un sondaggio del Reader’s Digest del 2013 sulle “100 persone più affidabili in America” (con ai primi posti celebrità di Hollywood), Noam Chomsky, che si autodefinisce anarchico, si classificò al ventesimo posto (dietro a Michelle Obama al diciannovesimo, ma prima di Jimmy Carter al ventiquattresimo). Dato che gli antiautoritari nel corso di tutta la storia degli Stati Uniti sono stati sistematicamente evitati, puniti economicamente, psicopatologizzati, criminalizzati e assassinati, il fatto che Chomsky sopravviva e prosperi è davvero notevole.
All’inizio degli anni sessanta, quando gli americani criticavano la guerra in Vietnam, Chomsky fu tra i primi a sfidare il governo degli Stati Uniti e a resistere. Rischiò il carcere e la perdita della carriera accademica in linguistica in cui era divenuto molto stimato grazie al suo contributo innovativo. Per più di mezzo secolo, Chomsky ha usato la sua posizione per sfidare tutte le autorità illegittime, incluso il governo degli Stati Uniti e regimi oppressivi in tutto il mondo. Ha espresso un coerente disprezzo per il dominio dell’élite – sia per le sue atrocità che per il sovvertimento dell’autonomia delle classi lavoratrici.
Pur detestando qualsiasi culto dell’eroe – specialmente di se stesso – Chomsky valorizza ciò che si può imparare dagli esperimenti di vita degli uomini. In questo spirito, esaminare la vita di Chomsky può servire agli antiautoritari che cercano di capire come sopravvivere.
Chomsky sa benissimo che la fortuna è stata un fattore importante nel capovolgere le sue sorti, ma per un anarchico americano nemmeno una grande fortuna è sufficiente per sopravvivere ed avere un’influenza profonda. Chomsky possiede anche un’intelligenza straordinaria, una razionalità degna di Spinoza, e una grande saggezza riguardo alla sopravvivenza.
Esaminando le vite tragiche o vittoriose di antiautoritari americani in Resisting Illegittimate Authority, ho scoperto che quegli antiautoritari che hanno prosperato, oltre ad avere fortuna, si sono presi cura di se stessi con saggezza, senza trascurare relazioni e denaro. Antiautoritari con vite più tragiche hanno spesso aggravato gli assalti dell’autorità con la loro propria autodistruttività.
Chomsky descrive i suoi genitori come “normali democratici roosveltiani”, ma alcuni altri membri della famiglia erano radicali di sinistra. Durante l’infanzia, Noam, per sua fortuna, cominciò la sua educazione a Oak Lane, una scuola sperimentale deweytiana dove i bambini erano incoraggiati al pensiero autonomo e la creatività era più importante dei voti. Chomsky è convinto che tutte le scuole potrebbero essere come Oak Lane, ma non lo sono perché nessuna società “basata su istituzioni gerarchiche autoritarie tollererebbe a lungo un tale sistema scolastico.”
A Oak Lane, a dieci anni, Noam pubblicò sul giornale della scuola un articolo sulla caduta di Barcellona alle forze fasciste durante la Guerra Civile Spagnola – un evento che restò importante per Chomsky per tutta la vita. Più tardi lesse Omaggio alla Catalogna, il resoconto di George Orwell sulla Guerra Civile e il breve successo di una società anarchica in Spagna. La precoce consapevolezza di Chomsky che il popolo può sollevarsi contro sistemi oppressivi e creare organizzazioni basate sulla cooperazione divenne parte delle fondamenta della sua convinzione che l’anarchia sia una possibilità concreta.
