giovedì 17 settembre 2020

Colleferro. Orologi d’oro, ville, vacanze e auto di lusso: ma i fratelli Bianchi (e il padre) percepivano il reddito di cittadinanza. - Vincenzo Bisbiglia

 


È quanto risulta dagli accertamenti fiscali e patrimoniali portati avanti dagli inquirenti, parallelamente all’inchiesta sulla morte del giovane di Paliano. I quattro ragazzi e gran parte dei componenti delle loro famiglie risultano nullatenenti, o quasi. Come loro, anche Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, gli altri due accusati dell’omicidio volontario di Willy Monteiro Duarte.

La villa di famiglia svetta in cima alla collina di Colubro, la frazione di Artena da dove partivano le scorribande dei fratelli Bianchi. Anche Marco e Gabriele, i presunti assassini di Willy Monteiro Duarte – il ragazzo pestato e ucciso la notte fra il 5 e il 6 settembre a Colleferro, in provincia di Roma – percepivano il reddito di cittadinanza. Così come il padre. E così anche come Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, gli altri due giovani, rispettivamente in carcere e ai domiciliari, accusati dell’omicidio volontario del 21enne. È quanto risulta dagli accertamenti fiscali e patrimoniali portati avanti dagli inquirenti, parallelamente all’inchiesta sulla morte del giovane di Paliano. I quattro ragazzi e gran parte dei componenti delle loro famiglie risultano nullatenenti, o quasi. Gabriele Bianchi aveva da poco aperto una frutteria a Cori con l’aiuto del suocero, il coordinatore locale di Forza Italia, Salvatore Ladaga. Alessandro Bianchi, il maggiore dei fratelli – non coinvolto nella vicenda – aveva un ristorante inaugurato da pochi giorni che non ha più riaperto. Bianchi senior faceva piccoli lavori da fabbro. Mestieri umili che non giustificano gli stili di vita: villeautomobili costosevestiti firmatiorologi d’oro e vacanze in località notoriamente esclusive.

Come si guadagnavano allora da vivere (e non solo)? “I fratelli Bianchi lavorano su commissione, chi ha un credito e non riesce a farsi restituire i soldi manda loro dal debitore. Arrivano, picchiano e tornano con i soldi”, è la tesi degli inquirenti che gli avvocati stanno cercando in tutti i modi di smentire, tirando addirittura in ballo il caso Tortora. Dal racconto di chi indaga, in particolare “i gemelli” lavorano come emissari dei pusher di zona: quando gli “acquirenti” iniziano a indebitarsi, gli spacciatori chiamano loro, i “picchiatori”, che intervengono per “suonarle” a chi si è attardato troppo. “In molti nemmeno denunciano, non gli conviene”, ripetono, quasi rassegnati.

E c’è anche un giro, fisso. Di solito la loro serata inizia a cena ad Artena, al Nai Bistrot di Alessandro Bianchi, il fratello maggiore, chef “di livello” che ha dato il via all’attività di famiglia poche settimane fa. Poi parte il tour dei paesi. Colleferro è la prima tappa, fissa. In piazza Italia, davanti alla caserma. Poi si va a Lariano, comune dei Castelli attaccato alla frazione di Colubro, dove la famiglia Bianchi vive. Quindi Giulianello, sede delle Macellerie Sociali, il cui titolare Marcello ha pubblicato sui social un racconto eloquente delle prepotenze perpetrate dai “gemelli”. Infine Cori, in provincia di Latina inoltrata.

Il caso è arrivato in Parlamento. Ce lo ha portato il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, che ha presentato un’interrogazione al Governo: “È vero che i quattro accusati percepivano il reddito di cittadinanza? Se sì, come mai le indagini patrimoniali sono state effettuate solo a seguito dell’omicidio di Colleferro, quando invece era noto a tutti lo stile di vita alquanto sopra le righe che i quattro conducevano?”. E ancora: “Che il reddito di cittadinanza sia stato nei mesi erogato a delinquenti, spacciatori, contrabbandieri ed ex terroristi era cosa già acclarata, ma il caso dei quattro arrestati per l’assassinio di Willy dimostra come questa marchetta di Stato non preveda alcun controllo”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/09/17/colleferro-orologi-doro-ville-vacanze-e-auto-di-lusso-ma-i-fratelli-bianchi-e-il-padre-percepivano-il-reddito-di-cittadinanza/5934482/

Minzione di sfiducia. - Marco Travaglio


L’altra sera, a Otto e mezzo, Alessandro Sallusti ne ha detta una giusta: “Ci mancherebbe altro che il governo non riuscisse a riaprire le scuole!”. Già, ma fino al giorno prima l’intera stampa e tutti gli iscritti al partito dominante – il Partito Preso – dicevano che le scuole non avrebbero riaperto e, se qualcuna si fosse azzardata a farlo, si sarebbe presentata agli studenti senza aule, né sedie né banchi né cattedre né insegnanti né bidelli né mascherine né lavagne né gessetti né cessi né niente. Questo continuo annunciare catastrofi e apocalissi che poi non si verificano mai è uno dei motivi per cui la gente non si fida più dei giornali. 

