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mercoledì 4 ottobre 2023

ZELENSKY AVREBBE DOVUTO RIMANERE A CASA. - *Philip Giraldi – The Unz Review – 3 ottobre 2023

 

Il viaggio per partecipare all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e incontrare Biden si è rivelato negativo.


La maggior parte degli americani non comprende il funzionamento, o il non funzionamento, delle Nazioni Unite, preferendo pensare che si tratti di una sorta di società di dibattito in cui i 193 Paesi membri che rappresentano la comunità mondiale possono sfogarsi su questioni su cui raramente hanno il controllo. Tuttavia, nonostante il fiume di parole e la mancanza di un vero programma, è sempre interessante guardare e ascoltare la riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si tiene a New York nel mese di settembre. L’incontro di quest’anno è stato particolarmente interessante, in quanto si è svolto in concomitanza con una grande guerra nell’Europa dell’Est, con le turbolenze politiche in Africa e con le crescenti tensioni con la Cina. Inoltre, si sono sentiti i rumori di un nuovo movimento economico globale emergente, il cosiddetto BRICS, che si sta sviluppando come campione di una sfida monetaria mondiale multipolare al sistema monetario e bancario internazionale statunitense ed europeo dominato dal dollaro.

Con l’unione economica si assiste anche a un riallineamento politico, con la Cina che rafforza i suoi legami con il mondo in via di sviluppo e la Russia che stringe accordi di difesa con l’Iran. Il presidente Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin si incontreranno a Pechino alla fine del mese per discutere di problemi comuni. E, come di consueto, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è presentato per sfogare la sua ostilità nei confronti dell’Iran, chiedendo che il presunto “programma nucleare” del Paese venga affrontato militarmente e prima lo si fa meglio è, proprio come sostiene da vent’anni a questa parte.

In effetti, durante l’incontro di quest’anno diversi retroscena lo hanno reso più che normalmente interessante. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky sperava di trasformare l’incontro in una festa dell’odio anti-russo ma, nonostante le numerose lamentele per l’attacco di Mosca all’Ucraina provenienti dagli Stati baltici e da altri Paesi, il terreno continua sfuggire sotto i piedi di Zelensky per le preoccupazioni che la guerra sia diventata un pozzo di denaro senza via d’uscita che potrebbe facilmente degenerare in uno scambio nucleare. Parlando ad una sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Zelensky si è ridotto a criticare aspramente la stessa ONU per non essere riuscita a prevenire o risolvere i conflitti, prima di chiedere che a Mosca venga tolto il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza. Zelensky, con la voce che si alzava per la rabbia, ha lamentato come “sia impossibile fermare la guerra perché tutte le azioni hanno il veto dell’aggressore“. Gli osservatori hanno notato subito che la denuncia di Zelensky non ha aiutato la sua causa. Sebbene in passato siano state avanzate richieste di riforma delle Nazioni Unite, anche per quanto riguarda il potere di veto, l’esistenza del veto per un numero limitato di grandi potenze post- 1945 è stata l’unica ragione che ha reso possibile creare le Nazioni Unite.

Zelensky ha anche danneggiato la sua posizione quando ha affermato che, sebbene i rifugiati ucraini in Europa si siano “comportati bene… e sono grati” a coloro che hanno dato loro rifugio, non sarebbe una “buona storia” per l’Europa se una sconfitta ucraina “spingesse il popolo in un angolo“. I critici hanno ragionevolmente visto la sconfitta come una minaccia di possibili disordini che producono terrorismo interno e una possibile insurrezione interna incontrollabile da qualsiasi governo ucraino sopravviva alla sconfitta. Tali disordini potrebbero coinvolgere i milioni di rifugiati ucraini senza casa e senza lavoro già presenti in altre nazioni europee, se Zelensky non riceverà tutto il sostegno che apparentemente ritiene gli sia dovuto.

Il messaggio effettivo di Zelensky all’Assemblea Generale non è stato così incendiario e impulsivo come le altre sue interazioni durante la visita, ma non ha offerto molto di nuovo. Secondo quanto riferito, ha ricevuto un “caloroso benvenuto” da parte dei presenti, ma “ha tenuto il suo discorso in una sala mezza piena, con molte delegazioni che si sono rifiutate di presentarsi e di ascoltare ciò che aveva da dire“. Ha avvertito i presenti che “l’obiettivo [della Russia] nell’attuale guerra contro l’Ucraina è quello di trasformare la nostra terra, il nostro popolo, le nostre vite, le nostre risorse in un’arma contro di voi, contro l’ordine internazionale basato sulle regole. Dobbiamo fermarlo. Dobbiamo agire uniti per sconfiggere l’aggressore“. Zelensky ha esagerato quando ha definito la Russia e i russi “malvagi” e “terroristi” e li ha accusati di aver compiuto un “genocidio” contro l’Ucraina. Il Ministro degli Esteri russo Lavrov ha risposto ai commenti del Presidente Joe Biden e di Zelensky ribaltando l’argomento e osservando che sono gli Stati Uniti e i loro “burattini” della NATO che “stanno già facendo la guerra contro di noi“.

