venerdì 25 agosto 2017

Rinvenuto il primo Lessinia durello un pesce fossile di 50 milioni di anni. - Viviana Monastero

Rinvenuto il primo  Lessinia durello  un pesce fossile di 50 milioni di anni
L'immagine mostra il fossile di Lessinia durello, conservato al Museo Civico di Storia Naturale di Verona. 

Scoperto nel giacimento fossilifero di Bolca (Verona), uno dei siti paleontologici più importanti al mondo, Lessinia durello, un nuovo genere e una nuova specie di pesce vissuto circa 50 milioni di anni fa.

Una nuova specie
Fotografia per gentile concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto; riproduzione vietata.

Finora la sua esistenza non era stata mai documentata in nessuna parte del mondo. Il fossile di Lessinia durello – che prende il nome dai Monti Lessini e dal vino locale, il Durello - è stato rinvenuto nella Pesciara di Bolca, un giacimento fossilifero situato a circa due chilometri da Bolca, località in provincia di Verona. Si tratta di una nuova specie di pesce che viveva nell'Oceano della Tetide – il mare temperato caldo che si estendeva dal Nord Africa alle Filippine e al Giappone, separando l'Africa settentrionale dall' Europa e dall'Asia - circa 50 milioni di anni fa, nel periodo geologico dell'Eocene medio.

Il fossile è stato studiato da Roberto Zorzin, geologo del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, e da Alexandre F. Bannikov, dell'Istituto paleontologico Borisyak dell'Accademia Russa delle Scienze di Mosca.

"Questo pesce viveva in un mare temperato caldo, in vicinanza di una scogliera", spiega Zorzin. "Il clima, la vegetazione e la fauna erano quelli tipici dei mari tropicali".

Lo studio su Lessinia durello è in pubblicazione nella rivista Studi e Ricerche sui Giacimenti Terziari di Bolca, volume XV.


http://www.nationalgeographic.it/scienza/2013/12/11/foto/rinvenuto_il_primo_lessinia_durello_un_pesce_fossile_di_50_mila_anni_fa-1927431/1/#media

Scoperto un cranio di scimmia di 13 milioni di anni fa. - Michael Greshko

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Estratto da uno strato di roccia, il piccolo cranio risulta lievemente schiacciato rispetto alle sue dimensioni naturali. Fotografia per gentile concessione di Isaiah Nengo, Leakey Foundation

Il fossile, venuto alla luce in Kenya, si è conservato in maniera eccezionale: è stato attribuito a Nyanzapithecus alesi, una nuova specie di scimmia antropomorfa.


Più di 13 milioni di anni fa, nell'attuale Kenya settentrionale, un cucciolo di scimmia antropomorfa morì in una lussureggiante foresta e il suo corpo fu ricoperto dalle ceneri di un'eruzione vulcanica che si verificò nelle vicinanze.

Milioni di anni dopo, gli scienziati hanno rinvenuto il suo cranio - che fra quelli dello stesso tipo finora ritrovati è quello che si è conservato nel modo migliore - avendo così l'incredibile opportunità di iniziare a conoscere le prime fasi dell'evoluzione delle scimmie antropomorfe.

"Per anni siamo stati alla ricerca di fossili di scimmie antropomorfe, è la prima volta che ritroviamo un cranio completo", spiega Isaiah Nengo, antropologo del De Anza College di Cupertino, autore della scoperta, in parte finanziata da una borsa di studio della National Geographic Society.

Grosso modo della dimensione di un limone, il cranio appartiene a una nuova specie di antica scimmia antropomorfa, Nyanzapithecus alesi. Alcune delle sue caratteristiche sono simili a quelle delle attuali scimmie che vivono nel Vecchio Mondo, mentre il volto ricorda in modo sorprendente gli odierni cuccioli di gibbone.

Inoltre, come spiega il team di ricerca in uno studio pubblicato su Nature, la scoperta di N. alesi permetterà di approfondire lo studio del cervello delle antiche scimmie. Con una capacità di circa 103 millilitri, la cavità cranica di N. alesi era grande più del doppio rispetto a quella che caratterizzava altre scimmie del tempo che vivevano nel Vecchio Mondo.