Il Reddito di cittadinanza non si farà mai! Fatto. Il blocco della prescrizione non passerà mai! Passato. Non oseranno mai cacciare i Benetton da Autostrade! Cacciati. Il governo M5S-Pd è impossibile! Infatti. Conte non eviterà mai la procedura d’infrazione! Evitata due volte. Gli Eurobond non passeranno mai! Passati. Conte non avrà mai 173 miliardi di Recovery Fund! Ne ha ottenuti 209. Tutti prenderanno il Mes e Conte e M5S caleranno le brache! In Europa non lo vuole e non ne parla nessuno, a parte Cipro e i nostri giornaloni. Non riusciremo mai a far abolire i trattati di Dublino sui migrantii! Ieri Von der Leyen ne ha annunciato l’abolizione. Conte cade! Oggi no, domani vedremo. Così le scuole: fino al giorno prima di riaprire, non dovevano riaprire.

“I sindacati alla Azzolina: ‘La scuola non riaprirà’” (Giornale, 18.7).

“Salta il banco. Disastro Arcuri-Azzolina. Caos scuola su tavoli e sedie. Rivolta delle aziende contro l’assurdità del bando: ‘Ci vogliono 5 anni per 3,7 milioni di banchi’” (Giornale, 23.7).

“I presidi denunciano i ritardi del ministero: così non riusciamo a ripartire. Assufficio e Assodidattica: ‘Qualcuno si pone il problema se la gara dei banchi andrà deserta?’” (Repubblica, 24.7).

“‘La gara andrà deserta’. Il pasticcio di Arcuri e Azzolina sui banchi” (Luciano Capone, Foglio, 24.7).

“Scuola, rischio caos per settembre. I produttori: impossibile fornire 3 milioni di banchi. Assufficio: le condizioni di gara non sono accettabili. I produttori potrebbero disertare il bando” (Sole 24 Ore, 28.7).

“Azzolina-Arcuri, 2 incapaci coperti da Conte. Il bando andrà deserto, è scritto coi piedi” (Mario Giordano, Verità, 29.7).

“Arcuri fa cagate di bandi” (Nicola Porro, 30.7).

“Sui banchi anche la Scavolini scarica Arcuri. Se non saranno gli stranieri né i colossi italiani, chi salverà la scuola? Un altro bluff, ma di breve durata. Le aziende non si sono fatte avanti, né i colossi italiani ne quelle straniere” (Capone, Foglio, 31.7).

Poi al bando partecipano 14 aziende italiane e straniere e lo vincono in 11 per consegnare 2,4 milioni di banchi entro ottobre. Ma subito si ricomincia.

“La resa del governo sulla scuola: lezioni da casa. In sei mesi non è cambiato nulla” (Libero, 1.9).

“La scuola riapre con le classi a turno. Studenti obbligati a rimanere a casa” (Verità, 3.9).

“Coperte solo 3 cattedre su 10” (Messaggero, 4.9).

“Scuole in alto mare: ‘Rinviamo l’apertura’” (Repubblica-Roma, 5.9).

“Scuola, ultimi in Europa. Linee guida oscure e diffuse all’ultimo momento. Nessun collegamento coi servizi territoriali. E il record di chiusura. Il confronto con l’Ue è impietoso” (Espresso, 6.9).

“Scuole al via senza banchi. E manca un docente su 4” (Messaggero, 7.9).

“Banchi in ritardo, l’ansia del Quirinale” (Corriere della Sera, 7.9).

“Scuola, caos a una settimana dal via” (Messaggero-Roma, 8.9).

“Colle pronto a bocciare Giuseppi sulla scuola. Mattarella è stufo di lui” (Maurizio Belpietro, Verità, 8.9).

“La scuola riparte solo a metà” (Repubblica, 9.9).

“Scuola, le spinte per il rinvio. Molti presidi chiedono di ritardare l’avvio delle lezioni” (Corriere della Sera, 9.9).

“In aula un giorno a settimana o turni di 3 ore: è una giungla” (Messaggero, 9.9).

“Senza banchi né prof: ‘Costretti ad aprire, ma non siamo pronti’” (Repubblica-Roma, 10.9).

“I presidi si ribellano: ‘Così è impossibile partire’” (Stampa, 10.9).

“La campanella della scuola si prepara a suonare a morto” (Libero, 10.9).

“Conte: al via il 14. Ma i presidi si ribellano” (Stampa, 10.9).

“Conte: scuole al via. Presidi in trincea: il 14 è impossibile” (Messaggero, 10.9).

“Lezioni da casa per tutto l’anno” (Messaggero, 11.9).

“Scuola al via, mascherine già un miraggio” (Stampa, 11.9).

“Scuola senza aule, banchi e mascherine” (Verità, 11.9).

“Una scuola su 4 è a rischio chiusura” (Giornale, 12.9).

“Promesse mancate. Il tempo perso che rende pericoloso tornare in aula” (Luca Ricolfi, Messaggero, 12.9).

“Per tornare in classe ci rimane il Padreterno. Manca tutto, resta solo la fede” (Libero, 13.9).

Poi la scuola riapre, all’italiana ma molto meno peggio delle attese, e subito sparisce dai radar dei giornali. Che già preparano la prossima bufala. Ci vorrebbe una mozione di sfiducia, se non ci avessero già pensato i lettori.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/17/minzione-di-sfiducia/5934284/

Contro i dirottatori del referendum. - Salvatore Settis


Un decalogo - Attenti ai “benaltristi”, alle prediche interessate e ai falsi argomenti: conviene scegliere tra  e NO rimanendo al merito, senza agitare l’apocalisse . E soprattutto, a votare è meglio andarci.