Le frustrazioni di Zelensky si sono riversate a Washington il giorno seguente, dove ha incontrato sia Biden che alcuni membri del Congresso, oltre a fare un salto al Pentagono e lasciare dei fiori al Memoriale Nazionale del Pentagono dell’11 settembre ad Arlington, in Virginia. L’incontro alla Casa Bianca con il Presidente è andato relativamente bene, con l’annuncio di un nuovo pacchetto di aiuti in preparazione che comprende “significative capacità di difesa aerea” e, secondo un rapporto, anche alcuni dei tanto richiesti sistemi missilistici a lungo raggio ATACMS. Tuttavia, con suo evidente disappunto, Zelensky non ha ricevuto un’accoglienza da eroe come l’anno scorso. Ha incontrato privatamente Kevin McCarthy, presidente della Camera, e molti altri falchi del GOP (Great Old Party, il partito repubblicano, N.d.T.) che saranno determinanti per l’approvazione di qualsiasi aiuto, nonché i senatori Mitch McConnell e Chuck Schumer che hanno promesso di essere “dalla sua parte“. McCarthy ha chiesto audacemente di cosa avesse bisogno Zelensky per vincere la guerra e di fornire ai legislatori “una visione di un piano per la vittoria“.

Tuttavia, sembra che molti repubblicani conservatori e alcuni democratici progressisti siano stufi della guerra e preoccupati per la mancanza di responsabilità unita al livello fin troppo evidente di corruzione all’interno del governo ucraino. Alcuni esponenti del Partito Repubblicano hanno proposto di separare i fondi per l’Ucraina dagli altri stanziamenti per la difesa, richiedendo un voto separato, e altre proposte della Casa Bianca per garantire i fondi anche in caso di blocco delle attività amministrative del governo. Ci si chiede se qualcuno abbia avuto il coraggio di domandare a Zelensky quante ville possiede in Israele, Europa e Stati Uniti, ma questo è proprio il tipo di storia che si sta scrivendo sempre più spesso sul comico ucraino diventato eroe di guerra, a dimostrazione del fatto che l’opinione pubblica e persino i media si sono stancati della farsa. Un continuo flusso di denaro multimiliardario, visto da Joe Biden come necessario per mantenere la guerra fino alle elezioni del 2024 per rivendicare la sua politica, è ancora probabile, ma non è più una certezza.

Altri due resoconti dei media suggeriscono che l’insoddisfazione nei confronti di Zelensky e della guerra sta facendo breccia nell’autoimposta narrazione accettabile sul conflitto, secondo cui Vladimir Putin è un aggressore senza alcuna reale provocazione da parte di Kiev, un despota e un mostro umano. Uno di questi è arrivato a sorpresa dal New York Times e sembra essere una fuga di notizie dalla Casa Bianca o dal Pentagono sull’attacco missilistico del 6 settembre contro il villaggio ucraino di Kostiantynivka, che ha causato almeno 18 morti. L’attacco è stato subito etichettato da Zelensky come un crimine di guerra compiuto da “terroristi” russi, cui hanno fatto eco i media statunitensi, ma un’indagine, presumibilmente condotta dall’esercito e dall’intelligence degli Stati Uniti con l’ausilio di metodi satellitari e altri metodi tecnici, ha ora stabilito che il missile è stato lanciato dall’Ucraina. Si tratta di un caso simile a quello dell’attacco missilistico che ha colpito la Polonia nel novembre 2022, anch’esso imputato da Zelensky alla Russia, ma che si è rivelato provenire dall’Ucraina; entrambi gli incidenti riflettono quanto Zelensky sia disposto a mentire e imbrogliare per ottenere l’intervento della NATO e degli Stati Uniti in una guerra su larga scala con la Russia, che potrebbe facilmente sfociare nel nucleare.