E la scatola cranica rimasta intatta, che ha conservato tracce della superficie esterna del cervello, contiene anche i denti permanenti non erotti del cucciolo di scimmia.

Pausa sigaretta fortunata

Dopo essersi differenziati dagli antenati delle scimmie che vivevano nel Vecchio Mondo fra 25 e 28 milioni di anni fa, le scimmie antropomorfe si diversificarono verso la metà del Miocene. Tuttavia, molte di quelle linee di discendenza scomparvero circa 7 milioni di anni fa in seguito a un improvviso cambiamento climatico. Le grandi scimmie attuali e gli esseri umani discendono da una delle linee di discendenza delle scimmie antropomorfe del Miocene.

Tuttavia, i particolari di questa storia evolutiva sono rimasti oscuri, in parte perché le antiche scimmie antropomorfe vivevano nelle foreste pluviali, che raramente offrono condizioni favorevoli alla fossilizzazione. Fino al ritrovamento di N. alesi: prima di allora, era stato rinvenuto solo un altro cranio di scimmia antropomorfa del Miocene con la scatola cranica - o neurocranio - intatta.

"Spesso, quando non rinveniamo il cranio, troviamo le mascelle, il viso e talvolta l'inizio dell'osso frontale", afferma Brenda Benefit, antropologa dell'Università statale del Nuovo Messico, che ha revisionato lo studio prima della pubblicazione. "È davvero molto raro ritrovare un neurocranio intatto".

La scoperta di N. alesi è avvenuta grazie a una buona dose di determinazione e a un incredibile colpo di fortuna. I Leakey, famiglia di eminenti paleoantropologi, avevano precedentemente effettuato degli scavi nel sito di Napudet, nel nord del Kenya. Quando Nengo, nel 2013, ne ha preso la direzione, in pochi nutrivano grandi speranze nel ritrovamento di reperti significativi.

Ma un giorno agli inizi del 2014, un assistente agli scavi, John Ekusi, si allontanò dagli altri ricercatori per fumare una sigaretta. Gli altri membri del gruppo lo osservavano perplessi da lontano: dopo pochi minuti, Ekusi iniziò a girare intorno a un oggetto sul terreno che aveva catturato la sua attenzione.

Ekusi disse ai colleghi che forse aveva scoperto la testa del femore di un elefante, indicando la superficie smussata di un osso che spuntava dalla roccia. Un esame più approfondito rivelò una scoperta ancora più rara: un piccolo cranio di scimmia antropomorfa, solo lievemente schiacciato rispetto alle sue proporzioni naturali. Gli studiosi si lanciarono in una danza gioiosa.

Con l'avvicinarsi della notte, tuttavia, i ricercatori furono costretti a riseppellire il cranio e attendere la mattina seguente per estrarlo. "Nessuno riuscì a dormire quella notte, ne sono certo",  racconta Nengo.

Nella testa della scimmia

La datazione dello strato di sedimento intorno al fossile ha permesso al gruppo di ricerca di stabilire che il cranio della scimmia antropomorfa era vecchio 13 milioni di anni. Tuttavia, nonostante l'incredibile conservazione del cranio, l'esame iniziale del fossile preparato non è riuscito a svelare a quale primate appartenesse il cranio.

Per determinarlo, Nengo e i colleghi avevano bisogno di osservare i suoi denti permanenti, non ancora erotti. Dunque, hanno portato il fossile allo European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, in Francia, dove i tecnici lo hanno sottoposto a raggi X ad alta potenza, che hanno permesso di osservare il cranio senza danneggiarlo.

Grazie alle scansioni, il team di ricercatori guidato da Nengo è riuscito a ottenere le ricostruzioni tridimensionali dei denti. La loro forma peculiare ha consentito di attribuire senza alcun dubbio il cranio al genere Nyanzapithecus, un gruppo fratello estinto di gibboni, grandi scimmie antropomorfe ed esseri umani.

"Se non avessero utilizzato la radiazione di sincrotone non sarebbero mai arrivati a tale conclusione", dichiara Benefit. "È un miracolo della tecnologia moderna".

Adesso che N. alesi è stato scoperto, Nengo si concentrerà su nuovi aspetti del fossile. Lo studioso e i suoi colleghi presto analizzeranno le tracce del cervello all'interno del cranio. Stanno inoltre ritornando a studiare l'orecchio interno dell'animale, che si è conservato perfettamente, e si stanno dedicando alla ricostruzione dell'aspetto di N. alesi.