All’età di dodici anni, Noam entrò nella Central High School di Philadelphia, un istituto molto stimato, ma che lui odiava: “era il posto più ottuso e ridicolo in cui mi sono mai trovato, fu come cadere in un buco nero o qualcosa del genere. Innanzitutto, era estremamente competitivo – perché quello è uno dei modi migliori per controllare le persone”. Rimase in quella scuola, ma perse qualsiasi interesse.
Come molti altri giovani intelligenti antiautoritari, il giovane Noam detestava l’educazione scolastica ordinaria. Tuttavia, ebbe la saggezza di non equiparare scolarizzazione con istruzione, e durante l’adolescenza studiò per conto proprio. All’età di 13 anni, Noam andò da solo in treno a New York in visita a parenti. Passò molte ore con uno zio che aveva un’edicola sulla 72esima strada a Manhattan, un vivace “salotto politico letterario” dove un Chomsky adolescente fu esposto a idee radicali e alla cultura della classe operaia ebrea.
A sedici anni, Chomsky cominciò studi universitari all’Università della Pennsylvania ma presto, come molti studenti antiautoritari, si scoraggiò. Chomsky ricorda: “Quando lessi il catalogo del college era veramente eccitante – un sacco di corsi, grandi cose. Ma scoprii che il college era una scuola superiore ipertrofica. Dopo circa un anno stavo per abbandonare e fu solo un caso che invece ci rimasi.” Fortuna volle che si trovasse in sintonia con Zellig Harris, un carismatico professore di linguistica, che fece restare Noam nell’accademia e alla fine gli permise di diventare un linguista rinomato.
I primi interessi di Chomsky in realtà erano politici, non linguistici. Una volta ricordò: “Sin da bambino, sono stato profondamente coinvolto in politica radicale e dissidente, ma dal punto di vista intellettuale.” Alla fine il coinvolgimento intellettuale non era abbastanza. Chomsky ci dice: “In realtà sono un eremita per natura, e preferirei di gran lunga stare da solo a lavorare, che apparire in pubblico.”
Ciò che è psicologicamente ammirevole nel temperamento introverso di Chomsky è che si è attivamente impegnato nel mondo. Ho scoperto che il fattore chiave per quei rari antiautoritari che trionfano è la loro volontà di trascendere la loro zona di comfort psicologico.
A trent’anni, Chomsky era diventato un linguista molto stimato, e all’inizio degli anni 60 divenne uno dei primi intellettuali a condannare pubblicamente la guerra in Vietnam. Dopo che il dissenso contro la guerra si diffuse negli Stati Uniti, Chomsky con modestia racconta: “Sapevo di essere intollerabilmente troppo indulgente con me stesso per avere un ruolo meramente passivo nelle lotte che all’epoca stavano accadendo. E sapevo che firmare petizioni, mandare denaro, e partecipare di tanto intanto alle riunioni non era abbastanza. Pensavo che fosse essenziale prendere una parte più attiva, ed ero ben consapevole di ciò che questo avrebbe comportato”. Per dieci anni Chomsky si rifiutò di pagare una parte delle sue tasse, supportò i renitenti alla leva, fu arrestato diverse volte e fu uno dei nemici sulla lista ufficiale di Richard Nixon.