Caro Salvatore, il tuo articolo sul Fatto del 2 settembre mi aveva convinto a votare ‘Sì’ al referendum, ma mi ha anche spinto a leggere tanti altri interventi, per il ‘Sì’ e per il ‘No’. E dopo aver letto tante voci discordanti sono di nuovo perplessa e confusa: ci sono tanti argomenti per tutte le due posizioni, e la discussione è tortuosa e difficile da seguire con tanti risvolti. Non sarà meglio tenersene alla larga, e non andare a votare?

Marianna
Cara Marianna, ti do ragione due volte, ma non tre. Hai ragione quando dici che sul referendum ci sono argomenti tanto per il SÌ quanto per il NO; e hai ragione quando dici che la discussione in merito è spesso tortuosa e confusa.
Ma hai torto se credi che con queste premesse è impossibile scegliere, ed è meglio astenersi. Non votare in un referendum senza quorum come questo vuol dire ‘votare’ per chi vincerà, chiunque sia e quali che siano i suoi argomenti. Vuol dire arrendersi, dichiarare forfait per timore di non capire. Prima di prendere questa strada, prova a ragionare a fondo sui perché del SÌ e del NO. Io provo intanto a proporti qualche criterio per orientarsi nella selva delle argomentazioni, quelle buone e quelle speciose.
Primo criterio. La Costituzione è per sempre. Perciò nei referendum costituzionali valgono solo gli argomenti sul merito della riforma proposta su un punto molto specifico, e nessun altro. Per esempio, la riforma Renzi-Boschi meritava di essere liquidata da un sonoro NO non perché a volerlo fare era quel governo, ma perché pretendeva di cambiare in un colpo 47 articoli della Carta. Nel referendum del 20 settembre la domanda da farsi è una sola: ridurre il numero dei parlamentari è positivo per il funzionamento della nostra democrazia? O è negativo? O indifferente?
Secondo. Meglio non arrendersi alla tribù dei Benaltristi: quelli che davanti a qualsiasi problema, perfino un referendum costituzionale, proclamano: “ci vorrebbe ben altro”. Chi dice che questa riforma non ridurrà le ingiustizie sociali, non cancellerà la disoccupazione né migliorerà sanità e ricerca, scuola e tutela del paesaggio dice il vero, ma usa un argomento che col referendum non c’entra nulla. Controprova: e se vince il NO, quale di questi problemi si risolve d’incanto?.
Terzo. Bisogna insospettirsi davanti a ogni tentativo di dirottamento. Per esempio, se ti dicono: ma se voti SÌ sarai in cattiva compagnia, perché così votano X, Y, Z, ricordati che pochi anni fa la riforma Renzi-Boschi fu bocciata non per la travolgente, isolata forza di una sinistra rivoluzionaria, ma perché votarono NO anche la Lega e Forza Italia. Era una pessima compagnia, ma in un referendum costituzionale deve contare, per te come per ciascun elettore, il merito della decisione da prendersi, e non chi, per ragioni tattiche non sempre impeccabili, ha finito per votare come te.
Quarto. A chi ti dice che più sono i parlamentari e più sono rappresentati i territori, le minoranze o i micropartiti, prova a obiettare: e perché allora non proponete di accrescere il numero dei parlamentari, per rendere il Parlamento ancor più rappresentativo? E come mai non avete protestato quando la Camera approvò questa riforma con oltre il 90% di maggioranza? Perché mai avete aspettato il referendum per esprimere il vostro dissenso? E quale sarebbe secondo voi il numero ideale perché la rappresentanza funzioni al meglio? Il numero odierno di senatori e deputati, a cui si è giunti combinando quanto disposto dalla Costituente con leggi successive, è la pura e insindacabile perfezione? E perché?
Quinto. Se ti dicono “la Costituzione non si tocca !”, rispondi: è proprio vero, e dunque non si tocca nemmeno l’articolo 138, dove si prescrive che la Costituzione può essere modificata, e si spiega come e con quale procedura. Settantacinque anni di Repubblica hanno mostrato che le riforme puntuali, di uno o due o tre articoli, “passano”, anche quando non sono un granché (come quella dell’art. 81 sul pareggio di bilancio), mentre i tentativi di stravolgere la Carta modificandone in un sol colpo 40 o 50 articoli vengono respinti dai cittadini. Lo hanno imparato a proprie spese Berlusconi e Renzi.
Sesto. Chiediti sempre da che pulpito viene la predica. Non è necessario ricordare tutto di tutti, ma molto si può controllare. C’è chi oggi vota NO perché la riduzione dei parlamentari è populista, antiparlamentarista etc.: verifica in Rete, e se trovi che la stessa persona ha sostenuto il contrario due, tre, cinque anni fa saprai in un fiat che non ha ragionato sul merito, ma sulla convenienza del momento.
Settimo. È vero, questa riduzione del numero di parlamentari richiede altre riforme complementari (regolamenti delle Camere, legge elettorale, riduzione della rappresentanza regionale nel corpo elettorale del Capo dello Stato): tutte in ritardo, nessuna approvabile prima del referendum. Segno che anche i fautori del SÌ hanno perso più d’un treno, e hanno badato al merito e alla sostanza meno di quel che avrebbero dovuto. Ma basta per votare NO? Non sarebbe meglio, una volta passata la riforma, stargli col fiato sul collo perché anche le norme “di contorno” vengano approvate?
Ottavo. Ti diranno che il taglio dei parlamentari è una valvola di sfogo della rabbia sociale diretta contro la “Casta”, e che le pittoresche manifestazioni per il SÌ a suon di forbici sono grottesche. Lo penso anch’io. Ma non dobbiamo scambiare questi falsi argomenti dei fautori del Sì come potenti argomenti in favore del NO. Gli uni e gli altri eludono la sola sostanza: quali sono le conseguenze della riduzione del numero dei parlamentari?
Nono. Non esiste un “numero ideale” dei parlamentari, che garantisca la miglior rappresentanza possibile. Di solito i Parlamenti dei Paesi più piccoli sono più affollati (67 deputati per meno di 500.000 cittadini a Malta), e hanno meno membri nei Paesi più grandi (i 330 milioni di cittadini Usa sono rappresentati da 435 deputati e 200 senatori). Stando alle proporzioni di Malta, l’Italia dovrebbe avere 8.040 parlamentari; se volessimo seguire l’esempio americano, ci toccherebbero 80 deputati e 36 senatori. La rappresentatività non si misura sul numero complessivo, ma sui meccanismi elettorali e sull’effettivo radicamento degli eletti nei territori di provenienza.
Ultimo. Comunque deciderai di votare, non cedere mai alla tentazione di coprire di insulti chi non la pensa come te, o di minacciare l’apocalisse se non vince chi la pensa come te. Rileva, quando è il caso, la debolezza di questo o quell’argomento, l’incoerenza delle posizioni, gli errori di fatto di certe affermazioni. Contrapponi i tuoi argomenti, se parli con qualcuno che ha voglia di ascoltare. E va’ a votare, serenamente rimettendoti a quella che sarà la volontà popolare.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/17/contro-i-dirottatori-del-referendum/5934321/

