giovedì 26 novembre 2020

Quando uno stupro diventa stupro dell’informazione. - Selvaggia Lucarelli

 

Un giorno bisognerà chiedere a Massimo Giletti cosa gli è successo a un certo punto della vita. Come ci si possa autoproclamare paladino della legalità un giorno sì e l’altro pure, e dieci minuti dopo affrontare un caso delicato come quello di Alberto Genovese e lo stupro ai danni di una 18enne, con la superficialità pericolosa e imbarazzante cui si è assistito domenica a Non è l’arena. Dico solo che si occupava del caso anche Barbara D’Urso e al confronto pareva la Cnn. Basterebbe già solo descrivere il parterre degli ospiti esperti/moralizzatori: Nunzia De Girolamo, che ha sulla testa una richiesta di condanna a 8 anni per associazione a delinquere. Fabrizio Corona, ai domiciliari con più condanne che tatuaggi, e Hoara Borselli, il cui valore aggiunto è probabilmente quello di essere incensurata. Il perché Fabrizio Corona avrebbe qualcosa da raccontare sulle feste di Genovese è mistero fitto, visto che non solo non ci è mai stato, ma neppure frequenta feste milanesi da un bel po’, visto che nel 2013 è stato arrestato e da quel momento è entrato e uscito dal carcere avendo, al massimo, permessi per lavorare. Massimo Giletti si avvale di Corona come di una sorta di autore/consulente del programma. Corona gli propone storie e ospiti, e magari ci scappa anche la sua presenza in studio. È andata così con Mirko Scarcella, ci ha provato con una vittima di tentato femminicidio che ha gentilmente declinato l’invito, è andata così con la storia di Genovese. Sarebbe lo stesso Corona ad aver strappato Daniele Leali, l’amico di Genovese, alla concorrenza (la D’Urso) e ad averlo portato su La7. E da qui la promozione a moralizzatore: la volta scorsa accusava Briatore di parlare di economia e di non pagare le tasse, lui che teneva i soldi nel controsoffitto per pagarle con calma. Questa volta accusa questo mondo corrotto dei party pieni di droga, lui che in passato è uscito dal carcere per curare la sua tossicodipendenza (su cui aleggiano alcuni misteri). Attendiamo che Giletti lo inviti a darci lezioni anche nella giornata dedicata alla guida con prudenza.

Fin qui si potrebbe anche sorvolare, se non fosse che il siparietto è stato non solo sconcertante, ma anche volgarmente accusatorio nei confronti di persone perbene. Mentre tutti, conduttore compreso, continuavano a ribadire che l’amico di Genovese coraggiosamente in collegamento da Bali “non è neppure indagato”, Fabrizio Corona si permetteva di fare più volte il nome di Carlo Cracco accusandolo di “connivenza”. Non solo, aggiungeva che “la posizione di Carlo Cracco, del buttafuori e di Leali è la stessa”. Notare che Leali aveva invitato le ragazze alla festa incriminata e da molte è stato accusato di essere colui che girava con i vassoi della droga, il bodyguard piantonava la stanza dello stupro e Cracco era andato tre ore per offrire (pagato) un servizio di catering con moglie e collaboratori a un’unica festa di Genovese. Non la festa dello stupro, per giunta. Stessa posizione, identica. Ed era esilarante sentire Giletti che “Nomini ancora Cracco? Io mi dissocio!”, come se non fosse evidente che si dissocia da chi invita perché dica esattamente le cose da cui si dissocia. Tra parentesi, Carlo Cracco si è rivolto al suo legale e la puntata è stranamente sparita dal sito di La7 (ne sono rimasti alcuni estratti, in cui non appare Fabrizio Corona)

Ma non è solo questo il problema. L’amico di Genovese, convinto forse che andare in tv faccia bene alla sua immagine, dice una serie di cose sconcertanti, da “C’erano 30 persone, ma poche ragazze molto giovani, sotto i 20 anni solo 5 o 6 (il 20%)”. O: “Noi ritiravamo i telefoni agli ospiti perché così la gente socializzava” (come no, il proprietario di casa ci teneva così tanto a socializzare che si chiudeva in camera e riappariva la mattina dopo). O: “Se c’era la cocaina? È in tutte le feste, avete scoperto acqua calda”. E lì, mentre il conduttore ribadiva di avere rispetto per questo individuo “perché ci ha messo la faccia”, era tutto un “Come dice Corona”, “Come ha detto Corona”. Insomma, Corona maître à penser. E nel frattempo si univa al parterre l’avvocato della ragazza stuprata, tale Saverio Macrì, il quale desta qualche perplessità. Giovanissimo (ha 32 anni), iscritto all’Ordine degli avvocati dal 2019, un passato da calciatore e, come lo stesso Leali, nel giro dei locali e della notte: è infatti proprietario col padre (dentista dei vip) e altri soci di locali tra Milano e Formentera. Ovviamente, nessuno ci ha fatto caso. Tutti troppo coinvolti dall’edificante racconto su “Cracco il connivente” perché ha portato due tartine a una festa. Insomma, un modo di trattare una vicenda di stupro che è stata uno stupro all’informazione.