Date le potenziali conseguenze della sua posizione politica, Noam e sua moglie Carol (sposata a Noam dal 1949 fino alla sua morte nel 2008) saggiamente si accordarono che sarebbe stato opportuno che Carol tornasse a studiare e ottenesse un PhD, così da poter mantenere la famiglia nel caso lui fosse incarcerato. In seguito raccontò: “Effettivamente, ciò sarebbe accaduto se non fosse stato per due fatti inaspettati: (1) la completa (e piuttosto tipica) incompetenza dei servizi segreti… [e] (2) l’Offensiva del Têt, che convinse il mondo degli affari americano che il gioco non valeva la candela e portò alla caduta delle accuse”. Carol Chomsky alla fine ottenne un posto alla Harvard’s School of Education, ed anche lei ebbe una carriera accademica di successo. E così, grazie alla fortuna e a scelte sagge, la famiglia Chomsky ottenne due stipendi eccellenti e quindi sicurezza economica.
Chomsky ebbe anche la saggezza di non cadere preda di quella propensione all’autodistruzione di alcuni attivisti antiautoritari che negano la loro piena umanità. La saggezza di Chomsky qui è psicologicamente utile ai giovani antiautoritari: “Guarda, non puoi essere efficace come attivista politico se non hai una vita soddisfacente.” Chomsky dice al suo uditorio, “Nessuno di noi è un santo, almeno io non lo sono. Non ho rinunciato alla mia casa, non ho rinunciato alla mia auto, non vivo in una topaia, non lavoro 24 ore al giorno per il benessere dell’umanità, o niente del genere. In realtà non ci vado nemmeno vicino.” Un ‘New Yorker profile’ riguardante Chomsky cita un suo amico: “Gli piace stare fuori in estate, gli piace nuotare nel lago, andare in barca e mangiare cibo spazzatura”.
Chomsky è il modello di attivista che non nega né si autoflagella per ipocrisie finanziarie che sono impossibili da evitare in una società che richiede denaro per sopravvivere. Quando fu assunto dal Massachusetts Institute of Technology, Chomsky fu schietto riguardo al fatto che anche se il Dipartimento della Difesa del governo degli Stati Uniti non finanziava lui direttamente, poiché il DoD finanziava altri dipartimenti del MIT, quei finanziamenti permettevano al MIT di pagarlo. “Per quanto riguarda il discorso morale”, Chomsky osservò, “non è che ci sia del denaro pulito da qualche parte. Se sei in una università, stai prendendo soldi sporchi – stai prendendo soldi che provengono da gente che sta lavorando da qualche parte, a cui il denaro viene sottratto”.
Molti antiautoritari hanno tanta rabbia. Questa rabbia deriva da ingiustizie sociali e dal fatto che il loro dissenso venga ignorato; da assalti autoritari contro di loro; dall’assistere alla marginalizzazione dei loro amici antiautoritari; e dal risentimento per essere costretti ad una vigilanza costante. La maniera in cui gli antiautoritari gestiscono la loro rabbia è decisiva perché trionfino o finiscano tragicamente. Mentre si può vedere la rabbia affiorare nel suo sarcasmo caustico, perlopiù Chomsky non si è autosabotato con la sua stessa rabbia. Tutti gli antiautoritari sono addolorati dalle autorità illegittime, tuttavia Chomsky non ha peggiorato il dolore con reazioni autodistruttive e violente che forniscono agli autoritari giustificazioni per opprimere.
Con la sua saggezza e con la sua fortuna, Chomsky è più che sopravvissuto per diventare uno degli anarchici più influenti nella storia degli Stati Uniti, un’ispirazione per milioni di antiautoritari, specialmente quelli giovani. È stato un modello prendendo sul serio pensiero critico e verità – non qualifiche convenzionali e riconoscimenti ufficiali. Le verità asserite da Noam Chomsky sono state sfide potenti alla società autoritaria, ma forse anche più potente, soprattutto per gli antiautoritari più giovani, è il suo rappresentare un essere umano integro. 