mercoledì 16 settembre 2020

Il No di sinistra, maledetto imbroglio. - Barbara Spinelli


Bisogna davvero essere ciechi per non vedere che i fautori del No al referendum sul taglio dei parlamentari si agitano molto, in taluni casi fino a sconfinare nel turpiloquio, ma in testa hanno un pensiero unico e fisso: questo Movimento 5 Stelle non ha da esistere, va fatto fuori, e se l’operazione chirurgica comporta la vittoria delle destre e la sconfessione di 40 anni di battaglie del Pd fa niente, sempre meglio del guazzabuglio che abbiamo davanti, i cui contorni sono talmente poco chiari.

A ragionare così è una parte delle sinistre, e man mano che passano i giorni la loro voce si fa al tempo stesso più sgangherata e più inconsistente.

È il caso del No proclamato su «La Stampa» da Roberto Saviano, che non ritiene utile spiegare neanche di soppiatto le ragioni della sua preferenza ma che di una cosa è assolutamente certo: i 5 Stelle, e Di Maio in particolare, sono “intrisi di una cultura profondamente autoritaria e xenofoba” e vanno finalmente liquidati con un sonoro “va ’a cag…” (equivalente sopraffino di vaffa). Quanto a Conte, l’unica prospettiva che offre è morire democristiani, dunque fuori anche lui. Il ragionamento di Montanelli sul voto dato tappandosi il naso per Saviano non vale. Poco importa se Draghi, improbabile profeta della terra promessa, non succederà a Conte sconfitto. Che vengano Salvini e Meloni. Meglio loro che Di Maio, il diavolo in persona, almeno il naso non lo tocchi e il vantaggio non è da poco.

O per meglio dire Saviano offre una ragione, che però non ha nulla a vedere col taglio di parlamentari: questo governo intrallazza con la Libia, accetta che i migranti vengano respinti in un paese dove i richiedenti asilo vengono torturati e uccisi. Obiezione più che giusta e che condivido, se non fosse che a inaugurare gli intrallazzi non sono stati i 5 Stelle ma i governi Pd, la Lega e prima ancora Berlusconi. Non esiste neanche di lontano una maggioranza pronta a ribaltare la politica italiana in Libia ma esiste solo un suo incattivirsi, se Salvini e Meloni vanno al governo.

Non meno inconsistente il No delle Sardine, esperte in frasi fatte e dubbie frequentazioni. Dice Mattia Santori: “Durante il lockdown abbiamo studiato tanto, soprattutto sul percorso e sulle parole che accompagnano un referendum. Per questo votiamo No”. Non è che sia propriamente una spiegazione del voto: in fondo sono stati in tanti a permettersi di passare il lockdown studiando, lasciando che a lavorare restassero Conte e governo, infermieri, medici e scienziati, maestri e “driver”. Se dopo tanto sgobbare Santori annuncia che vota No perché ha studiato farebbe meglio a star lontano dai microfoni.

Poi c’è il no dei giornali mainstream, che i 5 stelle non li hanno mai sopportati. In particolare c’è il No di giornali che vantano una patina ormai slavata di sinistra, tipo «Repubblica». Fa impressione che questo No di sinistra sia sbandierato in nome della Carta costituzionale, che non prescrisse il numero attuale di parlamentari (questi furono portati a oltre 600 con una legge del ’63, per moltiplicare poltrone e clientes ben oltre la proporzione decisa dai costituenti in base alla popolazione). O in nome dell’analogo No che affossò la riforma costituzionale di Renzi. Come se le due riforme fossero paragonabili. Salvatore Settis ha ricordato opportunamente su questo giornale come le due riforme non siano paragonabili: quella odierna prevede il ritocco di due articoli, contro i sostanziosi 45 riscritti da Renzi.

