venerdì 14 agosto 2020

“C’è stata frode”: i deputati non avevano diritto al sussidio. - Patrizia De Rubertis

“C’è stata frode”: i deputati non avevano diritto al sussidio
Hanno chiesto legittimamente all’Inps il bonus da 600 euro per sostenere co.co.co e partite Iva durante l’emergenza Covid nonostante uno stipendio da parlamentari di quasi 14 mila euro. Alle 12 Tridico metterà quei nomi a disposizione della Camera, alleviando la pruriginosa questione etica e morale. Ma quella giuridica? Il garante della Privacy ha chiesto all’Istituto guidato da Pasquale Tridico di spiegare chi, come e perché abbia profilato i nomi dei politici anche se la frode non c’è stata. Eppure per l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri e il giuslavorista ed ex politico Giuliano Cazzola l’operato della direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza, da cui è partita l’indagine, è stato corretto: “Deputati e consiglieri regionali non ne avevano diritto”. Per capire come si è arrivati fin qui, e di cosa si sta parlando, bisogna ripartire dalla legge.
Il "cura Italia" e il dl "Rilancio" hanno dato la possibilità di richiedere il bonus di 600 euro senza richiesta di prove ma a una condizione: il lavoratore autonomo non doveva essere titolare di pensione e avere altre forme obbligatorie di previdenza obbligatoria diverse dalla Gestione separata presso l’Inps. Un limite che, se superato, diventa oggetto di controllo non solo da parte delle sedi Inps, ma soprattutto della direzione antifrode che, tra i suoi compiti, ha quello di intercettare situazioni di prestazioni a sostegno del reddito e assistenziali non spettanti o dubbie. “E i deputati – ha spiegato Boeri in un’intervista tv – hanno di fatto una contribuzione obbligatoria”. I parlamentari sono, infatti, iscritti a un’altra forma di previdenza, perché devono versare per poi avere i vitalizi. “Quindi l’antifrode ha correttamente controllato queste posizioni, così come lo ha fatto con altre migliaia di liberi professionisti”, ha sottolineato ancora Boeri.
“Lo stesso criterio dovrebbe valere anche per i consiglieri regionali”, conferma il giuslavorista Cazzola, spiegando che però per i 2 mila amministratori locali minori occorre valutare la loro specifica posizione professionale e previdenziale e non quanto percepiscono dalla istituzione di cui fanno parte”.
Il passaggio successivo è cronaca: una volta che è stato rilevata l’anomalia dei politici che potenzialmente non avevano diritto al bonus, la direzione antifrode l’ha comunicato alla presidenza dell’Inps. In mattinata si conoscerà il colpevole.

Esame di maturità. - Marco Travaglio

M5s, è in corso su Rousseau il voto sulla modifica del mandato zero e le alleanze con i partiti alle elezioni Comunali

Fra ieri e oggi gli iscritti ai 5Stelle decidono, sulla piattaforma Rousseau, uno dei passaggi cruciali dei loro 11 anni di vita: il sì o il no alla deroga parziale al limite di due mandati (solo per chi ne ha svolto uno in un Comune) e all’abolizione del divieto (che non è un obbligo) di allearsi con partiti tradizionali. Due svolte molto attese e anche utili. Due segni di maturità e di crescita, oltreché di realismo, da parte di quella che gli elettori due anni fa hanno eletto a prima forza politica del Paese, che ha espresso il presidente del Consiglio, dato vita a due governi e realizzato molti punti del suo programma. Purtroppo una scelta così importante avviene fra il lusco e il brusco, senza preparazione né discussione, quando la gente pensa a tutt’altro: la vigilia di Ferragosto. C’è da restare basiti dinanzi all’improvvisazione e al dilettantismo di chi – Davide Casaleggio, con l’avallo dei tre garanti Crimi, Lombardi e Cancelleri – ha deciso i tempi e i modi. Al punto da far sospettare che chi un anno fa vantò il record mondiale di partecipazione (sul governo giallorosa si espressero 80mila iscritti) ora sia ben felice che votino in quattro gatti. Magari solo i trinariciuti contrari a deroghe e alleanze. Una vittoria del No sui due fronti, o anche solo sul secondo, condannerebbe il M5S all’isolamento e all’irrilevanza, arretrando di tre anni le lancette della storia, danneggiando il governo e facendo un regalo insperato alla Casta, che non ha mai smesso di sognare il ritorno alle ammucchiate pre-2018 per tagliar fuori gli odiati grillini e rimettersi a tavola.