Bruce E. Levine, psicologo clinico praticante, spesso in contrasto con la corrente principale della sua professione, scrive e parla di come si intersecano società, cultura, politica e psicologia. Il suo libro più recente è Resisting Illegitimate Authority: A Thinking Person’s Guide to Being a Anti-Authoritarian Strategies, Tools and Models (AK Press, settembre 2018). Il suo sito Web è  brucelevine.net
https://comedonchisciotte.org/noam-chomsky-compie-90-anni-come-un-anarchico-americano-e-piu-che-sopravvissuto/
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Amago

Banche, bomba da 6.800 miliardi di titoli tossici nei bilanci degli istituti tedeschi e francesi. - Morya Longo




Nei bilanci delle banche europee c’è una montagna di attivi e di passivi, pari a 6.800 miliardi di euro, con una caratteristica che non può non inquietare almeno un po’: l’opacità. A tanto ammontano infatti i cosiddetti titoli illiquidi, quelli nel gergo tecnico chiamati di «Livello 2 e 3» e nel linguaggio più popolare «titoli tossici».
Sebbene questo appellativo sia sbagliato per molti aspetti, nei bilanci delle banche europee c’è un gigantesco rischio potenziale e imponderabile: gli attivi e passivi illiquidi hanno un ammontare 12 volte superiore a quello dei crediti deteriorati e per il 75% sono concentrati in due soli Paesi. Cioè Germania e Francia. Basterebbe che subissero una svalutazione del 5% per erodere mediamente il capitale delle banche più esposte di 330 punti base. Con punte di 1.500. Insomma: se accadesse, buona parte del cataclisma patrimoniale colpirebbe gli istituti di due soli Paesi. Quelli ritenuti più solidi...
Ecco perché la Banca d’Italia, in un Convegno organizzato dall’Università Cattolica con Crif e Credit Risk Club, ricordando questi dati emersi in un suo studio, ha ancora una volta puntato il dito sugli attivi e passivi illiquidi: perché rappresentano un potenziale problema sul quale la Vigilanza europea deve alzare la guardia. «Possono non essere tossici - commenta Fabio Panetta, Vicedirettore generale della Banca d’Italia e componente del Consiglio della Vigilanza Bce -, ma producono potenzialmente rischi materiali».
«La pericolosità è sconosciuta - gli fa eco Rosario Roca, ispettore senior di Bankitalia -, ma verosimilmente non è distante da quella dei crediti in sofferenza». Questo perché gli attivi di «Livello 2 e 3» sono tutti gli strumenti (spesso complessi e opachi) per i quali non esiste un mercato di riferimento che stabilisca un prezzo: non avendo un valore certo, dunque, le banche li iscrivono nel bilancio a un prezzo ricavato o dal confronto con titoli simili (nel caso del «Livello 2») oppure da complessi calcoli matematici (nel caso del «Livello 3»). Insomma: una montagna da 6.800 miliardi di euro è iscritta nei bilanci a valori opinabili. E non verificabili da parte della Vigilanza.
È Rosario Roca ad elencare i potenziali rischi. Uno: il processo di valutazione da parte delle banche è discrezionale. «Gli istituti creditizi sono incentivati a usare la discrezione nel valutare questi attivi a proprio vantaggio». Due: «Le banche hanno l’interesse a classificare il più possibile gli strumenti al Livello 2 piuttosto che al Livello 3, per evitare una stigmatizzazione sul mercato». Questo perché quelli di Livello 3 sono ritenuti da mercato e agenzie di rating più “tossici”. Tre: per le banche è difficile fare corrette coperture dei rischi (hedging). Negli ultimi stress test l’Eba ha imposto di stimare shock esterni sugli attivi tossici, dimostrando crescente attenzione sul tema. Ma c’è un problema, evidenziato da Andrea Resti, Professore della Bocconi: il valore di partenza di questi attivi è stato, anche negli stress test, quello che le banche le banche si auto-assegnano. E, come detto, proprio questo valore è opinabile.
Fonte: ilsole24ore - 1 dicembre 2018

domenica 2 dicembre 2018

Macron.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e vestito elegante

Arsenale k
Quando hai quella la strana sensazione di non essere molto considerato..

Potere, disagio, ribellione.

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La campagna mediatica che sta facendo tutta l'opposizione al governo ha come fine ultimo la caduta dello stesso. Praticamente, è un colpo di stato.
Perdere il potere, dopo averlo assaporato, non è accettabile; avere il potere di coercire e schiavizzare un'intera popolazione non è da tutti e procura lauti vantaggi economici e prestigio a chi questo potere lo esercita per compiacere chi comanda. 
E' alquanto strano, infatti, notare come gravi fatti riguardanti personaggi dal discutibilissimo comportamento non vengano sciorinati pubblicamente in un battage continuo, martellante, mentre vengono proposti, con dovizia di particolari, le minuzie, le futilità del soggetto da colpire e che, oltretutto, non riguardano lo stesso, ma chi gli ruota attorno,
E' come quando si cerca il pelo nell'uovo degli altri e non si nota la trave nel proprio occhio.
Un mediatico e massiccio sfiancamento che mira a riportare lo status quo che tanto piace a chi vuole crogiolarsi in una giostra in cui le leggi varate vengono ideate per essere rispettate solo dai poveri imbecilli tartassati e sottomessi ai quali, sadicamente, si sottraggono quotidianamente i diritti sanciti dalla Costituzione, conquistati, oltretutto, con lotte di costosi scioperi.
Ci si domanda, infine, ma come è possibile che chi ha rovinato l'economia di un paese riesca ad avere ancora un seguito?
Elementare! il seguito è formato da chi, da quel sistema bacato, è riuscito ad ottenere un beneficio, ignaro del fatto che, prima o poi, toccherà anche a lui dover subire le angherie di uno strapotere che si regge sul do ut des.
Solo ripristinando rispetto, onore, onestà, trasparenza, cultura si può sperare di crescere.
La mancanza di queste basilari basi di crescita, fomenta il disagio che crea destabilizzazione e, quindi, possibili rivoluzioni.
E' il disagio, infatti, che ha mosso i francesi ad opporsi alle leggi create da un governo incapace di ribellarsi alla pressione esercitata da chi detiene il potere economico.
La storia vanta tanti esempi di cruente ribellioni del popolo contro i potenti dell'epoca, ma siamo in pochi a studiarla, ed a trarne profitto, evidentemente.