Naturalmente esistono dei No argomentati con più finezza, cioè fornendo qualche dettaglio in più (è il caso di Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, ecc.). Ma questi ultimi sono sommersi dal chiasso dei No vuoti di senso, che hanno come solo obiettivo quello di indebolire la presidenza Conte (il Recovery Fund da lui ottenuto a Bruxelles è appena qualche bruscolino), bloccare ogni timido tentativo di collaborazione fra Pd e 5 Stelle, staccare definitivamente il primo dai secondi, nell ’astrusa convinzione che fra i due, il partito meno confusionario sia il Pd. Questo fronte dei No, Settis lo ritiene ammaliato dal breve termine e del tutto incoerente (praticamente tutti i partiti, a cominciare dal Pd, hanno difeso e votato tagli simili in passato. Per legittimare il Parlamento e non per delegittimarlo).

Il Movimento 5 stelle è certamente una formazione ingarbugliata, come minimo. Ma non c’è partito che non lo sia, a cominciare dal Pd. Alcuni esponenti di quest’ultimo hanno addirittura cambiato opinione in pochi mesi: ieri sì al taglio e oggi no, contro il parere maggioritario del partito. Zanda e Finocchiaro sognano l’atterraggio di Draghi (per quale politica “di sinistra”?) e chi sogna non è tenuto a spiegare.

Non sono tuttavia la confusione e frammentazione del M5S a indisporre di più. Indispone che una buona parte dell’elettorato classico della sinistra ha da tempo traslocato nel Movimento (oltre che nella Lega), e non aspira a tornare nei vecchi partiti. Questo continua a essere intollerabile per il Pd, che insiste in una visione patrimoniale degli elettori (“questi sono MIEI e me li riprendo”). Difficile presentarsi come partito che ha ambizioni egemoniche sulla sinistra o sulla cultura, quando hai sacrificato quasi tutti i tuoi vecchi programmi al punto di fare affidamento sul neoliberismo di Draghi, e vieni sistematicamente sor – passato da un movimento – un elettorato – non più monopolizzabile. L’unico che ha intuito il dramma è Bersani, il quale voterà Sì e dice chiaramente che non sarebbe Draghi a profittare di una disfatta al referendum – soprattutto se combinata con sconfitte alle regionali – ma Salvini e Meloni.

Una delle più convincenti argomentazioni a favore del Sì mi è parsa quella di Lorenza Carlassare. “Se passasse il No –dice la costituzionalista –nulla verrebbe più cambiato. In particolare non verrebbe più cambiata neppure la legge elettorale […] la scelta di chi sarà eletto è unicamente operata dalle direzioni dei partiti […] prescindendo completamente dal rapporto con gli elettori”. E ancora: “In questa situazione non conta tanto il numero dei parlamentari quanto il loro rapporto con gli elettori. Se verso di noi non sentono alcuna responsabilità, di che democrazia stiamo parlando?” Già: di che democrazia stiamo parlando? Nessuno prova speciali godimenti nel votare turandosi il naso (neanche a Montanelli “piaceva”) ma godere per una vittoria di Salvini che magari chissà, faciliterà l’arrivo di Draghi, è più di un errore. È un maledetto imbroglio.

http://barbara-spinelli.it/2020/09/13/il-no-di-sinistra-maledetto-imbroglio/?fbclid=IwAR00XxLLey6sAdqFRsMGqXAJzJo83RVg3it7mCt9Mc31nvD1zGdobS47aIE

Le ragioni del si.


1 Il Parlamento sarà più efficiente.                                                                                      Durante l’Assemblea Costituente, precisamente il 13 settembre 1946, Luigi Einaudi disse: “Quanto più è grande il numero dei componenti di un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata”. Molti esperti, tra cui il professor Roberto Perotti e diversi costituzionalisti, sostengono che le assemblee pletoriche funzionino molto poco e male e creino troppa confusione: il taglio renderebbe più efficienti i lavori dell’aula e delle commissioni, dando per scontate le obbligatorie modifiche ai regolamenti parlamentari per adeguare Montecitorio e Palazzo Madama ai numeri stabiliti nella riforma.

I parlamentari saranno poi incentivati a lavorare più e meglio, perché la loro attività legislativa – proposte di legge, emendamenti, interventi in aula, interrogazioni – sarà più incisiva. Con meno eletti, ciascuno avrà più peso nel dibattito interno ai partiti e in quello con le altre forze politiche, essendo più difficile delegare le responsabilità sugli altri.

2 Il taglio è un segnale di giustizia sociale.
Dopo parecchi anni di lacrime e sangue – come si diceva fino a qualche tempo fa – e di sacrifici imposti ai cittadini (tanto più con la crisi provocata dal Covid), il taglio dei parlamentari sarebbe uno dei rari casi in cui è la politica a mettersi a dieta. Un gesto simbolico, oltre che di sostanza. Non solo: da qualche tempo i partiti hanno accettato, talvolta loro malgrado, spesso su pressione o per paura del Movimento 5 Stelle, qualche taglio ai loro sprechi. Si sono tagliati i vitalizi (anche se al Senato tentano di farli rientrare dalla finestra), hanno abolito il finanziamento pubblico e infine hanno approvato la riduzione delle proprie poltrone.
Se vincesse il No, la Casta avrebbe ottimi motivi per tirare un sospiro di sollievo e considerare il risultato del referendum come un alibi per interrompere questo processo virtuoso di autoriforma contro i privilegi e gli sprechi, e magari sentirsi in diritto di riprendersi anche ciò che faticosamente era stato tagliato negli ultimi anni.