Chi, fra i 5 Stelle, lo apprezza non deve dimenticare che il governo Conte è stato possibile perché i voti su Rousseau autorizzarono il capo Di Maio ad allearsi con partiti: che senso ha ora vietarlo a priori nelle Regioni e nei Comuni? Sta poi ai vertici locali e nazionali valutare caso per caso opportunità e convenienza. Pronti a dire no, come sacrosantamente han fatto con De Luca in Campania; ma anche a dire sì, come han fatto in Liguria con Sansa e avrebbero dovuto tentar di fare in Puglia o almeno nelle Marche. Il discorso vale vieppiù nei Comuni, dove il M5S è nato: l’anno prossimo si eleggono i sindaci di Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. A Roma e Torino, le candidate in pole position per battere la destra sono Raggi e Appendino; a Milano, Sala potrebbe passare la mano; a Bologna e Napoli, Merola e De Magistris devono lasciare a nomi nuovi tutti da inventare. Che ci sarebbe di male se il M5S ottenesse l’appoggio del centrosinistra dove può vincere e, dove può solo perdere, sostenesse candidati del Pd in cambio di una svolta radicale su ambiente e legalità? Si spera che anche stavolta gli iscritti siano più maturi di chi dovrebbe esserlo più di loro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/14/esame-di-maturita/5899747/

giovedì 13 agosto 2020

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”. - Lucio Musolino

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”

