La Suprema corte, chiarisce che il salario minimo fissato per legge non è esente da una verifica del giudice sulla congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione.
La presenza di una legge sul salario legale non può realizzarsi operando un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva, in quanto anche in questo caso occorre muoversi nella cornice dei parametri costituzionali di sufficienza e adeguatezza della retribuzione.
Il nostro ordinamento è ispirato a una nozione della remunerazione non come prezzo di mercato in rapporto alla prestazione di lavoro, ma come retribuzione adeguata e sufficiente per assicurare un tenore di vita dignitoso .
La circostanza che la retribuzione minima sia determinata sulla scorta del contratto collettivo comparativamente più rappresentativo nell’ambito del settore di attività non impedisce, laddove sia dedotto un contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, di allargare l’analisi ad altri parametri concorrenti.
Questa regola si applica, ad avviso della Cassazione (sentenza 27711/ 2023, depositata ieri,) anche nel caso del «salario minimo legale» , quando la determinazione del trattamento economico sia devoluta per legge a uno specifico contratto collettivo.
Il rispetto dei parametri costituzionali opera anche in presenza di una disciplina legale del salario minimo dove, come avviene per il settore del lavoro in cooperativa (articolo 3, legge 142/2001), è previsto che il lavoratore abbia diritto a un trattamento economico complessivo non inferiore ai livelli minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale “leader” di settore.
La Cassazione perviene a questa soluzione osservando che l’assetto costituzionale vigente impedisce «una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario».
Se, in prima battuta, il rispetto dei parametri costituzionali sulla giusta retribuzione richiede di sottoporli a una verifica di conformità sulla base del contratto nazionale di lavoro firmato dalle associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative, come prevede la legge 142/2001, l’eventuale esito negativo impone di allargare l’indagine ad altri parametri concorrenti.
In questo passaggio ritroviamo un elemento di grande interesse perché viene chiarito che il parametro di valutazione non sono solo gli altri contratti collettivi di settori affini, ma anche fonti esterne come gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà (indice Istat) o la soglia di reddito per accedere alla pensione di inabilità.
La Corte di legittimità non fornisce un elenco analitico di parametri alternativi e richiama, tuttavia, alcuni istituti di immediata lettura, tra cui spiccano i dati Uniemens censiti dall’Inps per il salario medio, i valori dell’indennità Naspi, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di riduzione o sospensione dell’attività e altre forme di sostegno al reddito.
Un elemento di forte richiamo è agli indicatori statistici individuati dalla Direttiva Ue sui salari minimi adeguati (2022/2041), di cui la Cassazione sottolinea l’obiettivo di perseguire la dignità del lavoro, l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà.
In un contesto sociale influenzato da severe dinamiche inflazionistiche e da cronici ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi emerge una situazione di lavoro povero, declinato dalla Cassazione come «povertà nonostante il lavoro», che i Ccnl non sono sempre in grado di intercettare.
È su questo piano che agisce la Suprema corte, prevedendo che il salario minimo fissato per legge non è esente da una verifica di congruità rispetto ai parametri costituzionali della giusta retribuzione.