3 Abbiamo quasi 2mila “legislatori”: troppi.
Quando la Carta entrò in vigore, nel 1948, si pensò di legare la quantità di seggi in Parlamento al numero degli abitanti, rendendo quindi variabile la composizione di Camera e Senato a seconda della popolazione. Solo nel 1963 si arrivò, attraverso una riforma costituzionale voluta dalla Dc e dai suoi alleati, all’attuale formazione di 630 deputati e 315 senatori. Ma né nel 1963 né tantomeno nel 1948 esistevano i consigli regionali e il Parlamento europeo: istituzioni legislative che garantiscono ulteriore rappresentanza politica, da una parte con un ente intermedio tra Stato e Comune e dall’altra portando i nostri interessi nell’Unione. Ma che han fatto lievitare il numero dei legislatori eletti a 1918: 945 parlamentari, 76 eurodeputati e 897 consiglieri regionali.
Per i primi consigli regionali si votò nel 1970 e per il Parlamento europeo nel 1979. Circostanze che oggi consentono di ridurre quel numero di parlamentari nazionali deciso nel 1963, in un contesto che concentrava l’intera produzione legislativa e la rappresentanza a Roma: ora le leggi si fanno anche a Bruxelles e nelle Regioni.

4 Si apre la strada a una nuova legge elettorale.
Come sostiene la costituzionalista Lorenza Carlassare, il Sì permetterà – anzi imporrà, non foss’altro che per ridisegnare collegi più ampi – di “approvare una legge elettorale” che (si spera, e ci batteremo per questo) restituisca agli elettori il diritto e il potere di scegliersi i parlamentari. Il No invece lascerebbe intatto il numero degli eletti e dei collegi, non obbligherebbe il Parlamento a intervenire sulle regole del voto e sarebbe una pietra tombale su ogni altra riforma.
Il taglio permetterà anche di approvare correttivi già incardinati in Parlamento: il 25 settembre arriva alla Camera il “Brescellum”, un proporzionale sul modello tedesco con soglia di sbarramento al 5% e potrebbe essere l’occasione per reintrodurvi le preferenze; il 28 giungeranno a Montecitorio i due correttivi del deputato di LeU Federico Fornaro (superamento della base regionale del Senato e riduzione dei delegati regionali per eleggere il Capo dello Stato). Il Senato ha già approvato l’equiparazione dell’elettorato attivo delle Camere: i diciottenni potranno votare anche per il Senato.

5 Potremo controllare meglio i parlamentari.
Tagliare il numero dei parlamentari – meglio se con un buon sistema di scelta – sortirà un altro effetto positivo: gli eletti, essendo stati scelti da un maggior numero di elettori, saranno più rappresentativi e autorevoli e si sentiranno anche più autonomi dal controllo dei partiti. Non solo: essendo meno numerosi (da 945 a 600), ciascuno non potrà più nascondersi dietro gli altri 944 e approfittare dell’anonimato di un’assemblea pletorica per non lavorare: gli eletti sapranno cioè di essere più riconoscibili, dunque più controllabili dall’opinione pubblica e dai cittadini.
Quindi ridurre il numero degli eletti sarà un incentivo a lavorare di più e meglio. Molti elettori oggi non conoscono nemmeno il nome dei propri rappresentanti, un po’ per l’alto numero degli eletti, un po’ perché sistemi elettorali fantasiosi hanno reso difficile risalire a quale parlamentare sia stato scelto nel proprio collegio. Se saranno in 600 sarà molto più facile tenerli d’occhio: è il valore, britannico, dell’accountability.

6 Il taglio c’è già: non pagare gli assenteisti.
Secondo i dati Openpolis, nella scorsa legislatura “dei circa mille deputati e senatori, solo un centinaio è riuscito a influire sui lavori di Montecitorio e Palazzo Madama”. Tra il 2013 e il 2018, “il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni”.
Nella nuova legislatura le cose non vanno molto meglio, se si pensa a record clamorosi: alla Camera è eletta la forzista Michela Vittoria Brambilla, che però in aula è stata assente quasi il 99% delle volte: ha concesso al Parlamento cinque o sei apparizioni l’anno. Così ha fatto anche Antonio Angelucci, berlusconiano e dominus della sanità laziale, che supera il 94% di assenze in aula. Al Senato invece Tommaso Cerno ha mancato l’84% dei voti e Niccolò Ghedini il 69%. Casi limite che però non sono così fuori contesto, in un’assemblea che rinuncia già di fatto a centinaia di eletti ogni legislatura. Con la riforma, almeno, smetteremo di pagar loro lo stipendio.

7 Una riforma ampiamente condivisa.
Nonostante qualcuno, nelle ultime settimane, abbia associato la riforma al simbolo dell’anima “populista” e “antipolitica” del Movimento 5 Stelle (oltre che della Lega e di FdI), il taglio dei parlamentari è stato promesso per 40 anni – nella Prima e nella Seconda Repubblica a partire dalla commissione Bozzi del 1983 – da tutti i partiti e ha sempre riscosso il favore della maggioranza degli italiani, stando ai sondaggi. Centrosinistra e centrodestra hanno più volte inserito la riduzione dei parlamentari nei loro programmi elettorali, certi di solleticare i propri simpatizzanti su un tema largamente apprezzato. Nel 2008 il Pd presentò un disegno di legge identico a quello di oggi. Anche quando questa riforma è arrivata in Parlamento il consenso è stato ampio: nelle precedenti legislature e ancor più nell’attuale, quando nell’ultima lettura alla Camera il testo è stato approvato col 98% dei votanti e soltanto 14 contrari. Solo in un secondo momento alcuni ci hanno ripensato, promuovendo il referendum e iniziando la campagna per il No.