Dopo la condanna all’ergastolo del boss  Giuseppe Graviano e di Rocco Santo Filippone il 24 luglio, le indagini proseguono sulle tracce di “altri soggetti” che, secondo gli inquirenti, avrebbero collaborato al “disegno di destabilizzazione del paese”. In primo piano nelle dichiarazioni dei pentiti il “patto” tra Berlusconi e Cosa nostra, attraverso Dell’Utri, di cui la mafia avrebbe informato i calabresi.
Un vasto e articolato disegno di destabilizzazione del Paese da attuarsi (anche) con modalità di tipo terroristico”. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza “’Ndrangheta stragista”, con la quale la Corte d’Assise il 24 luglio scorso ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone, c’è una sola certezza per la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria: le indagini continuano e presto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo porrebbe arrivare a quella che, nella sua requisitoria, ha definito “la completa identificazione di tutti i soggetti che concepirono l’attacco terroristico allo Stato”. Identificazione che “dovrà e potrà essere svolta in successivi approfondimenti investigativi”.
Parole che pesano come un macigno sulla testa di chi potrebbe a breve avere un volto nonostante siano trascorsi quasi trent’anni da quelle “stragi continentali” che hanno insanguinato il Paese. L’elenco delle bombe lo ha fatto il collaboratore Gaspare Spatuzza nel corso dell’udienza del 16 marzo 2018 quando, rispondendo alle domande del pm, ha ricordato che nel 1993 aveva preso “l’impegno di recuperare l’esplosivo”: “Sono stato coinvolto purtroppo in tutte le stragi, da Capaci… via D’Amelio, la strage di via Fauro, Firenze, le stragi di Roma, San Giovanni Laterano e San Giorgio a Velabro… e il fallito attentato all’Olimpico, e l’attentato quello di Milano”.
La sensazione è che sulla scrivania del magistrato reggino ci siano diversi fascicoli che riguardano non solo alcuni boss della ‘Ndrangheta e quella componente mafiosa che, pur essendo stata più volte richiamata durante il processo a carico di Graviano e Filippone, non sono finiti alla sbarra. Per ora. Sempre nella requisitoria, il procuratore Lombardo parla di “altri soggetti ancora” che “diedero un contributo al concepimento ed alla pratica attuazione del disegno di destabilizzazione del Paese”.
Leggendo gli atti di “Ndrangheta stragista” è facile capire di chi si tratta. Se sul fronte mafioso, all’appello mancano i nomi De Stefano e Mancuso (espliciti nella ricostruzione fatta dalla Dda), chi siano gli “altri soggetti ancora” è facile intuirlo rileggendo i verbali e le dichiarazioni in aula dei numerosi collaboratori di giustizia e testimoni che hanno sfilato davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria: politici, pezzi deviati delle istituzioni, soggetti legati agli apparati di sicurezza e massoni riconducibili agli ambienti della P2 di Licio Gelli.
Tutte categorie che potrebbero essere sostituite da nomi e cognomi importanti quando si concluderanno le indagini della Procura di Reggio Calabria coordinate da Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo.
Ma andiamo con ordine. Siamo all’inizio degli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, con il Pds di Achille Occhetto che aveva vinto le amministrative dell’ottobre 1993 e il rischio comunista alle porte. Come se non bastasse la Democrazia cristiana si stava sgretolando e, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, non era più in grado di dare garanzie ai boss di Cosa nostra. È questo il periodo, a cavallo tra il 1993 e il 1994, in cui si incastra il racconto di Gaspare Spatuzza che ai pm di Reggio Calabria ricorda l’incontro avuto con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma.
I carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofolalo sono stati già uccisi in Calabria, ma nel disegno criminale di Graviano manca il famoso “colpo di grazia”. “Siamo entrati in questo bar, all’interno ci siamo seduti nei tavolini. – dice Spatuzza – Abbiamo fatto il punto della situazione, gli ho illustrato tutta quella che era stata già programmata la fase esecutiva”.
Spatuzza si riferisce al fallito attentato all’Olimpico dove in via dei Gladiatori, se fosse esplosa la Lancia Thema carica di esplosivo, sarebbero morti una cinquantina di carabinieri. Pochi giorni prima il futuro collaboratore di giustizia rassicura il boss di Brancaccio: “Eravamo già operativi. E lui, in quella circostanza, mi aveva detto che era felice effettivamente, che avevamo chiuso tutto, e avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo. Quindi, a quel punto, che suscitava questa emozione indescrivibile, mi disse che, grazie a questo che… quello che noi avevamo ottenuto, grazie alle persone serie che avevano gestito questa cosa, e mi cita Berlusconi, che a tal punto io venni a dire: ‘Ma se era quello del Canale 5?’. E mi ha detto che era lui. E che era nel mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri. Cioè, il discorso era che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che noi cercavamo”.
Sul piatto c’erano le richieste di Cosa nostra alla politica di cui i boss avevano già discusso in Sicilia. I discorsi fatti al bar Doney, infatti, sono “un seguito di quello che avvenne lì a Campo Felice… c’era in piedi una cosa, e se andava a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati”. Ed è a questo punto che Spatuzza, stando al suo racconto, sente il boss di Brancaccio pronunciare la frase “Abbiamo il Paese nelle mani”: “Avevamo chiuso tutto. Graviano insisteva per consumare l’attentato dell’Olimpico… perché con quello gli dovevamo dare il colpo di grazia”.