Cetta

sabato 1 dicembre 2018

Misurata la luce di tutte le stelle dell'universo.

La mappa della luce delle stelle dell’universo (fonte: Nasa/Doe/Fermi Lat Collaboration) © Ansa

La mappa della luce delle stelle dell’universo (fonte: Nasa/Doe/Fermi Lat Collaboration) © ANSA/Ansa


E’ un numero gigantesco, un 4 seguito da 84 zeri.


Misurata la luce di tutte le stelle dell'universo: è un numero gigantesco, un 4 seguito da 84 zeri, ed è stato calcolato grazie ai dati del telescopio Fermi della Nasa, costruito con un importante contributo italiano. Pubblicato su Science, il risultato si deve alla collaborazione Fermi-Lat coordinata dall'astrofisico Marco Ajello, che lavora negli Stati Uniti, alla Clemson University. 

Della collaborazione fanno parte tantissime università italiane, come quelle di Padova, Trieste, Perugia, Politecnico di Bari, e centri di ricerca, tra i quali Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e Agenzia Spaziale Italiana (Asi). "Grazie ai dati raccolti dal telescopio Fermi, siamo stati in grado di misurare l'intera quantità di luce emessa dalle stelle: una cosa mai vista prima", rileva Ajello. "Questo - aggiunge - ci permette di comprendere meglio il processo di evoluzione stellare". 

Si calcola che l'universo, che ha circa 13,7 miliardi di anni, abbia cominciato a formare le prime stelle quando aveva poche centinaia di milioni di anni. Da allora, l'universo è diventato una fabbrica di stelle e oggi ne conta un numero incredibile, pari a miliardi di miliardi, ma finora è stato impossibile quantificare tutta la luce che producono perché, viste dalla Terra, queste stelle sono estremamente deboli e i telescopi non riescono a osservarle. Se si escludono il Sole e le stelle della Via Lattea, la luce delle stelle presenti nelle altre galassie, che raggiunge la Terra, equivale infatti a una lampadina da 60-watt osservata al buio da circa 4 chilometri di distanza. 

I ricercatori sono stati in grado di aggirare questo problema utilizzando lo strumento italiano Lat (Large Area Telescope), nato grazie ai contributi di Asi, Infn e Inaf, installato sul telescopio Fermi. Il telescopio è riuscito infatti a misurare il numero di particelle di luce (fotoni) emesse dalle stelle, analizzando la nebbia cosmica, chiamata luce di fondo extragalattica, che è composta da tutta la luce ultravioletta, visibile e infrarossa emessa dalle stelle, che sfugge dalle galassie e permea tutto l'universo.

Fonte: ansa 30 nov. 2018

giovedì 29 novembre 2018

La Verità: “Lavoro nero e babbo Renzi, tutte le sentenze” - Giacomo Amadori e Simone Di Meo



Attaccando il genitore di Di Maio, il padre dell’ex premier si è tirato la zappa sui piedi. Il suo passato è pieno di brutte storie di dipendenti irregolari. E anche sugli abusi edilizi non ha affatto le carte in regola. 