8 Così ci allineiamo agli altri paesi europei.
Con il taglio, l’Italia si uniforma agli altri Paesi europei per i costi e i numeri del Parlamento e per le riforme in materia. In primo luogo, secondo i bilanci di previsione della Camera, il Parlamento italiano è il più caro d’Europa se paragonato agli altri Paesi omogenei al nostro: solo la Camera costa 970 milioni l’anno (16,2 euro a cittadino), contro i 970 della Germania (14,1 a cittadino), ai 517 della Francia (7,7), 226 milioni della Gran Bretagna (3,7), 85 della Spagna (1,8). Se nel conteggio aggiungiamo poi anche il Senato, elettivo solo in Italia, il costo annuale del Parlamento sale a 1,5 miliardi, pari a 25 euro per ogni contribuente.
Anche sulle riforme, l’Italia si allineerebbe agli altri Paesi che stanno approvando progetti di legge simili: la Germania vuole modificare i distretti elettorali (e quindi gli eletti del Bundestag) da 298 a 280, la Francia progetta di ridurre i rappresentanti dell’Assemblea Nazionale del 25% (da 577 a 404) e la Gran Bretagna i deputati da 659 a 600.

9 Si risparmia il 7% dei costi del parlamento.
Il taglio di 345 parlamentari su 945 produrrà un risparmio sui conti pubblici. Le stime sono diverse: secondo l’osservatorio dei Conti Pubblici di Carlo Cottarelli, il risparmio ammonta a 57 milioni l’anno, pari a circa 300 milioni di euro per legislatura. Per Roberto Perotti, docente di Macroeconomia alla Bocconi, si risparmia circa il doppio: 100 milioni all’anno, di cui 22 per le indennità, 35 per rimborsi spese, diaria e assistenti, 20 per vitalizi e doppia pensione e altri 20 per i costi variabili, dalla pulizia dei locali alla carta prodotta per leggi, emendamenti e dossier. Con questo calcolo il risparmio arriva a quota mezzo miliardo a legislatura. Ma c’è chi, come il sottosegretario 5Stelle Riccardo Fraccaro, fa notare che le spese scenderanno ancora di più, tenendo conto dei contributi ai gruppi parlamentari.
In ogni caso, prendendo per buono il calcolo di Perotti, gli italiani risparmierebbero circa il 6-7% sui costi del Parlamento. Una cifra che, se eguagliata da tutte le altre Pubbliche amministrazioni, inciderebbe sulla spesa pubblica per svariate decine di miliardi.

10 Se vince il sì, possibili altre buone riforme.
Il taglio del numero dei parlamentari può essere l’inizio di un percorso volto a migliorare l’efficienza del Parlamento e la selezione dei nostri rappresentanti. Per questo, in caso di vittoria del Sì, il giorno dopo il referendum Il Fatto avvierà una campagna per promuovere altre due riforme, attraverso la legge ordinaria. La prima affinché, una volta tagliate le poltrone, i parlamentari si riducano gli stipendi, adeguandoli alla media degli altri Paesi europei: oggi, infatti, i parlamentari italiani sono i più pagati al mondo. La seconda, affinchè si approfitti dei necessari correttivi imposti dal taglio alla legge elettorale (andranno anzitutto rivisti i confini di collegi e circoscrizioni, ma non solo), scrivendo una nuova legge elettorale che cancelli il peccato mortale delle ultime tre approvate da destra e sinistra (Porcellum, Italicum e Rosatellum): le liste bloccate che dal 2005 in poi hanno espropriato noi cittadini del potere di scegliere i nostri rappresentanti, consegnandolo a capipartito e capibastone.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/15/le-ragioni-del-si/5931699/

‘Mi è scappato un no’: Giorgia Meloni imita bene Totò. - Antonio Padellaro


Titolone del Giornale: “Svolta della Meloni: con il No vanno a casa”. Oibò, leggiamo meglio cosa dice la leader di Fratelli d’Italia: “Io sono per il Sì al taglio dei parlamentari, ma l’idea che la vittoria del No possa creare un sommovimento nel governo rischia di avere la meglio”.

A questo punto, assai poco originale chiedo scusa ai lettori, ma la citatissima scena dei Tartassati cade a pennello. Totò che cerca di ingraziarsi il maresciallo della tributaria, Aldo Fabrizi, giocando sulle comuni simpatie politiche, ma quando comprende di aver preso un abbaglio pensando che Fabrizi sia un nostalgico del fascismo, si allinea in un baleno, derubricando la sua precedente adesione a un “mi sarà scappato un pro, ma io sono anti”.

Ora, lungi da me qualunque accostamento tra Giorgia Meloni e determinate nostalgie (argomento di chi non possiede altri argomenti) però trovo irresistibile l’analogia tra il “mi sarà scappato un pro” del film con il “mi sarà scappato un No” che in queste ore agita assai le acque della destra. Come dimostra l’endorsement per il No di Giancarlo Giorgetti, ex (?) braccio destro di Matteo Salvini che pur avendo votato Sì, Sì, Sì e ancora Sì, nei successivi voti parlamentari sul taglio, e pur avendo schierato il suo partito sul Sì al referendum, adesso ingolosito dal No, per le stesse ragioni della Meloni, se la cava con uno scontatissimo: “La Lega non è una caserma”.

Eppure, la vera parola chiave dei partiti sovranisti dovrebbe essere: “anti”. Infatti, come ha ripetuto ieri alla Verità, la Meloni sostiene di “avere molte proposte da fare per dare una mano all’Italia”, ma che “se il buongiorno si vede dal mattino non credo al governo interesseranno”. Fatto sta che l’opposizione di destra-destra è convintamente e incessantemente “anti” tutto ciò che fa il governo, a prescindere (come direbbe Totò). Il quale Totò, autore della immortale massima (“la serva serve”) potrebbe facilmente eccepire che l’opposizione si oppone, altrimenti che razza d’opposizione sarebbe.