Dopo l’incontro al Bar Doney, distante un centinaio di metri dall’hotel Majestic dove era solito alloggiare Marcello Dell’Utri e dove proprio in quei giorni, il 26 gennaio, sarebbe nato il partito di Forza Italia, Spatuzza e “Madre Natura” salgono in auto per andare a Torvaianica: “Lui insiste nel portare avanti quell’attentato contro i carabinieri, perché i calabresi si erano mossi, che erano… si erano mossi con i carabinieri. Infatti, non so se il giorno prima o i giorni successivi, io ho saputo che effettivamente erano stati uccisi due carabinieri in Calabria… La sostanza di quelle poche parole, è questa: cioè, la finalità dell’attentato (quello fallito all’Olimpico, ndr) era di spingere a qualcuno, che si doveva muovere”.
Stragi, quindi, che non dovevano solo intimidire, mettere paura a uno Stato attraverso la sempre utilizzata “strategia della tensione”. Erano bombe e morti che, per dirla con l’avvocato ed ex pm di Palermo Antonio Ingroia, servivano a “convincere un amico, con cui si stava parlando, a fare qualche cosa”. “È esatto?”. “Sì, sollecitare. – risponde Spatuzza – Chi si deve muovere, si dà una smossa. Quindi, ed è un… fare terra bruciata… sì, è un po’ fare terra bruciata al soggetto, o ai soggetti, che avevano preso degli impegni, o che stavano portando avanti delle cose, ma un po’ si erano assonnacchiati”.
Le domande di Ingroia e soprattutto le risposte di Spatuzza non lasciano adito a dubbi su chi sarebbero stati i politici “assonnecchiati” con i quali Graviano aveva “chiuso tutto”: “‘Quello che cercavamo’, questo lo avevate ottenuto tramite quelle due persone, che lei ha già indicato alla scorsa udienza?”. “Si. Si”. “Berlusconi e Dell’Utri. E Graviano si spinse sino a dirle: ‘Abbiamo il paese nelle mani’?”. “‘Il paese nelle mani’, sì, sì”.
Dell’Utri diciamo che si legge Berlusconi”. Il copyright è del pentito Giuseppe Di Giacomo interrogato anche lui nel processo “’Ndrangheta stragista” il 12 giugno scorso. È lui che, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lombardo, conferma che “c’è una correlazione tra la cessazione delle stragi e gli impegni che erano stati assunti”.
Di impegni che la politica avrebbe assunto con la mafia, ne parla anche il collaboratore Pasquale Di Filippo la cui deposizione è finita nella memoria del pm consegnata al termine della requisitoria alla presidente della Corte d’Assise Ornella Pastore. “Berlusconi ha fatto un patto con Cosa nostra. È un patto: ‘Noi ti facciamo salire’. Il patto è questo: ‘Noi ti facciamo salire però tu ci devi aiutare’. E non è un patto questo? Cos’è?”. Stando al suo racconto, dopo la vittoria di Berlusconi alle politiche del 1994, il pentito Di Filippo ne aveva discusso con Leoluca Bagarella con il quale si era lamentato di Forza Italia: “Bagarella non mi ha parlato di patto. Io gliel’ho detto a lui, gli ho detto: ‘Scusa, noi lo abbiamo votato, lui doveva mantenere delle cose, e non le ha mantenute. Per quale motivo?’. Bagarella mi dice: ‘Per ora non può fare niente, perché ci sono altri politici che lo stanno osservando, ma comunque, appena ci può aiutare, ci aiuta”.
A proposito di aiuti, i voti della mafia per le politiche del 1994 non sarebbero stati l’unico favore che Cosa nostra avrebbe fatto nell’interesse di Silvio Berlusconi. Lo dice il pentito calabrese Antonino Fiume, un tempo killer degli arcoti ma soprattutto ex genero del boss Giuseppe De Stefano, figlio del mammasantissima don Paolino De Stefano ucciso all’inizio della seconda guerra di mafia che insanguinò Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991.
Era la stagione dei sequestri di persona. Le vittime, rapite dalla ‘Ndrangheta nel nord Italia, venivano portate in Calabria. Solo alcune venivano rilasciate dopo riscatti miliardari mentre altre sparivano nel nulla, inghiottite dall’Aspromonte.
All’epoca i sequestri erano il core business delle cosche della Locride ma sul fenomeno aveva voce in capitolo anche la ‘Ndrangheta reggina, quella dei De Stefano che il giornalista Luigi Malafarina già negli anni ottanta definì “i mafiosi dalle scarpe lucide”. Morto don Paolino, il boss divenne il figlio Giuseppe De Stefano sempre affiancato da Nino Fiume che, nell’udienza del 6 giugno 2019, ricorda quando “Cosa nostra mandò a dire una imbasciata urgente, di non toccare il figlio di Berlusconi”.
“L’ambasciata – dice – arrivò ad Africo, e io ero con Peppe Morabito e Peppe De Stefano e ‘Ntoni Papalia, e questa era una imbasciata che arrivava là, però ero presente e le sapevo queste cose qui. I palermitani erano andati ad Africo, e Peppe Morabito il ‘Tiradritto’ si era assunto la responsabilità, perché i palermitani, questi dicevano che gli fate i regali e di non sequestrarlo, perché era un periodo che i sequestri… Antonio Papalia aveva passato per novità questo discorso, che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare”.
In realtà, in quel momento, la ‘Ndrangheta non stava progettando alcun sequestro del figlio di Berlusconi: “Loro temevano – spiega infatti Fiume – I palermitani erano andati da Peppe Morabito. Peppe Morabito si era preso questa responsabilità…lui ci aveva spiegato questa situazione, di questa raccomandazione di non toccarlo. Fatto sta che poi avevano trovato la soluzione, e non l’hanno toccato. Era una cosa che interessava a Palermo, era una cosa proprio che era partita da là, questo è sicuro”.