L’altra notizia emersa è che la Polonia non fornirà più armi all’Ucraina, in parte perché sta costruendo le proprie difese e anche per i tentativi ucraini di inondare il mercato agricolo polacco con grano a basso costo e di bassa qualità che non può vendere altrove. Descrivere l’azione polacca come deludente per Zelensky sarebbe un eufemismo, ma è un’ulteriore indicazione del fatto che molti ex alleati vedono ora l’Ucraina come una causa persa e guardano alla propria sicurezza nazionale e ai propri interessi economici. Entrambe le notizie sono state pubblicate, tra l’altro, mentre Zelensky si trovava negli Stati Uniti con il cappello in mano, e si deve ritenere che la tempistica sia stata deliberata per danneggiare la credibilità del presidente ucraino in concomitanza con la visita all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il viaggio a Washington.

Il viaggio di Zelensky in Nord America si è concluso a Ottawa, dove pare abbia recuperato un po’ della sua spavalderia durante un discorso al governo e al parlamento canadese che ha ottenuto applausi a scena aperta. O almeno così sembrava. I canadesi hanno presentato Yaroslav Hunka, un 98enne veterano ungherese della Seconda Guerra Mondiale che aveva combattuto contro i russi ed era emigrato in Canada dopo la fine della guerra. Anche lui è stato applaudito dai politici canadesi riuniti. L’intenzione era chiaramente quella di presentare la storia di un ucraino coraggioso che ha combattuto valorosamente per liberare il suo Paese dalla dominazione russa, ma non è andata proprio così. Per combattere i russi era necessario far parte delle forze armate della Germania nazista e si è scoperto che Hunka aveva prestato servizio nella 14ª Divisione Granatieri delle Waffen-SS, nota anche come Divisione Galizia, un’unità di volontari composta per la maggior parte da ucraini di etnia tedesca e comandata da ufficiali tedeschi, a cui sono state attribuite, a torto o a ragione, una serie di atrocità belliche contro russi, polacchi ed ebrei. I soldati della divisione giurarono personalmente fedeltà ad Adolf Hitler. Il giudizio erroneo del governo canadese, che ha esibito Hunka senza indagare a fondo sulla sua storia, ha suscitato un enorme clamore in Canada, con le dimissioni del capo del parlamento, le difficoltà politiche del primo ministro Justin Trudeau e la richiesta del governo polacco di estradare Hunka per un processo per crimini di guerra. C’è qualche sospetto che Zelensky possa essere stato determinante nell’organizzare l’affare, nella speranza che avrebbe rafforzato il sostegno canadese alla sua causa. Invece, ha ottenuto il risultato opposto e Zelensky è tornato a casa con poco o nulla di compiuto.

Zelensky deve anche affrontare a casa una guerra che sta perdendo in modo decisivo e un Paese in rovina. Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Joe Biden ha chiarito che i negoziati con la Russia per porre fine ai combattimenti in Ucraina non saranno presi in considerazione. Joe si è anche impegnato a sostenere il conflitto finché non sarà la Russia ad arrendersi: “Gli Stati Uniti, insieme ai nostri alleati e partner in tutto il mondo, continueranno a stare al fianco del coraggioso popolo ucraino che difende la propria sovranità e integrità territoriale e la propria libertà… La Russia è l’unica responsabile della [guerra]. Solo la Russia ha il potere di porre fine a questa guerra immediatamente. Ed è solo la Russia a ostacolare la pace, perché il prezzo della Russia per la pace è la capitolazione dell’Ucraina, del suo territorio e dei suoi figli“. In breve, il discorso è stato molto simile a quello di Joe Biden e della banda di farabutti e truffatori che ha radunato intorno a sé alla Casa Bianca, con una forte dose di bellicosità, ma con una scarsa pianificazione o strategie serie per rendere il mondo e questo Paese un posto migliore. Joe vorrebbe che la guerra continuasse e che la sua fine fosse molto più vicina alle elezioni americane, dove spera di potersi identificare come un leader forte e un “vincitore” che affronta i nemici dell’America. Buona fortuna Joe.

*Philip Giraldi (classe 1946) è un editorialista americano, commentatore e consulente di sicurezza. È direttore esecutivo del Council for the National Interest, ruolo che ricopre dal 2010. In precedenza ha lavorato come specialista di intelligence per la CIA, prima di passare alla consulenza privata. Giraldi è stato criticato per il suo presunto antisemitismo e la negazione dell’Olocausto e ha affermato che “gli ebrei americani che non hanno un briciolo di integrità” (sionisti) quando appaiono in televisione dovrebbero essere etichettati “come un’etichetta di avvertimento su una bottiglia di veleno per topi“.