E dunque chissenefrega del Sì se con la vittoria del No si manda a casa Conte. Anche perché con il giochino io sono per il Sì ma i miei sono per il No, la sera dei risultati Salvini e Meloni potranno dire di avere vinto comunque (carta perde, carta vince).

Ci resta un dubbio visto che la Meloni chiede a Mattarella di sciogliere le Camere se lunedì prossimo la maggioranza di governo risultasse definitivamente minoranza nel Paese. Ma visto che Salvini sostiene che i risultati delle Regionali “non avranno effetti sul governo”, sappiamo già cosa dirà se cambiasse idea: mi sarà scappato un pro ma io sono anti. O viceversa.

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I Gattopardi con Bonaccini per far fuori Zinga (e Conte). - Wanda Marra

 


Se il Pd perde le elezioni il governatore può aprire la crisi nel partito, aiutato da “Repubblica” di Elkann.

Sostituire Giuseppe Conte alla guida del governo. L’obiettivo non è di pochi. Convergenze parallele di intenti, con interessi che si incontrano, anche se magari non si sovrappongono. L’operazione si svolge su più livelli: Stefano Bonaccini punta alla segreteria del Pd. Aprire un congresso per far fuori Nicola Zingaretti cambierebbe la strategia del Pd e l’indebolimento del governo sarebbe la prima conseguenza. Matteo Renzi vuol trovare un modo per rimettersi in gioco, dopo l’operazione fallimentare di Iv: rientrare nel Pd, oppure stabilire un’alleanza forte con il nuovo segretario sarebbe una strada da percorrere di pari passo alla creazione di un fronte moderato, ricongiungendosi con Carlo Calenda e Matteo Richetti di Azione e coagulando una parte di FI. E poi c’è Repubblica, che con la nuova proprietà degli Elkann e la nuova direzione di Maurizio Molinari, guarda più alle lobby che al tradizionale mondo di sinistra moderata.

L’occasione per un rovesciamento del quadro politico, che si porterebbe incorporata la gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund, potrebbe arrivare da una sconfitta elettorale domenica e lunedì alle Regionali. Rafforzata, magari, dalla vittoria del No al referendum sul taglio dei parlamentari.

Ad anticipare la problematica è stato il vicesegretario, Andrea Orlando, lo scorso maggio. “Con questo governo mettiamo in circolo denaro come mai accaduto negli anni scorsi. E fa gola. Anche gli editori, diciamo non puri, sono interessati a gestire, o almeno a sfruttare, questo momento straordinario. Qualcuno potrebbe promuovere stravolgimenti nella maggioranza”, diceva Orlando. E si riferiva esplicitamente agli assetti azionari mutati nei grandi gruppi editoriali italiani, ovvero alla famiglia Agnelli/Elkann nella proprietà del gruppo Gedi, cioè dell’ex gruppo Espresso e di Repubblica. In chiusura della Festa dell’Unità di Modena, domenica, Zingaretti ha citato “i Gattopardi” pronti a mettere le mani sul Recovery Fund. Non è sfuggita nel frattempo qualche presa di posizione di Repubblica: nel bel mezzo del negoziato per ottenere i soldi europei, a luglio, il giornale titolava “Italia all’angolo”, in un momento in cui nell’angolo ci stava più l’Olanda. Poi, ha scelto di sposare il No al taglio dei seggi.

Quali sono i “Gattopardi” a cui si riferisce il segretario dem? Nel Pd si tende a identificarli con il fronte confindustriale, guidato da Bonomi. Lo stesso che in passato ha appoggiato il governo Conte e che adesso vorrebbe rovesciarlo. Si indica anche una stagione di licenziamenti che arriveranno, a cominciare dal gruppo Fiat, e che sia Repubblica, sia La Stampa (l’altro quotidiano del gruppo) dovranno avallare. Questa operazione potrebbe sfruttare la voglia di Bonaccini di partire alla conquista del Pd. L’uscita sul possibile ritorno di Renzi e di Bersani (lui la spiega per un Pd oltre il 20%) non è piaciuta a molti. In compenso ha ricevuto il plauso di Andrea Marcucci. In realtà, non ha convinto neanche i bersaniani, che non ci stanno a essere messi sullo stesso piano dei renziani. Tanto è vero che il presidente dell’Emilia-Romagna è apparso molto nervoso in questi giorni. Però, le tracce non sono così semplici e lineari: quello che viene definito l’“immobilismo” di Zingaretti non piace né dentro, né fuori il partito.

La partita è aperta. Per chi ci vede lo zampino di Confindustria, il progetto sarebbe più ampio, per una modifica totale del quadro: puntare da una parte su Bonaccini, dall’altra su Luca Zaia, governatore del Veneto, ben più moderato e convincente per alcuni mondi di Salvini. E Calenda in certi ambienti ci sta di diritto. Il disegno non è perfetto: anche i poteri forti sono ormai tutto tranne che un blocco unico. Resta poi da capire quando e con quali voti queste operazioni potrebbero portare a una nuova maggioranza. Di andare a votare senza legge elettorale non se ne parla. Torna l’idea di Mario Draghi. La maggioranza del Pd guarda a un Conte ter. Ma in politica, i cambi di scenario sono la regola.

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