La Raggi si ricandida a Sindaco di Roma: è solo un “Vanity affair”? - Daniele Luttazzi

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La candidatura a sindaco di Roma della rapper Virginia Raggi, annunciata qualche giorno fa dopo incontri con Di Maio e Di Battista, e preceduta da un sonetto in vernacolo sul blog di Grillo (Sarò teppista, sì, ma je so’ amico/ e cerco d’appoggiaje l’elezzione/ perfino ne li posti che nun dico;/ c’è infatti Nena, quella co’ li nei,/ ch’ogni notte se pianta sur cantone/ e dice a tutti de votà pe’ lei) che è apparso come un bizzarro endorsement a un Raggi bis, seguito all’istante dall’apertura del capo politico del M5S Krimi a una riflessione ampia sulla cagata del limite del doppio mandato; la candidatura della Raggi, dicevo, festeggiata con l’incendio di due bus Atac, è stata inizialmente considerata l’ennesima trovata promozionale di una celebrità nota per gli annunci provocatori, ma in realtà è un progetto con una certa concretezza. Di candidature insolite o improbabili ce ne sono a ogni votazione italiana, ma interpretare quella della Raggi è più complicato del solito, principalmente per via dei noti problemi di gestione della capitale (trasporti pubblici, rifiuti, traffico, buche, smog, stadio). “La sua candidatura non è seria, ma non è nemmeno uno scherzo”, ha scritto Bruno Sbrana su Libero. “Ha aspetti del vanity project (cioè un progetto che ha principalmente lo scopo di appagare l’ego di chi lo porta avanti) e di un’operazione di sabotaggio da parte dei grillini, ma anche queste sono definizioni incomplete. È invece una creazione del tutto originale, finora sconosciuta alla scienza”. Naturalmente la Raggi non ha nessuna possibilità di vittoria, ma il suo nome sarà comunque sulle schede elettorali di milioni di persone. Ci sono elementi che suggeriscono che la sua candidatura non sia solo l’ossessione personale di una donna che da anni passa alle cronache principalmente per dichiarazioni sconclusionate e tracolli nervosi in pubblico. I giornali italiani, infatti, hanno scoperto che per la campagna elettorale della Raggi lavoreranno alcuni noti personaggi del MoVimento. La persona che si occuperà delle pratiche necessarie è Duccio Favagrossa, penalista presso lo studio legale Tirapelle, Bellomunno & Battilocchio, che ha lavorato per la Casaleggio Associati. Prima del voto elettorale, del resto, la candidatura della Raggi dovrà essere approvata da Rousseau, la scatoletta di compensato con due lucine, una verde e una rossa, creata da Davide Casaleggio con un seghetto da traforo durante l’ora di educazione tecnica quando faceva le medie. (Un manufatto che lascia ammirati, se ci si ricorda con quanta facilità la lama del seghetto si rompesse durante il procedimento. Per fare Rousseau, Davide ne avrà consumate come minimo otto). In generale, nessuno pensa che la Raggi possa avere qualche chance, vista l’impopolarità, ma c’è chi pensa che possa ottenere lo stesso un po’ di seguito, specialmente a Ostia, dove ha riqualificato un ampio tratto di arenile, rendendolo spiaggia libera attrezzata dopo anni di incuria e degrado. Il Giornale ha scritto che la candidatura della Raggi “sembra sempre di più un’operazione coordinata dai grillini per sottrarre voti al candidato del Pd, Massimo Carminati.”
Giochi da spiaggia. Indovinate quale dei due titoli informa davvero il lettore:
Cairo, la spinta del digitale. “Quinto media player in Italia” (Corriere della Sera, cioè Cairo, 5 agosto 2020)
Cairo, nel semestre rosso da 12,7 mln (Italia Oggi, 5 agosto 2020)
A tutti coloro i quali rivendicano la formula del mandato unico vorrei porre una domanda: quando hai la fortuna di avere un amministratore che lavora per te, senza aumentare il debito della tua città, che si adopera per renderti la vita più agevole e rischia anche le rappresaglie di chi vorrebbe tornare al vecchi sistemi per poter allegramente lucrare, cambieresti amministratore?
Io direi che la regola su citata va usata solo se l'amministratore è inefficiente o dotato di poca o inesistente etica professionale.
Nel caso della Raggi è molto meglio tenersi lei anche per altri 100 mandati se continua a comportarsi bene.
Le regole valgono quando si vuole cambiare un pessimo andazzo, non per cambiare ciò che funziona bene ma per cambiare ciò che è marcio. by c.

