Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 11 marzo 2016
TRIPOLI E MISURATA IL VIETNAM DI RENZI. - Mara Maldo
La Libia può diventare il Vietnam del governo di Matteo Renzi? Il processo politico tarda a sbloccarsi. Sebbene il 15 febbraio sia stata presentata da al Serraj la lista dei ministri del governo di unità nazionale libico — che, rispetto alla precedente, è più snella, prevede 18 elementi (13 "ministri" e cinque "ministri di Stato") e nessun cambiamento per i dicasteri della Difesa e dell'Interno, un nome nuovo per gli Esteri, Taher Sayala — di fronte alla difficoltà di ottenere una pronuncia favorevole del Parlamento di Tobruk, emerge la proposta italiana, ora all'esame dell'Onu dal 2 marzo, di dare rilievo alle 101 firme dei parlamentari di Tobruk senza passare per un voto formale dello stesso Parlamento.
Mentre gli alleati confermano sul piano diplomatico un ruolo di leadership per l'Italia nella futura missione Liam (Libyan international assistance mission), alcune fughe di notizie statunitensi sembrano indicare il desiderio di Washington di coinvolgere l'Italia in un ruolo maggiormente attivo nella guerra all'Isis — ruolo che il governo Renzi ha finora respinto, rifiutando di armare i quattro Tornado schierati in Iraq.
Così, il 24 febbraio il Wall Street Journal ha riferito che il governo italiano ha autorizzato gli Stati Uniti ad impiegare i velivoli teleguidati Reaper dislocati nella base di Sigonella nei raid in Libia, ma solo per effettuare "missioni difensive". Come riportato dalla stampa italiana, il presidente del Consiglio Renzi ha chiarito che le autorizzazioni per l'utilizzo della base di Sigonella per la partenza dei droni anti-terrorismo avverranno "caso per caso", precisando che "la priorità è la risposta diplomatica ma se abbiamo prove evidenti che si stanno preparando attentati l'Italia fa la sua parte".
Dopo l'articolo del Wall Street Journal, il ministero della Difesa italiano ha confermato la notizia dell'accordo, sottolineando però che "l'attività non è comunque ancora iniziata e dovrà essere sottoposta, di volta in volta, all'autorizzazione del governo italiano che darà luce verde solo a missioni a scopo difensivo".
Da segnalare l'opinione del gen. Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa, affidata alle pagine del Corriere della Sera il 24 febbraio, che ritiene che "sul piano strategico non vale la pena di inseguire il miraggio di un governo unitario... meglio lasciar perdere... La soluzione migliore per la Libia sarebbe la divisione in tre parti: la Cirenaica, la Tripolitania e la zona meridionale dove le tribù sono armate le une contro le altre".
Tesi esplicitata ulteriormente nella stessa data su Affari internazionali on line: "Mi piacerebbe però che l'attuale situazione di apparente stallo inducesse a una riflessione di più ampio respiro: davvero ci conviene puntare a una rappresentanza politica unitaria della Libia, che in ogni caso sarebbe afflitta da fragilità endemiche o non è forse il caso di esaminare l'opportunità di prendere atto che le diverse anime di quel vastissimo territorio possono ambire a forme statuali più articolate, ad esempio con un ritorno alle divisioni storiche di Cirenaica e Tripolitania (ed eventualmente Fezzan)?".
Secondo il Wall Street Journal l'amministrazione Obama sta tentando di persuadere il governo italiano ad autorizzare l'uso dei droni anche in operazioni offensive, come quella condotta dagli Stati Uniti il 19 febbraio contro il campo dell'Isis a Sabrata (Tripolitania occidentale) in cui sono morti una quarantina di miliziani incluso Noureddine Chouchane, responsabile degli attentati dell'anno scorso in Tunisia, al museo del Bardo di Tunisi e sulla spiaggia di Sousse. L'incursione è stata effettuata da cacciabombardieri F-15E decollati da Lakeneath, in Gran Bretagna, perché Roma ha rifiutato al Pentagono l'autorizzazione a impiegare i droni armati Reaper basati a Sigonella insieme ai ricognitori strategici teleguidati Global Hawk.
Secondo quanto riferisce il giornale statunitense, le riserve del governo Renzi ad autorizzare l'impiego su vasta scala dei droni statunitensi sono legate al timore di scatenare l'opposizione interna, specialmente in caso di vittime civili.