Nengo prevede inoltre di ritornare a Napudet, per individuare altri fossili nell'antica roccia.

"Questo è il progetto. Restano ancora cose interessanti da fare", conclude.


Ricostruzione dopo il terremoto, una storia troppo italiana. - Lucia Annunziata


Un vigile del fuoco cammina su Corso Umberto I. Amatrice.

E' un anno esatto, e sulle condizioni delle aree devastate dal terremoto del 23/ 24 agosto nel paese circola una opinione, per una volta, condivisa: la ricostruzione è stata un fallimento. C'è del resto poco spazio per contendere in ragionevolezza con i numeri. Sappiamo che le casette consegnate sono meno del 15 % di quelle necessarie, che il 90 per cento delle macerie è ancora in strada, che solo 33 stalle sulle 1400 attese sono stata fornite al determinante settore dell'agricoltura (10mila animali sono morti), che nonostante 35 milioni di sostegno alle attività commerciali 120 di questi esercizi sono rimasti in ginocchio.
Sono numeri di una vera e propria catastrofe, ma, in maniera molto italiana, di fronte ai dati di fatto si arriva all'anniversario con una presa d'atto venata di fatalismo. La più italiana delle scuse è infatti stata riesumata per scaricare le colpe: la burocrazia. Una scappatoia molto usata dalla Dc di una volta che defletteva ogni accusa su questo onnicomprensivo e incomprensibile concetto. La burocrazia come grande bocca di uno stato Leviatano, sul quale e contro il quale è impossibile intervenire.
Ma davvero non ha padri e madri la burocrazia che ha ucciso la ricostruzione del territorio del terremoto? Con questa inchiesta di Gabriella Cerami abbiamo provato a descrivere almeno una parte dell'itinerario delle regole che non hanno funzionato. E come vedrete anche solo da questo breve lavoro della Cerami, le regole sono tutto meno che orfane. Hanno autori, storia, percorsi e responsabilità. Alla fine di un anno drammatico, soprattutto per chi lo ha vissuto nelle aree colpite, ammettere questa verità è l'unico modo omaggiare davvero le vittime e i sopravvissuti.
Tutto il sentimentalismo rovesciato sul cratere del terremoto, e tutte le visite compunte delle autorità, non basteranno in questo anniversario a oscurare il fatto che il dossier della ricostruzione riposa come un macigno sulle scrivanie dell'attuale governo Gentiloni. Che dal 5 dicembre siede a Palazzo Chigi, e che non può certo più invocare (come scudo e come scusa) la figura e l'operato di Renzi.
Ci aspettiamo dunque in queste ore dal Governo qualcosa di più dell'impegno "a fare di più e meglio", qualcosa di più della resuscitazione del nato morto progetto "Casa Italia". Ci aspettiamo la indicazione degli snodi che non hanno funzionato, e il cambiamento dei responsabili che non hanno agito o non hanno saputo farlo. Decisioni non italiane per una storia che fin qui è stata, come si diceva, fin troppo italiana. E di cui le prossime urne terranno sicuramente conto.

Dalle onde gravitazionali primo passo verso nuova astronomia.

Dalle onde gravitazionali primo passo verso nuova astronomia (fonte: NASA Blueshift) © Ansa


Scoperti segreti dei buchi neri più distanti.

Dalle onde gravitazionali il primo passo verso la nuova astronomia, che permetterà di esplorare alcuni dei fenomeni più misteriosi dell'universo come i buchi neri. Lo indica l'analisi dei segnali registrati nel 2015 e nel 2017 che ha rivelato i segreti dei buchi neri più distanti, esterni alla Via Lattea. Pubblicata su Nature, l'analisi si deve al gruppo coordinato dall'italiano Alberto Vecchio, dell'università britannica di Birmingham, e da Ben Farr, dell'università americana di Chicago.
Per Vecchio l'astronomia gravitazionale è già reale: lo è diventata “il 14 settembre del 2015 con la prima osservazione delle onde gravitazionali” ossia le 'vibrazioni' dello spazio tempo originate da fenomeni violenti, come collisioni di buchi neri e supernovae, fino al Big Bang. “Questo studio è un esempio delle nuove informazioni che possiamo trarre sull'universo'' ha detto all'ANSA il fisico italiano. 