Giuseppe Conte.

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Nei mesi scorsi alcuni cittadini, avvocati, finanche un’associazione dei consumatori hanno dichiarato pubblicamente di avere presentato denunce nei miei confronti e del Governo per la gestione della pandemia. Le accuse sono state le più varie. Alcuni ci hanno accusato di avere adottato misure restrittive, altri ci hanno accusato di non aver adottato misure sufficienti o di averle adottate troppo tardi. Ci hanno addebitato i più variegati comportamenti criminali: il reato di epidemia, di omicidio colposo, di attentato alla incolumità pubblica, di attentato contro la Costituzione e contro i diritti politici dei cittadini, e altri ancora.

La prova che il nostro Paese ha vissuto e che in parte ancora sta vivendo è stata e continua ad essere impegnativa: chi ha responsabilità di governo deve rimanere concentrato sugli obiettivi da raggiungere che sono, ad un tempo, la tutela della vita e della salute dei cittadini e la ripresa più rapida possibile della vita sociale ed economica.

Abbiamo lavorato sempre allo stesso modo: ci siamo affiancati scienziati ed esperti per disporre costantemente di una base scientifica di valutazione dei dati epidemiologici e abbiamo sempre ispirato la nostra azione ai principi di precauzione e trasparenza e ai criteri di adeguatezza e proporzionalità.

Ci siamo sempre assunti la responsabilità, in primis “politica”, delle decisioni adottate. Decisioni molto impegnative, a volte sofferte, assunte senza disporre di un manuale, di linee guida, di protocolli di azione. Abbiamo sempre agito in scienza e coscienza, senza la pretesa di essere infallibili ma nella consapevolezza di dover sbagliare il meno possibile per preservare al meglio gli interessi della intera comunità nazionale.

Per massima trasparenza vi informo che io e i Ministri Bonafede, Di Maio, Gualtieri, Guerini, Lamorgese e Speranza abbiamo ricevuto un avviso ex art. 6, comma 2, legge cost. n. 1/1989. Poco fa ne abbiamo dato notizia attraverso un comunicato ufficiale. Abbiamo fatto accesso agli atti e abbiamo appreso che alla Procura di Roma, per competenza territoriale, sono state convogliate nei mesi scorsi buona parte delle denunce di reato presentate nei nostri confronti provenienti da varie parti d’Italia.
Doverosamente, la Procura di Roma ha aperto un procedimento nei nostri confronti e dopo aver valutato una ad una le relative denunce le ha giudicate “infondate e dunque da archiviare”.
Ha quindi trasmesso il fascicolo al Collegio dei magistrati competenti per i reati ministeriali accompagnando la trasmissione con la richiesta di archiviazione. L’invio del fascicolo al Collegio è un atto dovuto in quanto previsto dalla medesima legge cost. n. 1/1989. Lasciamo che la Magistratura completi questo iter procedimentale.

Io e i Ministri siamo e saremo sempre disponibili a fornire qualsiasi forma di collaborazione che ci verrà richiesta, nel rispetto dei distinti ruoli istituzionali.
Il bene dell’Italia e degli italiani, prima di tutto.


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Il premier presti orecchio alla Meloni. - Antonio Padellaro