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I partigiani dello skilift per la libertà. - Antonio Padellaro

 

Bisogna dare atto alla destra dattilografa e televisiva di avere sempre contrastato la dittatura sanitaria imposta, con la scusa della pandemia, dal bieco governo Conte. Lo scriviamo con qualche apprensione, ma senza sarcasmo, perché ritrovare oggi in quei dibattiti e su quei giornali le stesse considerazioni sul Natale abolito che ascoltavamo e leggevamo cinque mesi fa sul Ferragosto scippato (indimenticabile il balletto della Santanchè per la riapertura delle discoteche) dimostra se non altro una granitica coerenza nella scelta del nemico, costi quel che costi. Costoro, infatti, non potendo negare il virus e le sue tragiche conseguenze, accusano chi ne percepirebbe fraudolentemente i dividendi politici decretando una serie infinita di limitazioni, divieti, segregazioni, condite da abbondante terrorismo psicologico.

Insomma, un terrificante gulag collettivo, espressione di un’odiosa cultura sinistrorsa, edificato dall’avvocato-premier con la fattiva complicità di alcuni utili idioti della virologia. Per cui, sospettiamo, se le stesse misure anticontagio fossero state imposte da un governo a loro affine, probabilmente questi combattenti per la libertà si trasformerebbero nei più fanatici agit-prop della mascherina e del lockdown. Oggi, però, i partigiani dello skilift hanno finalmente il loro manifesto ideologico, apparso su La Verità, con il titolo: “Chi osa desiderare lo svago è un peccatore”. Ancora più evocativo di torture e Santa Inquisizione il sommario: “Il governo non si limita a negare le vacanze, bensì punta il dito: bramare (sic) un abbraccio o una cena con i propri familiari è da egoisti e da irresponsabili”. Segue adeguato pezzo che spaziando da Savonarola a Susan Sontag affronta e sviluppa la pregna tematica della “malattia come colpa”. Un’altrettanta vivace protesta sale dalle pagine di Libero che denuncia: “Il Belgio ordina i raid contro il Natale in casa”. Leggiamo che il Paese considerato più noioso al mondo, autorizzando le “pattuglie di agenti a fare irruzioni nei luoghi dove si festeggia”, si segnala come un luna park della repressione e del raccapriccio. Denuncia infatti lo scioccato estensore che “solo in Corea del Nord e in qualche territorio governato da fondamentalisti islamici, finora, si finiva dietro le sbarre per aver celebrato la Natività”. Devo confessare che pur non bramando particolarmente abbracci e cenoni, un certo spirito libertino tende ad allontanarmi dai predicozzi iettatori delle fate turchine. Per cui, dovendo scegliere, m’imbarcherei volentieri con Lucignolo per un bianco Paese dei Balocchi, attrezzato per gli sport invernali. Sapendo che, purtroppo, ci toccherebbe prima una sosta nel villaggio degli Acchiappacitrulli.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/i-partigiani-dello-skilift-per-la-liberta/6017025/

Il Cazzaro in fuga. - Marco Travaglio

 

Nel Paese dei Senzamemoria, giornaloni e giornalini continuano a spacciare la fiaba del centrodestra che diserta l’Antimafia e chiede le dimissioni del presidente Nicola Morra per le inesistenti offese a Jole Santelli. E nessuno ricorda il vero motivo della guerra di Salvini&C. a Morra. La frase sulla defunta presidente della Calabria viene usata come pretesto (questo sì oltraggioso) per nascondere ben altro: il 5Stelle ha il grave torto di aver convocato Salvini in Antimafia ormai due anni fa, nel dicembre 2018, appena la commissione si insediò. All’epoca era per un’audizione di routine sulle strategie antimafia dell’allora ministro dell’Interno, ovviamente inesistenti (per fortuna se ne occupò il suo collega Bonafede). Poi la Lega, a furia di riciclare il peggio della vecchia politica, finì invischiata in vari scandali di criminalità organizzata. E Morra riconvocò più volte il Cazzaro Verde, non più come ministro, ma come capopartito. Lui il 12 giugno 2019 dichiarò: “Certo che andrò in commissione Antimafia”. Lo stanno ancora aspettando. Quel giorno era stato arrestato a Palermo Francesco Paolo Arata, ex deputato FI, consulente di Salvini che l’aveva candidato a direttore dell’Arera (l’autorità di controllo sull’energia), nonché padre di Federico, consulente di Giorgetti a Palazzo Chigi e organizzatore del viaggio di Salvini negli Usa: l’accusa era di corruzione in concorso col compare Vito Nicastri (pregiudicato per tangenti e indagato – e poi condannato in primo grado – per mafia come amico di Messina Denaro), mentre un’inchiesta della Procura di Roma gli contestava una tangente al sottosegretario Siri, poi cacciato da Conte.