Davanti alle accuse contro il papà di Di Maio, Tiziano Renzi ha colto la palla al balzo: «Mai avuti dipendenti in nero, né capannoni abusivi», ha tuonato orgoglioso, Peccato che, come dimostrano sentenze e verbali, abbia avuto entrambi anche lui.
Per riabilitare sé stesso, Tiziano si è scagliato contro Di Maio senior: «Non ho dipendenti in nero, né capannoni abusivi» Peccato che ci siano sentenze contro di lui per lavoratori irregolari e un verbale dei vigili urbani su fabbricati senza licenza
Se Tiziano Renzi non esistesse bisognerebbe inventarlo. L’altro ieri pomeriggio, saltando sull’onda montante contro Antonio Di Maio, dimentico di essere plurindagato per reati gravi, ci ha tenuto a prendere le distanze dal genitore del vicepremier: «Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88 euro di tasse». Tre frasi che valgono probabilmente per il presente, ma non per il passato. Infatti, per quanto riguarda i lavoratori in nero, abbiamo già scritto che diverse sentenze hanno condannato Renzi senior a risarcire strilloni e volantinatori per l’irregolarità dell’inquadramento. Quanto ai guadagni, quando il figlio non era premier, nel 2013, Renzi senior dichiarò all’erario 4.952 euro, non molto di più del padre di Luigi Di Maio. Ma negli anni successivi, con il figlio Matteo a Palazzo Chigi, il reddito è salito sopra i 100.000 euro.

COLATA DI CEMENTO.

Infine non si capisce perché Tiziano Renzi abbia voluto infilarsi, non richiesto, nella questione dei capannoni. Nel febbraio 2002 i vigili di Rignano sull’Arno entrano nel piazzale della sua Chil Srl per un accertamento e trovarono diverse opere per cui non erano state rilasciate concessioni edilizie né autorizzazioni: un capannone con struttura in ferro e tamponatura con pannelli in plastica e lamiera, una tensostruttura di 24 metri per 10, un’altra di 22 per 10,5, un piccolo locale in cemento armato e un muro di notevoli dimensioni dello stesso materiale, Il piazzale era stato coperto da una colata di cemento. La polizia locale osservò che anche se quasi tutte le strutture erano ancorate al suolo tramite bulloni, e quindi apparentemente precarie, in realtà non sembravano destinate «a risolvere esigenze contingenti e temporanee» e venivano utilizzate per ricoverare mezzi e macchinari. Insomma erano vere e proprie strutture abusive.
C’è poi la questione dei lavoratori con contratti irregolari. L’avvocato genovese Simona Nicatore, che ha difeso una coppia di nigeriani ingaggiati dalla Arturo Srl, di cui è stato amministratore proprio il papà dell’ex premier, non usa giri di parole: «È stata riconosciuta l’illegittimità del licenziamento verbale dei miei clienti e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato che non era regolarizzato». Facciamo la fatidica domanda: si può parlare di lavoro nero? «Sì», è la risposta.

I NIGERIANI.