Il Sole 24 Ore fa notare che è "Difficile però, in termini tecnico-operativi e non politici, distinguere tra missioni difensive e offensive. Ad esempio, un intervento armato dei droni a difesa di forze speciali americane o alleate schierate in Libia potrebbe venire considerato difensivo ma già la presenza di truppe e mezzi militari in un Paese straniero costituisce di fatto un'azione offensiva".
Il Sole 24 Ore fa notare anche che per la seconda volta in pochi mesi gli Stati Uniti anticipano informazioni legate al ruolo dell'Italia contro l'Isis che Roma evidentemente non avrebbe voluto pubblicizzare o avrebbe preferito annunciare successivamente.
Nel dicembre scorso Barack Obama riferì pubblicamente della missione delle truppe italiane in Iraq a difesa della diga di Mosul di cui aveva parlato con Renzi ma che non era stata definita e ufficializzata. Stessa tecnica utilizzata quando fonti dell'amministrazione hanno riferito al WSJ del parziale via libera di Roma all'impiego dei droni basati a Sigonella sulla Libia.
Il 25 febbraio 2016 il Consiglio supremo di difesa, presieduto dal presidente della Repubblica Mattarella, "ha attentamente valutato la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del Governo di Accordo Nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche", come risulta dal comunicato diffuso dal Quirinale.
Ancora il Wall Street Journal ha rivelato il 29 febbraio la notizia dell'asserita creazione a Roma di un centro di coordinamento delle operazioni speciali allestito dai militari degli Stati Uniti e alleati. Mentre statunitensi, britannici e francesi hanno già inviato forze speciali sul terreno e stanno già conducendo operazioni in Libia che rispondono ai rispettivi interessi nazionali, "l'attribuzione all'Italia del comando di una missione di supporto e addestramento delle forze libiche avrebbe un peso marginale rispetto alle operazioni belliche messe a segno da francesi, britannici e statunitensi".
Sembra però che l'Italia non resti del tutto tagliata fuori dalle operazioni sul terreno, in quanto, con DPCM del 10 febbraio 2016 — secretato, ma in parte reso noto dalla stampa nazionale in data 3 marzo 2016 — è stato disciplinato il rapporto tra Aise e Forze speciali della Difesa, prevedendo — a quanto riferito dalla stampa — che il presidente del Consiglio, avvalendosi del Dis, possa autorizzare l'Aise ad adottare misure di contrasto e di intelligence anche con la collaborazione tecnica ed operativa delle Forze speciali della Difesa, alle quali si estendono le garanzie funzionali di cui godono gli agenti dell'Aise — come già previsto dall'art. 7-bis, comma 3, dell'ultimo decreto missioni.
Tale ultima disposizione — richiamando quanto previsto dalla legge 124/2007, articolo 17, comma 7 — in particolare prevede che quando, per particolari condizioni di fatto e per eccezionali necessità, le attività d'intelligence sono state svolte da persone non addette ai servizi di informazione per la sicurezza, in concorso con uno o più dipendenti dei servizi di informazione per la sicurezza, e risulta che il ricorso alla loro opera da parte dei servizi di informazione per la sicurezza era indispensabile ed era stato autorizzato secondo le procedure previste dall'art. 18 della medesima legge, tali persone sono equiparate, ai fini dell'applicazione della speciale causa di giustificazione, al personale dei servizi di informazione per la sicurezza.
Secondo quanto riportato dal Corriere, delle missioni di unità speciali a fini di intelligence eventualmente disposte dal presidente del Consiglio, il Parlamento verrà informato con atti scritti e secretati, tramite il Copasir.
A seguito del citato DPCM, sarebbero state inviate tre squadre di circa 12-13 unità di personale dell'Aise ciascuna (circa 40 unità) a cui si aggiungerebbero nelle prossime ore 50 unità dei paracadutisti del Reggimento Col Moschin.
Frattanto il 3 marzo, relativamente alla diffusione di alcune immagini di vittime di sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, apparentemente riconducibili a occidentali, la Farnesina ha informato che "da tali immagini e tuttora in assenza della disponibilità dei corpi, potrebbe trattarsi di due dei quattro italiani, dipendenti della società di costruzioni Bonatti, rapiti nel luglio 2015 e precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla". Nella stessa data, il Copasir "alla luce di quanto avvenuto in Libia a due ostaggi italiani", ha convocato con urgenza l'Autorità delegata, senatore Marco Minniti.