Link: https://www.unz.com/pgiraldi/zelensky-should-have-stayed-home/

Scelto e tradotto (IMC) da CptHook per ComeDonChisciotte

https://comedonchisciotte.org/zelensky-avrebbe-dovuto-rimanere-a-casa/

lunedì 26 aprile 2021

Epurati i Caschi Blu del Tigray: E l’Onu fa finta di non sapere. - Fanny Pigeaud

 

Le Nazioni Unite sono al centro di uno scandalo in Etiopia. Da settimane l’Onu allerta sui massacri nella regione del Tigray, dove l’esercito federale di Addis Abeba e l’esercito eritreo si battono contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (FLPT). Ma, al tempo stesso, l’organizzazione sta assistendo in silenzio all’“epurazione”, all’interno dei suoi stessi contingenti, dei caschi blu etiopi, originari del Tigray, che vengono arrestati dai soldati di Addis Abeba e inviati nel loro paese, dove alcuni di loro sarebbero stati torturati e uccisi. “Tacendo, l’Onu sta violando il suo dovere di promuovere e tutelare i diritti umani”, osserva un dipendente delle Nazioni Unite. Diversi mesi fa, l’Onu ha creato una task force per far fronte a questa situazione, ma è evidente che non sta dando risultati. All’interno dell’organizzazione si avverte un profondo imbarazzo.

Il segretariato generale di New York, di solito reattivo, ha impiegato una settimana a rispondere alle nostre domande. Diversi scambi di mail e diverse riunioni si devono essere tenute in quei giorni per decidere quali elementi rendere pubblici e quali tenere nascosti. Alla fine l’Onu non ha confermato le nostre informazioni, ma non le ha neanche smentite, limitandosi a fornire dettagli noti e ricordando, con le solite formule di rito, i principi generali dell’istituzione. “Il caso del presunto maltrattamento di caschi blu originari del Tigray è grave e preoccupante”, è stato ammesso da un portavoce del dipartimento per le operazioni di pace. Per il resto i fatti sono stati negati o minimizzati. Tutto è iniziato con l’offensiva militare lanciata il 4 novembre 2020 dal governo centrale dell’Etiopia contro le forze del FLPT, che dirige il Tigray. Quasi immediatamente, alcuni caschi blu originari del Tigray sono stati brutalmente allontanati dai contingenti etiopi della UNMIS, la missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan, il cui comando militare è assicurato da un etiope e che conta tre battaglioni etiopi, circa 2.000 uomini. La stessa cosa è successa all’interno della UNISFA, la missione Onu per la regione dell’Abyei, rivendicata dal Sudan e dal Sud Sudan, e il cui contingente di caschi blu è costituito esclusivamente da etiopi (4.500 uomini). A fine novembre 2020, la rivista americana Foreign Policy aveva già pubblicato alcuni elementi di un documento riservato delle Nazioni Unite, indicando che quattro ufficiali originari del Tigray della UNMIS erano stati forzati a rientrare in Etiopia. Si precisava che “tutti gli ufficiali e soldati del Tigray” erano sistematicamente fermati e posti in detenzione al loro arrivo a Addis Abeba. Alcuni sarebbero stati vittime di torture e uccisi. “Stiamo verificando i fatti”, aveva detto all’epoca un portavoce delle Nazioni Unite. Oggi, a cinque mesi da quella pubblicazione, la UNMIS declina ogni responsabilità: “Il mandato della UNMIS si limita al Sud Sudan. L’Etiopia è sola responsabile della condotta delle sue truppe”, ci è stato risposto. Nel frattempo, il numero due della UNISFA, il generale Negassi Tikue Lewte, originario del Tigray e sotto contratto con le Nazioni Unite, ha lasciato all’improvviso il suo incarico nel novembre 2020 e non si è più visto. Un ufficiale etiope ha spiegato al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che il generale Lewte era partito in vacanza e che aveva deciso di non tornare ad Abyei. Ha poi precisato che per Addis Abeba era un “disertore”.