I due sfortunati ex distributori di giornali si chiamano Evans Osahon Omoigui e Mercy Omorodion. All’epoca distribuivano agli abbonati, con la loro auto, le copie del Secolo XIX di Genova. I turni erano terribili. «Il mio fidanzato lavorava tutti i giorni della settimana, sette ore al giorno. Se i giornali arrivavano in ritardo, lavorava fino alle 8-8.30», racconta la donna al giudice del lavoro che si occupa del caso. «Non c’erano controlli», prosegue la nigeriana. «Qualche volta è successo che il cliente non ha trovato il giornale dietro alla porta, in questi casi ci decurtavano una parte dello stipendio». Per quell’attività la paga era di 28 euro lordi al giorno da cui detrarre eventuali penalità. Come succedeva quando, a causa della rottura della macchina, la copertura della linea saltava. Dalla Arturo Srl tolsero a Evans «300 euro» in un colpo solo.
L’uomo venne licenziato, a voce, due mesi dopo la lettera di preassunzione firmata da babbo Tiziano. Aveva osato chiedere la regolarizzazione e il rimborso della benzina insieme a un’altra decina di connazionali. «Ho trovato i cancelli chiusi», spiegò al magistrato. «Sono comunque riuscito a entrare e ho parlato con il nostro supervisore capo, Adeniji. Mi disse che non poteva più farmi lavorare. E che per chiarimenti dovevo rivolgermi al signor Tiziano Renzi di Firenze». Evans fece ricorso alla magistratura e ottenne giustizia, ma servì a poco. Il 20 settembre 2011 il giudice del lavoro di Genova, Margherita Bossi, condannò la Arturo Srl a pagare circa 90.000 euro e inviò una lettera di precetto al «sig. Tiziano Renzi, presso la sua residenza in Rignano sull’Arno». Ma il babbo dell’ex premier aveva già chiuso bottega e non pagò mai. Comunque nel magnifico mondo dell’imprenditoria renziana non sono solo gli africani ad essere sfruttati.
È emblematica la vicenda dei lavoratori della Delivery Service, che questo giornale ha raccontato circa un anno fa. Per il fallimento di quell’azienda i genitori del fu Rottamatore sono indagati per concorso in bancarotta, visto che dietro ai rappresentanti legali della cooperativa, secondo gli inquirenti, a tirare le fila c’erano Tiziano Renzi e il suo ex socio di fatto Mariano Massone.
Nel luglio 2010 il direttore dell’ufficio di Pisa, Luigi Corcione, preso dallo sconforto, informa i due referenti che «non intendeva trovarsi in situazioni scomode suo malgrado», e per questo dà le dimissioni. Nessuno gli risponde. E allora lui prende la sua auto, la parcheggia all’aeroporto e vola in Spagna. L’uomo, in preda allo stress, sembra che sia andato a ritrovare sé stesso a Santiago di Compostela. Nel piazzale restano e resistono i lavoratori. Uno solo di loro è assunto in modo ufficiale, mentre un altro paio hanno una posizione parzialmente regolarizzata. Gli altri erano dei fantasmi.

ACCUSE PESANTI. 

Scrivono: «Accusiamo e denunciamo […] che la situazione lavorativa, nella quale siamo tutti coinvolti e che non possiamo, dal primo giorno a oggi. definire professionale, si è fatta per noi parzialmente assunti e ancora più precari al nero (contro la nostra volontà) sempre più insostenibile». In due diverse istanze, tra luglio e agosto 2010, mettono nero su bianco in che condizioni siano costretti a operare. Sono inquadrati come corrieri, mentre invece gli «tocca fare facchinaggio». Nella denuncia accusano i dirigenti delle società di aver inscenato un “valzer delle bugie” e di non aver mantenuto alcuna «rassicurazione su assunzioni promesse e sempre rimandate».

DOPPIA MORALE.

E se i Renzi, padre e figlio, si sono scandalizzati per il dito ferito di Salvatore Pizzo, l’operaio in nero dell’azienda del papà di Luigi Di Maio (Tiziano ha detto di non aver mai registrato incidenti sul lavoro in azienda), potrebbero dare un’occhiataa quel che accadde a Pisa. Alcuni dei dipendenti della Delivery hanno letteralmente rischiato la vita: Fabio M. ha subito un incidente sul lavoro che l’ha costretto a tre giorni di riposo forzato; Massimiliano C. ha perso il controllo del mezzo e solo per miracolo non ha riportato ferite; Valerio B. è stato costretto invece a restare un mese a riposo per un frontale su strada. Nonostante tutto, l’unica preoccupazione dimostrata dall’azienda fu quella di informarsi […] dello stato salute… dei furgoni», contestano nella loro lettera di protesta i lavoratori. I quali uscivano con camioncini con l’assicurazione «scaduta», pur dovendo garantire dalle 25 alle 30 consegne al giorno ed erano costretti ad anticipare i soldi del gasolio e dei pedaggi. Si erano persino ritrovati – da un momento all’altro – con un taglio dei pagamenti nell’ordine di «250-300 euro al mese», senza sapere il motivo. Tutto era precario. Il lavoro, l’esistenza, le prospettive.
«A loro (i vertici della coop, ndr) non gliene frega un cazzo se noi abbiamo bisogno di certezze o di essere regolarmente pagati perché abbiamo famiglia», fu la spiegazione che un esasperato Corcione offrì ai dipendenti a conclusione dell‘ennesimo, inutile, faccia a faccia. Prima di scappare. Lontano.
Fonte: infosannio del 28 novembre 2018