Da lunedì il governo Renzi sarà obbligato a confrontarsi col Parlamento. Berlusconi ha già dichiarato che in Libia non si deve bombardare. Ancora più netto è stato Prodi. Matteo sa che deve fare una guerra senza darlo a vedere. Dicono che sia un giocatore delle tre carte. Forse è il momento di dimostrarlo.
Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2016/3/5/ITALIA-IN-LIBIA-Tripoli-e-Misurata-il-Vietnam-di-Renzi/685355/
5.03.2016
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16310
ITALIA, LIBIA, GUERRA, INTELLIGENCE. - Marco Della Luna
Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia.
Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli USA e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani.
La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli USA in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre.
Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.
In questi giorni Renzi ha firmato e subito segretato un decreto che estende ai corpi speciali dell’esercito le coperture riservate ai servizi segreti. Il che vuol dire, esplicitamente, che manda le forze armate italiane a uccidere, cioè a fare la guerra, in Libia. Se qualcuno di quei militari sarà catturato dall’Isis, probabilmente sarà torturato e ucciso, oppure scambiato con armi o prigionieri, ma la sua cattura e uccisione (così come lo scambio) saranno tenute segrete anche ai suoi familiari, non solo alla stampa. Il decreto in questione, essendo in contrasto con l’art. 11 della Costituzione, è illegittimo.
La guerra è già in corso, in segreto, non dibattuta, non dichiarata, non autorizzata dal parlamento, decisa da Washington. E così andava anche con le altre guerre in cui l’Italia ha partecipato: anche i nostri governi mandavano militari sotto copertura a uccidere i capi dei gruppi considerati nemici da Washington. Ma queste pratiche segrete sono da sempre la norma nella politica estera di tutti i paesi.
E’ soltanto l’opinione pubblica ignorante, sistematicamente educata dai media a una visione cosmetica della realtà, che si stupisce e scandalizza.
Tornando alla Libia, che si dovrebbe fare per stabilizzarla? Il paese chiamato “Libia” comprende 3 regioni storicamente differenti: Fezzan, Tripolitania, Cirenaica, abitate da molte tribù da secoli in competizione o guerra tra loro. Un paese con una popolazione tribale, senza senso civico e democratico, più abituata a combattere che a lavorare, e con un’enorme ricchezza petrolifera che attira gli appetiti armati di potenze occidentali, le quali ricorrono alla guerra per assicurarsi pozzi e porti, e per toglierli agli altri (all’Eni, in particolare – vedi l’assassinio di Mattei). Come stabilizzare un siffatto paese e un siffatto popolo? E’ ovvio: bisogna che Washington, Londra e Parigi si accordino per spartirsi quelle risorse, che distruggano le forze in campo (usando l’ONU e lo pseudo-governo di Tobruk per deresponsabilizzarsi e dando il comando militare alla serva Italia), che mettano al potere un dittatore armato e finanziato da loro, col duplice incarico di reprimere ogni opposizione o disordine col terrore, e di consentire lo sfruttamento delle risorse petrolifere.
Mutatis mutandis, è quello che stanno realizzando in Italia mediante Renzi e le sue riforme elettorale e costituzionale, che concentrano nel premier i tre poteri dello Stato, limitano la rappresentatività del parlamento e neutralizzano la funzione dell’opposizione.
Fonte: http://marcodellaluna.info
Link: http://marcodellaluna.info/sito/2016/03/04/italia-libia-guerra/
4.03.2016
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16312
giovedì 10 marzo 2016
Popolare Vicenza, un milione a Zonin nell’annus horribilis della banca. - Mario Gerevini
Il compenso 2015 all’ex presidente per il lavoro fatto nell’anno più disastroso nella storia dell’istituto. I soci perdevano in media 42 mila euro a testa. Passata ai figli la quota di maggioranza della casa vinicola.
Un milione. L’ex presidente Gianni Zonin, dimessosi il 23 novembre scorso, indagato dalla procura vicentina per presunti reati nella gestione della Banca Popolare di Vicenza, incassa un milione di euro di compenso (in linea con il 2014) per il lavoro fatto nell’anno più disastroso nella storia dell’istituto. Quello in cui i soci hanno visto letteralmente sparire 5 miliardi di risparmi (42mila euro a testa), famiglie rovinate, aziende distrutte, la banca tramortita, la reputazione ai minimi termini e un drastico piano di salvataggio, appena approvato.