Così Giorgia Meloni sta cambiando il centrodestra italiano - Il Foglio

A proposito dei “mille euro con un click”, di cui abbiamo scritto ieri, Giorgia Meloni mi fa notare che nella sua proposta era specificato che la richiesta poteva farla soltanto chi non aveva più di 2mila euro sul conto corrente. Mi ricorda inoltre che FdI contestò il fatto che per il bonus autonomi non fosse previsto un tetto di reddito a 600 euro. È vero, e mi scuso dell’involontaria omissione. Nessuna “cantonata” però. Infatti la precisazione non tocca la sostanza del problema. Ovvero, mettersi una buona volta d’accordo su cosa è, e cosa invece non è assistenzialismo in questa fase storica. Un termine “usato normalmente in senso negativo per indicare i fenomeni degenerativi della politica redistributiva e di sostegno ai redditi promossi dallo stato sociale” (Oxford Languages). Ma che ai tempi del Covid poco ha a che vedere con le irrinunciabili politiche a favore di quella vasta parte del Paese messa in ginocchio dal lockdown. Siano i mille euro proposti dalla Meloni, o i seicento del bonus governativo (con profittatori al seguito) si tratta in ogni caso di risorse gigantesche. Il cui esborso limita di fatto le politiche di sostegno alle imprese, indispensabili per la risollevare l’Italia.
È il solito problema della coperta troppo corta su cui, ne siamo convinti, la leader del partito che ha ereditato i principi della destra sociale avrebbe delle cose serie da dire. Giorni fa, intervistata da Sky, la Meloni lamentava le non risposte del governo alle proposte economiche di FdI. Senza contare, ricordiamo, l’appuntamento di palazzo Chigi che Giuseppe Conte aveva promesso al centrodestra e poi rimandato per il protrarsi delle trattative a Bruxelles sul Recovery Fund. Il premier non ha certo bisogno di saperlo da noi che l’opposizione (ancorché maggioritaria nei sondaggi) va ascoltata con attenzione. Non per convenienza formale ma per condividere quante più misure nell’interesse dei cittadini. E dal momento che l’opposizione è divisa in partes tres forse (senza perdere troppo tempo con l’orfano del Papeete o con i funzionari di Berlusconi) un orecchio particolare andrebbe riservato proprio a Giorgia Meloni. Che almeno studia e i problemi li conosce.

Effetto Spelacchio. - Marco Travaglio

Tre ragioni per ringraziare Virginia Raggi - IlGiornale.it
Quando Virginia Raggi ha annunciato che si ricandida, ho pensato: mission impossible. Poi ho letto i commenti di giornali e politici, tutti affratellati dal pensiero unico che accompagna la sindaca di Roma da quando fu eletta: ha fatto più danni di Nerone e di Attila perché è una cretina, incapace, disonesta, per giunta grillina, ergo i romani si guarderanno bene dal rivotarla e chiederanno lumi a noi, che sappiamo come rifare l’Urbe più bella e superba che pria. Lo scrivono Giornale, Verità, Libero, Messaggero, Corriere e Stampubblica. Un unico grande giornale, come diceva Moretti. E poi l’orrore, lo sdegno, il raccapriccio di Pd, FI, Lega, FdI: un unico grande partito. Quindi avranno già pronto il nuovo sindaco bravo, competente, efficiente e onesto che, vista la catastrofe in corso, ha già la vittoria in pugno, no? No, niente. A destra “Salvini sta sondando l’ipotesi Cattaneo” (Stampa), che infatti non ha mai sentito nessuno né intende candidarsi. Il Pd, dopo aver cambiato una dozzina di cavalli (peraltro ignari di tutto), il più autorevole dei quali era l’attore Ghini, non sa che pesci pigliare; però la signora Franceschini ci terrebbe tanto. Calenda, noto desertificatore di urne, lancia Carlo Fuortes, sovrintendente dell’Opera, che porta i voti dei tenori e dei baritoni.
E qui sorge il dubbio. Che bisogno c’è dei bazooka per abbattere un moscerino come la Raggi? Non basta ignorarla e lasciarla giustiziare dagli elettori? In realtà, la lapidazione generale cela il terrore che, in un ballottaggio fra lei e un clone di Salvini, la maggioranza preferisca lei: perché i suoi difetti ed errori sono noti, ma l’esperienza potrebbe aiutarla a superarli; lavora senza risparmio; di cose buone ne ha fatte (cultura, risanamento finanziario, legalità, no alle Olimpiadi incluso); non ruba e non fa rubare; governare Roma senza soldi né poteri e contro tutti i poteri è molto più arduo di quanto credesse lei, ma anche gli altri (infatti scappano tutti); e soprattutto perché ha tutti contro con argomenti che persino il più anti-raggiano troverebbe pretestuosi. Il più disonesto era la penuria di impianti per rifiuti (compito della Regione). Ma ieri La Stampa ci ha aggiunto “l’incendio al Tmb Salario” (infatti lo appiccò lei) e “il famoso Spelacchio, l’abete di piazza Venezia stecchito prima ancora di essere decorato”. Che era già morto quando fu segato in Val di Fiemme, come tutti gli alberi di Natale del mondo. Quello però è rimorto appena ha visto la Raggi, nota abeticida. O così almeno scrissero per settimane i giornali, trasformandolo nell’albero più simpatico del mondo, con pellegrinaggio di turisti e cittadini. Però, all’occorrenza, risorge. Avanti così e persino Virginia ce la può fare.