I ricercatori hanno analizzato i segnali prodotti durante quattro eventi di collisione fra coppie di buchi neri, esterni alla Via Lattea, e rivelati nel 2015 e nel 2017 dall'osservatorio americano Ligo (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory). I dati, ha spiegato Vecchio, sembrano confermare lo scenario secondo cui i buchi neri dei sistemi binari ''si formino in abbondanza'' dal collasso di stelle che si trovano in un ambiente molto ricco di astri, e che, ''data l'alta densità di questi corpi, due buchi neri si possano trovare sufficientemente vicini per 'catturarsi' e dar vita ad un sistema binario''.
Secondo un'altra teoria invece i buchi neri nei sistemi binari si formerebbero già in coppia: ossia nascerebbero dal collasso di due stelle molto massive che orbitano in un sistema binario. Tuttavia, per confermare l'ipotesi e riuscire a comprendere definitivamente l'origine dei buchi neri i ricercatori attendono altri dati sulle onde gravitazionali e stimano che l'analisi di altri 10 eventi potrebbe sciogliere ogni dubbio.

giovedì 24 agosto 2017

"Dopo 16 anni di errori, dall'Afghanistan dobbiamo solo andare via". Intervista al generale Franco Angioni. - Umberto De Giovannangeli



"Non dobbiamo uscire dall'Afghanistan per paura, ma per mettere a frutto le esperienze, anche negative, di questi sedici anni di errori". A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa all'HuffPost, è il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri. "L'Afghanistan così come l'Iraq c'insegnano – sottolinea Angioni – che lo strumento militare, anche quando si rivela necessario, non deve mai sostituire una strategia politica o surrogarla, perché quando è così, si producono solo disastri".
Generale Angioni, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di rilanciare la presenza militare degli Usa in Afghanistan e si accinge a chiedere anche agli alleati di seguirlo su questa strada. Dobbiamo farlo anche noi?
"Direi proprio di no. E non per viltà ma per lungimiranza. Vede, il fatto è che quando si commette un grave errore, gli errori successivi sono come le onde sussultorie di un terremoto seguito all'onda principale. Il problema dell'Afghanistan nasce nell'ottobre del 2001 e si chiama George Bush. Dopo lo choc dell'11 Settembre, la turbativa mondiale, e non solo americana, è stata grande. Ma l'errore maggiore è conseguente all'attacco alle Torri Gemelle, quando Bush, avendo individuato le cause e i colpevoli di quell'attacco, non aveva alcuna necessità di reagire in maniera massiccia, bombardando a tappeto quattro città dell'Afghanistan e uccidendo molti afghani, inconsapevoli del perché di tale tragedia. L'obiettivo dichiarato dalla Casa Bianca e dal Pentagono di quell'azione militare era di catturare due personaggi: Osama Bin Laden e il Mullah Omar. Ma per raggiungere un tale risultato non era necessario intervenire in maniera così massiccia e devastante su una popolazione inconsapevole dei motivi, quando invece sarebbe stato più opportuno e produttivo lavorare con l'intelligence al fine di punire giustamente i veri