I responsabili delle Nazioni Unite si sono resi conto che l’Etiopia nascondeva delle informazioni gravi. “Il generale Lewte ha chiesto un permesso nel novembre 2020, che gli è stato accordato. Da allora non si è più presentato al lavoro. Siamo molto preoccupati per la sua sicurezza”, sostiene oggi l’ONU. Il generale è ancora vivo? Altri caschi blu avrebbero subito la stessa sorte negli ultimi mesi. Alcuni sarebbero stati arrestati mentre partecipavano alla missione Onu e trasferiti su aerei delle Nazioni Unite a Juba, la capitale del Sud Sudan, prima di essere imbarcati su aerei etiopi. L’ONU non ha voluto rispondere su questo punto. “Stiamo lavorando attivamente sul caso, ma per motivi di riservatezza e sicurezza non possiamo fornire ulteriori dettagli”, ci hanno risposto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, che ha sede a Ginevra. Da New York confermano che “tra il 13 e il 22 novembre 2020 quattro caschi blu etiopi sono stati trasferiti in Etiopia senza un’adeguata coordinazione con la UNMIS”. Il 22 febbraio, dei caschi blu del Tigray di un contingente in partenza per Addis Abeba hanno rifiutato di imbarcarsi all’aeroporto di Juba. È scoppiata una violenta rissa. Secondo le nostre informazioni, alcuni caschi blu sono stati obbligati a salire sull’aereo. Altri tredici sono riusciti a restare a Juba. Un quotidiano locale ha pubblicato le loro foto. Alcuni erano feriti. Al giornale hanno spiegato che temevano di essere vittime di persecuzioni in Etiopia e di aver chiesto l’asilo. La UNMIS ha confermato che le autorità del Sud Sudan si sono fatte carico dei tredici soldati, con l’appoggio dell’Alto Commissario per i rifugiati, ma quest’ultimo non ha fornito dettagli. Secondo una fonte informata, l’Etiopia avrebbe poi inviato una lettera ufficiale alla UNMIS, dicendo in sostanza che avrebbe ritrovato quei caschi blu, che li avrebbe rimpatriati e processati e che meritavano la pena di morte. L’ONU non ha né confermato né negato l’esistenza di questa lettera. Dopo questo episodio, un responsabile militare etiope ha accusato i soldati che si erano rifiutati di imbarcarsi di essere dei “traditori sostenuti dall’Alto commissariato per i rifugiati e dai cittadini del Tigray che lavorano alle Nazioni Unite” e di militare per il FLPT. “I caschi blu rimpatriati con la forza sono molti di più di quanto sia stato detto ufficialmente, prima e dopo il 22 febbraio 2021”, sostiene una delle nostre fonti, aggiungendo che due caschi blu del Tigray erano riusciti, la notte prima degli incidenti allo scalo di Juba, a fuggire dal campo dove erano detenuti. E non è tutto. Almeno un civile etiope sotto contratto con la UNMIS è dovuto fuggire dal Sud Sudan. È grazie a lui che si è potuto capire cosa stava succedendo ai caschi blu del Tigray: è stato lui infatti a tradurre dall’amarico dei messaggi che alcuni caschi blu avevano inviato ai civili della missione, con le foto dei colleghi torturati nei campi dell’Onu.

Quest’uomo, minacciato insieme alla sua famiglia dal governo etiope, è ormai costretto a nascondersi. L’ONU non gli ha offerto nessuna protezione, limitandosi a concedergli un congedo a tempo indeterminato. “Quest’uomo rischia di trovarsi in una situazione ancora più complicata se l’Onu dovesse decidere di rompere il suo contratto”, secondo uno dei colleghi. “L’ONU, che dovrebbe essere in prima linea nella difesa dei diritti umani, può continuare a limitarsi a esprimere preoccupazione e, in tutta coscienza, a lavorare con gli etiopi? Non si può fare nient’altro?”, si chiedono alcuni dipendenti dell’organizzazione. All’interno della task force, alcuni membri vorrebbero che l’Onu adottasse una posizione forte, anche se Addis Abeba dovesse ritirarsi dalle operazioni di pace. Altri preferiscono mantenere un basso profilo, dal momento che l’Etiopia fornisce all’Onu caschi blu in grande quantità, anche se altri Stati sono candidati a partecipare alle operazioni di pace, una fonte di reddito interessante per loro. L’alto commissariato per i diritti umani non conferma l’esistenza di conflitti interni: l’Onu e le sue agenzie stanno “lavorando di concerto” su questo fascicolo, viene riferito. Il caso non riguarda solo le Nazioni Unite. Diverse centinaia di caschi blu etiopi originari del Tigray in missione per l’Unione africana in Somalia sono stati trasferiti con la forza nel loro paese alla fine del 2020. Che fine hanno fatto? Il portavoce del presidente della Commissione dell’Unione africana, la cui sede è a Addis Abeba, e che nel novembre 2020 ha licenziato il suo capo della sicurezza, un etiope, su richiesta delle autorità etiopi, non ha risposto alle nostre domande.

(Traduzione di Luana De Micco)

ILFQ

sabato 5 dicembre 2015

Isis, Usa e Russia negoziano risoluzione Onu congiunta: “Giro di vite contro chi fa affari con il Califfato”.