I dettagli degli stipendi saranno resi noti nell’assemblea di bilancio convocata ieri dal consiglio per il 26 marzo.
Ma il milione a Zonin, come tutti gli emolumenti del vertice, è già contabilizzato. Sempre ieri si è saputo che l’Antitrust ha aperto un procedimento contro la Popolare, ora spa, per presunta pratica commerciale scorretta, cioè l’aver condizionato, in passato, l’erogazione di prestiti all’acquisto di azioni. Subito dopo le dimissioni, Zonin, con una manovra sulle sue holding, ha assicurato il controllo del gruppo vinicolo ai tre figli. Tre bonifici per un totale di 2,5 milioni sono arrivati nel conto dell’accomandita «Gianni Zonin Vineyards» alla sede storica della Popolare in Contrà Porti. Denaro per ricapitalizzare la sas, retta da un intreccio di titoli in proprietà e usufrutto tra il capostipite e i figli. L’aumento, però, viene sottoscritto solo dai figli che salgono così al 50,02% garantendosi, a cascata, il controllo del gruppo.
Forse era previsto o forse è un’operazione dettata dalla prudenza: con l’aria che tira non si sa mai che un ipotetico sequestro vada a toccare la Casa Vinicola Zonin.
Il vertice della banca, tuttavia, si muove con grande prudenza. Del resto è noto che gran parte del consiglio (13 su 18) è tuttora espressione della vecchia gestione. Si può chiedere, per esempio, a Marino Breganze (68 anni) di agire eventualmente contro sé stesso o contro chi gli ha garantito la poltrona di vicepresidente per 16 anni, di consigliere per 29, 590mila euro di stipendio, compreso quello da attuale presidente di Banca Nuova?
E il segretario del consiglio Giorgio Tibaldo (66) che è lì esattamente da 30 anni, e prende 220mila euro? Di uomini cresciuti fianco a fianco con Zonin è pieno il cda. «Io non parlo e lei non mi citi — dice al telefono uno dei nomi nuovi al vertice — ma ho visto cose che voi umani ...».
E il collegio sindacale, che avrebbe titolo per avviare autonomamente azioni di responsabilità? Due su tre sono professionisti di fiducia di Zonin. Il numero uno, Giovanni Zamberlan (in servizio da 28 anni, 200mila euro di emolumenti, quasi il doppio dei sindaci Eni), è ben conosciuto anche dal nuovo presidente della banca, Stefano Dolcetta che lo ritrova alla guida del collegio della «sua» Fiamm e di altre 6 aziende del gruppo. All’assemblea del 26 solo il bilancio è all’ordine del giorno. Nessun ricambio nel consiglio. E la Fondazione Cassa di Prato, che ha fatto un bagno di sangue con azioni di Vicenza, preannuncia battaglia.
TRIVELLE FUORILEGGE: ECCO COME LE PIATTAFORME ITALIANE INQUINANO ACQUA E AMBIENTE (E PERCHÉ VOTARE SI). - Germana Carillo
Contaminazioni ben oltre i limiti di legge e sostanze chimiche pericolose che inquinano l’ambiente e non fanno altro che nuocere agli essere umani: nei sedimenti (ma anche nelle cozze!) che vivono in prossimità di piattaforme offshore presenti in Adriatico si trova questo e molto altro.
A rivelarlo è il rapporto “Trivelle fuorilegge” pubblicato da Greenpeace in cui vengono resi pubblici per la prima volta i dati ministeriali relativi all’inquinamento generato da oltre 30 trivelle operanti nei nostri mari.
I dati elaborati da Greenpeace mostrano una contaminazione che supera i limiti previsti dalla legge per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini vicini alle piattaforme (76% nel 2012, 73,5% nel 2013 e 79% nel 2014). E non solo: i parametri ambientali sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% dei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Anche nelle cozze la presenza di sostanze inquinanti ha mostrato evidenti criticità.
“Il quadro che emerge è di una contaminazione grave e diffusa – afferma Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace –. Laddove esistono dei limiti fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. Ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani. Nei pressi delle piattaforme monitorate si trovano abitualmente sostanze associate a numerose patologie gravi, tra cui il cancro. La situazione si ripete di anno in anno ma ciò nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il Ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari”.