colpevoli. Cosa che è stata fatta successivamente e non attraverso operazioni massicce, invasive. Bin Laden è stato "punito" non con i bombardamenti a tappeto, ma attraverso un sistematico lavoro d'intelligence che, al momento opportuno, ha consegnato il capo di al-Qaeda nelle mani delle forze scelte statunitensi. Ma non basta. Dopo nemmeno tre anni dall'inizio dell'avventura afghana, lo stesso George Bush, decide di invadere l'Iraq. Giustizia il dittatore iracheno, Saddam Hussein, e senza una strategia politica affida il governo di questo Paese a una moltitudine di dirigenti impreparati e disonesti. Il risultato è che i seguaci di Saddam, soprattutto gli ufficiali del disciolto esercito iracheno, si riuniscono e danno spessore militare allo Stato islamico. Molto si parla e si favoleggia su Abu Bakr al-Baghadi, ingigantendone le capacità operative, invero alquanto mediocri, tralasciando il fatto che nella catena di comando militare dell'Isis il ruolo chiave l'hanno giocato gli ex ufficiali di Saddam. A questo punto una domanda sorge naturale...".
Qual è questa domanda, generale?
"Dopo 16 anni non pensiamo che sia finalmente giunto il tempo di porre fine a questa successione ininterrotta di errori politici?
La risposta, sia pure indiretta, offerta da Donald Trump non induce all'ottimismo. Qual è in merito, e sulla base della sua lunga e impegnativa carriera di comando militare, la sua opinione?
"Occorre finalmente adottare una linea politica di prospettiva e non di inutile vendetta. Nessuno mette in discussione la necessità di contrastare lo Stato islamico e quanto di esso rimane, sia in Iraq e Siria che, soprattutto, in Afghanistan, dove i talebani hanno ricevuto una potente cura ricostituente dalla dabbenaggine politica internazionale e dal sostegno di Paesi arabi e musulmani che venivano considerati alleati. L'attuale presidente degli Stati Uniti nella sua campagna elettorale tumultuosa aveva promesso di mettere la parola fine all'avventura afghana. L'opinione pubblica americana era preoccupata non tanto dal fine ma dal "come". Invece, delusione cocente, siamo costretti a constatare che queste promesse elettorali sono state tradite. Trump anche in questo è deludente. La decisione annunciata finirà per fornire benzina a un incendio che invece stava estinguendosi. E' tempo di dire basta. Il problema afghano-iracheno va risolto d'intesa con tutti i Paesi interessati e stavolta sotto la guida delle Nazioni Unite, e alla luce di una strategia di lungo termine che deve necessariamente dimostrarsi attenta ed efficace sul piano dei diritti umanitari, rinunciando a percorrere itinerari nati sull'errore politico e che nel corso di questi sedici anni hanno aggiunto errori ad errori. In Afghanistan, è bene ricordarlo, l'Italia ha pagato un alto tributo di vite umane garantendo un impegno sul campo, e questi nostri ragazzi in divisa vanno ricordati con onore e affetto. Essere alleati, sinceri e impegnati, non significa essere vassalli. A volte, dire dei "no" è prova di forza politica e non di debolezza o codardia. L'Afghanistan può essere il banco di prova"