Isis, Usa e Russia negoziano risoluzione Onu congiunta: “Giro di vite contro chi fa affari con il Califfato”

La bozza sarà discussa il 17 dicembre. Intanto l'Iran corrobora le affermazioni di Putin sul coinvolgimento della Turchia nel commercio di petrolio gestito da Isis: "Abbiamo le prove e siamo pronti a metterle a disposizione di Ankara", ha detto il segretario del Consiglio per il discernimento Mohsen Rezai.

Colpire l’Isis alla radice, tagliandogli l’accesso alle fonti di finanziamento. E’ quello che intendono fare gli Stati Uniti e la Russia, che stanno negoziando una nuova risoluzione ad hoc da presentare al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La bozza congiunta, riferisce il New York Times, sarà discussa il 17 dicembre in una riunione con i ministri delle Finanze dei 15 membri del Consiglio. L’obiettivo è appunto un giro di vite contro chi commercia con lo Stato islamico e il provvedimento si ispira a quello approvato nel 1999 per colpire le finanze di al Qaida e di quello che all’epoca era il suo leader, Osama bin Laden. Una misura analoga per colpire le finanze del Califfato è stata approvata a febbraio, ma la Russia, che ha il potere di veto in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha lamentato che viene continuamente violata.
“Tagliare fuori l’Isis dal sistema finanziario internazionale e interrompere il suo finanziamento sono fondamentali per lottare efficacemente contro questo gruppo terroristico violento”, ha detto il segretario del Tesoro Usa, Jacob Lew. L’ambasciatore russo al Palazzo di vetro, Vitaly Churkin, ha spiegato che Mosca vuole che la nuova misura includa un provvedimento che richieda all’ufficio del segretario generale di denunciare chi viola i divieti. Ma non ha voluto fornire altri dettagli. “Abbiamo deciso di fare una bozza in comune per un giro di vite contro chi fa affari con l’Isis”, ha detto Churkin, scrive il Nyt. Secondo l’ambasciatore russo, tale misura “inasprirebbe la posizione della comunità internazionale sulla nostra lotta ai terroristi”. Le fonti di ricavi dello Stato islamico sono ampiamente note: per prima cosa il commercio di petrolio. Al centro peraltro di un continuo scambio di accuse tra Mosca e la Turchia: secondo Vladimir Putin Ankara è il principale consumatore di petrolio dello Stato Islamico e la famiglia del presidente Tayyip Recep Erdogan è coinvolta nel traffico di greggio proveniente dalla Siria.
Iran: “Pronti a mettere a disposizione prove del commercio di petrolio dell’Isis in Turchia” - Proprio sabato, a corroborare le affermazioni del governo russo sono arrivate le rivelazioni dell’Iran: “Se il governo turco non ha informazioni sul commercio di petrolio da parte dell’Isis nel suo Paese, siamo pronti a metterle a sua disposizione”, ha detto il segretario del Consiglio per il discernimento (organo deputato a risolvere le controversie tra Parlamento e Consiglio dei Gardiani) Mohsen Rezai, citato dall’Irna. I consiglieri militari iraniani in Siria, ha proseguito, “hanno fatto foto e filmato tutto il percorso dei camion che portano il petrolio dell’Isis in Turchia, prove che possono essere rese pubbliche”. “Importanti novità sulla cacciata dell’Isis e dei gruppi Takfiri saranno rese note subito”, ha detto ancora Rezai, politico conservatore già candidato alle presidenziali, di recente rientrato negli alti ranghi delle Guardie della rivoluzione. Rezai ha anche sottolineato che i Paesi impegnati nella lotta contro il terrorismo dovrebbero mantenere la calma e concentrare tutte le energie sulla guerra all’Isis: un implicito riferimento alle recenti tensioni tra Russia e Turchia, ma anche al ruolo di mediazione tra i due Paesi che l’Iran vorrebbe svolgere.
Iraq a Ankara: “Suoi soldati nel nostro terr​itorio, violazione della sovranità” - Per il presidente turco Erdogan si è aperto intanto un altro fronte di tensione diplomatica: il premier dell’Iraq, Haidar al-Abadi, ha chiesto alla Turchia di ritirare i suoi soldati dal territorio iracheno, dopo che ieri un primo contingente di soldati turchi è arrivato vicino alla città di Mossul, nel nord del Paese. Al-Abadi ha definito l’ingresso delle forze turche nella provincia di Ninive, la cui capitale è appunto Mossul, una “violazione della sovranità irachena”. Per Ankara “150 soldati sono in missione di addestramento“, assieme a 25 carri armati, ma fonti Usa sostengono che i militari sono fino a 1.200. Mossul è stata conquistata dall’Isis nel giugno del 2014. La disfatta dell’esercito iracheno ha spinto Abadi a cambiare circa 300 comandanti. L’ex premier Nuri al-Maliki è stato incriminato da un’apposita commissione d’inchiesta del parlamento di Baghdad per la caduta della città.

martedì 13 gennaio 2015

Scopre miliziani ISIS che entrano in Siria nascosti in camion ONU. Uccisa giornalista.