Lo scorso luglio Greenpeace aveva chiesto al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, tramite istanza pubblica di accesso agli atti, di ottenere i dati di monitoraggio delle piattaforme presenti nei mari italiani.
Il Ministero fornì allora solo i dati di monitoraggio di 34 impianti, relativi agli anni 2012-2014, dislocati davanti alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. Delle altre 100 e più piattaforme operanti nei nostri mari, Greenpeace non ha ricevuto alcun dato: o il Ministero non dispone di informazioni in merito (e dunque questi impianti operano senza piani di monitoraggio), oppure lo stesso Ministero ha creduto bene di non consegnare a Greenpeace tutta la documentazione in suo possesso.
Alla scarsa trasparenza del Ministero e al quadro ambientale critico si aggiunge il fatto non proprio confortante che i monitoraggi sono stati eseguiti da ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale che è sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente, su committenza di ENI, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine.
“Con questo rapporto dimostriamo chiaramente che chi estrae idrocarburi nei nostri mari inquina, e lo fa oltre i limiti imposti dalla legge senza apparentemente incorrere in sanzioni o in divieti – dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace. Quel che a nessun cittadino sarebbe concesso, è concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca. Sono motivi più che sufficienti per spingere gli italiani a partecipare al prossimo referendum sulle trivelle del 17 aprile, e a votare Sì per fermare chi svende e deturpa l’Italia”.
Ecco, allora, un motivo in più perché il 17 aprile prossimo andremo a votare SI, per cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo.
Certo è, e torna a sottolinearlo Legambiente, la decisione del governo di fissare il referendum il 17 aprile, e di non averlo voluto accorpare alle elezioni amministrative che si terranno più avanti, limiterà molto le possibilità di coinvolgimento e quindi di partecipazione degli italiani a una consultazione che interessa tutto il Paese.
Secondo la legge, la propaganda elettorale inizia infatti dal 30° giorno antecedente la votazione; in questo caso il 18 marzo. “Sarebbe stato necessario avere più tempo a disposizione per spiegare che tutto il petrolio presente sotto il mare italiano basterebbe al nostro Paese per sole 7 settimane – spiega Rossella Muroni, presidente di Legambiente – mentre già oggi produciamo più del 40% di energia da fonti rinnovabili. E che se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare Sì, perché così le attività petrolifere in mare entro le 12 miglia andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni”.
Insomma, i margini di informazione su questa consultazione popolare sono davvero ristretti, ma noi ce la metteremo tutta affinché sempre più persone prendano consapevolezza dell’importanza di partecipare a questo referendum e dire SI!
Spaccio di droga e tratta sessuale, la mafia nigeriana in Italia.
Migliaia di migranti arrivano in Europa, spinti da sogni e false promesse. Il reportage di Vice on SkyTG24
Ogni anno dalla Nigeria arrivano in Italia decine di migliaia di migranti, spinti da grandi sogni e false promesse, indebitandosi per pagare il viaggio. Una volta in Italia, però – in assenza di documenti e opportunità di lavoro legale – alcuni finiscono in strada, a spacciare droga o a prostituirsi, nelle reti di una organizzazione criminale nigeriana, sempre più potente, che inizia ad assumere le sembianze di una ‘mafia’.
I reporter di Vice hanno indagato sullo spaccio di droga e la tratta sessuale a partire da alcuni punti di snodo principali: dall’aeroporto di Malpensa, dove hanno assistito al fermo di un presunto corriere, al blitz della squadra mobile dei ‘Falchi’ di Palermo, che perlustrano in moto le piazze di spaccio di Ballarò. Vice ha incontrato anche alcune giovani donne sfruttate per la prostituzione, che stanno trovando il coraggio di rompere il muro di omertà e uscire dalla tratta sessuale, e ascoltato la denuncia di Emeka, giovane nigeriano aggredito e sfregiato con un’ascia – simbolo del Secret Cult dei Black Axe, una delle organizzazioni segrete della Nigeria a cui si appoggiano le organizzazioni criminali nigeriane anche in Italia.
http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2016/03/09/vice-on-sky-tg24-mafia-nigeriana.html
Le mafie sono le uniche "aziende" che attecchiscono in Italia.
....e non mi pare che lo stato le ostacoli, perchè, se lo facesse, non si espanderebbero, verrebbero respinte.
Cetta
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