Così cambierà l’Euribor, il tasso-guida dei mutui. - Maximilian Cellino e Marco Ferrando

Guido Ravoet (Imagoeconomica)
Guido Ravoet (Imagoeconomica)

Affidabile, più volatile ma non troppo, agganciato il più possibile alla realtà e non alle supposizioni di un manipolo di banchieri. Non è facile trovare un indice che soddisfi i tre requisiti, ma all’European Money Market Institute (Emmi) ce la stanno mettendo tutta per offrire ai mercati entro fine anno un nuovo Euribor: da tempo si ritiene inappropriato un tasso, com’era anche il Libor travolto dagli scandali, frutto di una consultazione quotidiana tra un gruppo ormai ridotto a 20 banche, e non a caso le norme europee sui benchmark prevedono che quello attualmente in uso venga pensionato entro fine 2019.
Ma serviranno almeno un paio d’anni di tempo per modificare migliaia di pagine di contratti e centinaia di algoritmi, dal momento che oggi al tasso nelle sue varie scadenze sono agganciati 180mila miliardi di euro (compresi mille miliardi di mutui): di qui l’accelerata della task force istituita a Bruxelles presso l’Emmi, l’ente che governa le sorti dell’Euribor dagli albori, dove il segretario generale, Guido Ravoet conferma che «l’obiettivo che ci siamo dati è quello di avere una versione definitiva del nuovo schema entro la fine del 2017».
Dopo aver sancito tre mesi fa (si veda Il Sole 24 Ore del 10 maggio scorso) il fallimento della sperimentazione di un possibile nuovo indice basato sulle sole transazioni di mercato, troppo sottili per arginarne la volatilità, il gruppo di lavoro si è messo all’opera pancia a terra per studiare una nuova soluzione ibrida, che consenta di «basarsi sulle transazioni quando appropriate e disponibili, e nel caso in cui non lo siano consenta di usare altri dati», dice ancora Ravoet. Da giugno, secondo quanto risulta, il gruppo di lavoro si è riunito una volta ogni due settimane, con due incontri a Bruxelles, uno a Parigi, un altro a Londra e un altro ancora a Milano, più una serie di conference call: la settimana prossima riprenderanno i lavori e per i più ottimisti già alla fine di settembre o al massimo all’inizio di ottobre si potrebbe materializzare qualche passo in avanti.
«Puntiamo ad avere la nuova metodologia pienamente in vigore entro la fine del 2019», aggiunge il segretario generale dell’Emmi. Ma il 2020 è dietro la porta, e la strada ancora lunga: fissato il nuovo indice ci sarà da sperimentarlo, poi da avviare una consultazione, ottenere il via libera dalle varie authority competenti e quindi dare il tempo alle banche di prepararsi a una rivoluzione dal punto di vista formale, ma anche sostanziale.
La riforma dell’Euribor «è una specie di ordigno», dice un banchiere interpellato da Il Sole. Una bomba che non è detto faccia danni (l’auspicio è proprio questo), ma che in ogni caso è destinata a rivoluzionare il mercato dei mutui retail e corporate, quello dei derivati nonché le norme di funzionamento delle tesorerie delle banche, che viaggiano a ruota. Il tema, in pratica, è delicatissimo e qui si fonda la necessità di uscire dalla logica per certi aspetti autoreferenziale delle “telefonate” (cioè le rilevazioni mattutine sui tassi applicati dalle singole banche), per affidarsi ai prezzi reali, cioè alle transazioni, soldi prestati o impiegati, effettivamente condotte sul mercato. «Il problema è che con l’inondazione di liquidità proveniente dalla Bce in questo momento il mercato è diventato molto sottile», spiega un funzionario di tesoreria di una media banca italiana: pochi scambi, molta volatilità. E in più un panel ormai ristretto a 20 sole banche (nel 2012 erano 44) non aiuta: anche perché 9 di esse sono europeriferiche e i tassi applicati - e segnalati ogni mattina alle 11 - inevitabilmente risentono di chi presta a chi.
Così, se una maggior volatilità rispetto a oggi sembra inevitabile, altre questioni restano aperte. «Un panel allargato sarebbe senz’altro un segnale del commitment dell’intera comunità bancaria nel processo di riforma, dal momento che ogni istituto ne fa uso», si fa notare dall’Emmi. Ma, come già accaduto in passato a più riprese, c’è chi non disdegnerebbe l’intervento diretto della Bce, se non altro vista la mole di dati quotidianamente raccolta a Francoforte. Sul punto Ravoet non si esprime puntualmente, ma ci va vicino: «Emmi giudica positivamente qualunque iniziativa da parte delle istituzioni che possa aiutare il processo di riforma», dichiara a Il Sole. Certo è che l’Emmi governa anche l’Eonia, l’indice calcolato sulle operazioni overnight (a brevissima scadenza), per il quale Bce secondo diversi osservatori potrebbe avere una qualche forma di preferenza vista - appunto - la base transazionale.
Dunque per l’Euribor, con la valanga di attivi collegati, siamo all’ultima chiamata. Se seguirà le sorti del Libor una riforma potrebbe non essere garanzia di sopravvivenza: giusto a fine luglio, il responsabile della britannica Fca, la Financial conduct authority, Andrew Bailey, ha dichiarato che la revisione non è stata soddisfacente, dunque il parametro dovrà essere pensionato entro il 2021. Con buona pace dei 350 trilioni di prodotti finanziari che si porta dietro.

mercoledì 23 agosto 2017

Siria: ong, 167 morti in raid Usa a Raqqa in 8 giorni.

Siria: ong, 167 morti in raid Usa a Raqqa in 8 giorni © AP

Bombardamenti a sostegno offensiva anti-Isis.

Sono almeno 167 i civili, di cui 59 minori, morti a partire dal 14 agosto e fino a ieri sotto i bombardamenti della Coalizione internazionale a guida Usa su Raqqa, a sostegno dell'offensiva delle forze a predominanza curda che avanzano nella città siriana per strapparla al controllo dell'Isis. Lo afferma l'ong Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus). Secondo la stessa fonte, 27 persone sono state uccise domenica e 42 ieri.