1 NOVEMBRE – Serena Shim  era una giornalista americana di origini libanesi. Lavorava per Press Tv Istanbul. E’ morta, ufficialmente, in un drammatico incidente stradale. 
30 anni e madre di 2 figli, dalla Turchia la giornalista realizzava servizi sui combattimenti a Kobani, terza città per grandezza della Siria, che da giorni è teatro di scontri tra le forze militari curde e i djihadisti dello Stato islamico.
Dopo aver terminato un reportage a Suruc, una località turca vicino alla frontiera siriana che accoglie migliaia di rifugiati, la giornalista si era messa in viaggio. Un camion aveva centrato frontalmente la sua vettura e la donna era morta sul colpo. Il cameraman che l’accompagnava è rimasto ferito.
Press TV ha diffuso un messaggio della giornalista, dove questa aveva espresso, pochi giorni prima di morire, il timore di essere arrestata dai servizi segreti turchi, che l’avevano accusata di essere una spia, in quanto sosteneva che il governo di Ankara avesse legami con lo Stato islamico.
Aveva parlato dell’infiltrazione di guerriglieri in Siria attraverso la frontiera turca e in diretta televisiva aveva affermato di avere le immagini di questi miliziani che entravano in territorio siriano, nascosti nei camion di organizzazioni umanitarie e del programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.
Riguardo all’accusa di spionaggio, la giornalista si era difesa : “Sono molto sorpresa di questa accusa. Ho pensato di parlare ai servizi segreti turchi per dir loro che mi limito a fare il mio lavoro. Sono abbastanza preoccupata, perchè in Turchia i giornalisti rischiano facilmente la prigione.”
Il direttore delle informazioni di Press TV, Hamid Reza Emadi, lunedì ha respinto la teoria dell’incidente d’auto : “Pensiamo che il governo turco debba essere considerato responsabile di fronte alla comunità internazionale. Si deve far luce su quanto è davvero accaduto.”
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martedì 27 agosto 2013

Siria, Usa verso attacco anche senza ok Onu. Cancellato vertice con Mosca.

Siria, Usa verso attacco anche senza ok Onu. Cancellato vertice con Mosca


Obama, secondo quanto anticipato dal Washington Post, valuta un intervento a Damasco a prescindere dal via libera del Consiglio di sicurezza, dato il veto certo della Russia. Ma l'Iran avverte: l'azione avrebbe “gravi conseguenze” in “tutta la regione mediorientale”.

Un attacco limitato, della durata di “non più di due giorni”, per fermare la guerra in Siria. Il presidente Usa Barack Obama, a fronte degli scontri a Damasco, sta valutando anche questa opzione per rispondere all’uso di armi chimiche del regime di Bashar al-Assad. Un intervento da portare a termine anche senza il via libera dell’Onu, dato il veto certo della Russia. E proprio il sicuro no di Mosca ha spinto gli Stati Uniti ad annullare il vertice bilaterale tra i due Paesi. L’Iran spinge però verso una soluzione politica e si augura che i “leader europei” prendano “sagge decisioni” evitando l’attacco che, spiegano da Teheran, avrebbe “gravi conseguenze” in “tutta la regione mediorientale”.
Gli Stati Uniti intanto proseguono le consultazioni con gli alleati e avrebbero abbandonato le speranze di ottenere un’autorizzazione all’azione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, visto che la Russia voterebbe certamente contro. E la tensione tra i due Paesi ha portato Washington ad annullare l’incontro all’Aia per la discussione della convocazione della conferenza di pace sulla Siria. La tempistica dell’attacco – afferma il Washington Post – dipenderebbe da tre fattori: il completamento del rapporto dell’intelligence che determini la colpevolezza del regime di Assad, le consultazioni con gli alleati e il Congresso e una giustificazione a intervenire in base alla legge internazionale. Gli avvocati dell’amministrazione starebbero infatti esaminando una possibile giustificazione legale sulla base della violazione delle norme internazionali che vietano l’uso di armi chimiche o una richiesta di assistenza da parte di uno stato vicino, come laTurchia. Nei prossimi giorni le agenzie di intelligence rappresenteranno informazioni che sostengono la tesi dell’uso di gas da parte del governo di Assad, incluse intercettazioni radio e telefoniche fra i comandanti dell’esercito siriano. “Un’azione militare – afferma la stampa americana citando fonti – potrebbe essere ancora evitata in caso di un dietro front del governo di Assad e del governo russo che lo appoggia. Ma le attese che questo possa accadere sono basse”.
Tuttavia, in un’intervista all’emittente al-Manar il ministro dell’Informazione di Damasco, Omran al-Zoubi nega che la Siria abbia utilizzato armi chimiche e ha aggiunto che ”gli Usa non ne hanno alcuna prova”. Nel caso gli ispettori Onu al contrario potessero dimostrarne  l’utilizzo, la responsabilità cadrebbe sulle “bande terroriste”, termine con cui il regime si riferisce ai ribelli. “Qualsiasi aggressione alla Siria è illegittima”, ha precisato al-Zoubi, aggiungendo che “il team Onu incaricato di indagare sull’uso di armi chimiche in Siria non ha ancora completato la sua missione e non ha redatto un rapporto in merito. I siriani – ha concluso – non hanno altra scelta che difendere il loro Paese”.
Sull’ipotesi di un attacco americano, il portavoce iraniano, Abbas Araqchi, ha precisato che le “gravi conseguenze” sarebbero provocate da “qualsiasi azione militare” contro la Siria e ha sottolineato che questo è il momento di essere cauti per evitare che la situazione vada “fuori controllo”: uno sviluppo, ha detto il portavoce iraniano, “che speriamo non accada”. Teheran comunque, ha annunciato Araqchi, farà “del suo meglio” per evitare un conflitto e “speriamo che tutti tornino indietro” alla ricerca di una “soluzione politica”. 

domenica 30 dicembre 2012

Siria, continuano le violenze: 200 morti di cui 23 bambini.


Siria, continuano le violenze: 200 morti di cui 23 bambini


Lakhdar Brahimi, inviato speciale Onu, ha affermato che la “soluzione” del conflitto siriano “deve avvenire nel 2013, possibilmente prima del secondo anniversario della crisi”. Durante una conferenza stampa al Cairo, Brahimi si è detto certo che “una soluzione è ancora possibile anche se la situazione è molto grave e peggiora di giorno in giorno".

Ancora violenza e altre vittime in Siria. C’è stato un nuovo massacro con un bilancio, quello di ieri tra Aleppo e Damasco, di oltre 200 morti di cui 23 bimbi.  Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo l’esercito è tornato a bombardare due quartieri di Homs, dopo aver ripreso ieri parte della città con un’azione che ha lasciato sul terreno altre 12 vittime. Centinaia di civili sarebbero stati uccisi nell’offensiva delle forze governative siriane che ha portato alla riconquista del quartiere di Deir Baalbeth. I residenti sono stati costretti a uscire dalle loro case e concentrati in un impianto petrolchimico dove sono stati giustiziati sommariamente, afferma il gruppo dei comitati di coordinamento locale. Fra le vittime, numerose donne e bambini. 
Lakhdar Brahimi, inviato speciale Onu per la Siria, ha affermato che la “soluzione” del conflitto siriano “deve avvenire nel 2013, possibilmente prima del secondo anniversario della crisi”. Durante una conferenza stampa al Cairo, Brahimi si è detto certo che “una soluzione è ancora possibile anche se la situazione è molto grave e peggiora di giorno in giorno. La crisi siriana è scoppiata nel marzo 2011 con la repressione delle prime rivolte prima di sfociare nel violento conflitto armato. La comunità internazionale può ritrovarsi sull’accordo raggiunto a Ginevra lo scorso giugno. Dico che una soluzione può trovarsi, quest’anno, nel 2013, e, se Dio vuole, prima del secondo anniversario della crisi”, ha detto il diplomatico algerino, durante una conferenza stampa nella sede della Lega Araba, ricordando l’inizio della rivolta, nel marzo 2011. “Una soluzione e’ ancora possibile ma diventa ogni giorno più complicata”. Secondo Brahimi, l’accordo di Ginevra, che prevede la creazione di un governo transitorio, può essere concretizzato dalla comunità internazionale: “Ho discusso questo piano con la Russia e la Siria”, ha detto l’inviato, reduce da una settimana di contatti proprio a Damasco e Mosca. Proprio al termine dei colloqui con la diplomazia russa, sabato, Brahimi ha detto che a Damasco la scelta è tra “l’inferno e la soluzione politica”.