Di questo Morra lo chiamava a rispondere, ma anche delle rivelazioni del pentito Agostino Riccardo sull’appoggio elettorale dato alla lista Noi per Salvini dal clan rom dei Di Silvio a Latina per le Comunali del 2016. Tra i politici non indagati ma citati nell’inchiesta per l’appoggio del clan Di Silvio c’erano Francesco Zicchieri, vice-capogruppo leghista alla Camera, e Matteo Adinolfi, eletto a Terracina, poi promosso coordinatore provinciale della Lega e ora eurodeputato. Figurarsi l’imbarazzo di Salvini a rispondere in Antimafia del sostegno degli odiati “zingari” ai suoi fedelissimi; a giustificare la scelta di un consulente come Arata per il programma energetico della Lega; e anche a spiegare perché non costituì parte civile il Viminale al processo Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato a 14 anni in primo grado). Infatti scappa dall’Antimafia da due anni: mai messo piede. E ora vuol farci credere che ce l’ha con Morra per una frase sulla Santelli. Come si dice dalle sue parti: ma va a ciapa’ i ratt.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/il-cazzaro-in-fuga/6016998/

Surbo, reddito da povero ma con Porsche e locali: sequestrati beni a pregiudicato.

 

L'uomo coinvolto era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti.

Questa mattina i militari del G.I.C.O. del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza del Comando Provinciale di Lecce, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo salentino, stanno dando esecuzione ad un provvedimento di sequestro di prevenzione nei confronti di una persona appartenente ad una famiglia mafiosa egemone in alcuni comuni salentini. I controlli si sono concentrati su un gruppo familiare di Surbo (Le), per verificare se gli investimenti ed il tenore di vita, compresa la gestione di un bar, di un circolo ricreativo, nonché le autovetture (tra cui una fiammante Porsche Macan), l’abitazione ed i conti correnti personali, fossero coerenti con il reddito mensile di poche centinaia di euro dichiarato. All’esito dell’attività dei finanzieri è stata applicata la misura della sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza e il sequestro finalizzato alla confisca di tutti i beni mobili ed immobili il cui valore non ha trovato giustificazione nei redditi dichiarati dall'uomo e dai familiari conviventi. Il coinvolto era già stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per associazione a delinquere finalizzata al traffico degli stupefacenti, e recentemente denunciato. Sequestrata anche un'abitazione a Surbo. 

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/lecce/1263259/gestisce-locali-e-ha-anche-una-porsche-ma-il-reddito-dichiarato-e-di-poche-centinaia-di-euro-sequestro-nel-leccese.html

mercoledì 25 novembre 2020

La sterzata della Francia sulla tutela del clima: “Arriva il reato di ecocidio”. - Luana De Micco

 

La proposta di due ministri. Nell'ordinamento entreranno due tipi di contestazioni: la prima è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all'ambiente, la seconda è un “reato per la messa in pericolo grave dell'ambiente”. Previste multe fino a 4,5 milioni e anche la reclusione.

La Francia si prepara ad introdurre nel suo codice penale il concetto di “ecocidio”: inquinare e compiere azioni gravi contro l’ambiente diventeranno dunque reati. L’annuncio è arrivato sulle pagine del settimanale della domenica, Le Journal du Dimanche (JDD), che ha pubblicato un’intervista a due dei ministri, della Giustizia e dell’Ecologia, Éric Dupont-Moretti e Barbara Pompili (nella foto). Parigi fa dunque un passo avanti per rispondere ai problemi legati al cambiamento climatico e anche alle attese della Convenzione cittadina sul clima, un’assembla di 150 francesi dai 16 agli 80 anni, estratti a sorte, che era stata riunita nel 2019 sulla scia del successo delle marce dei giovani per il clima del movimento Fridays For Future promosso da Greta Thunberg. In nove mesi di dibattiti, la Convezione aveva partorito più di 150 proposte di misure, anche molto concrete, da mettere sul tavolo di Emmanuel Macron per rendere più verde la società francese con un obiettivo ben preciso: ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2023. Il 29 giugno scorso il presidente francese aveva ricevuto all’Eliseo i 150 cittadini assicurando loro che avrebbe ripreso la maggior parte delle loro proposte (146 in tutto) per portare avanti la “transizione ecologica e solidale” del paese. Una delle misure più forti dunque la creazione di un reato di ecocidio che molto presto dovrebbe diventare realtà. Di reati di fatto, hanno spiegato i due ministri al JDD, ne saranno istituiti due. Il primo è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all’ambiente “che sarà sanzionato con pene dai tre ai dieci anni di reclusione – hanno spiegato Dupont-Moretti e Pompili – in funzione che si sia in presenza di un’infrazione per imprudenza, di una violazione deliberata di un obbligo o di un’infrazione intenzionale”. Le multe andranno dai 375.000 ai 4,5 milioni di euro. Il secondo è un “reato per la messa in pericolo grave dell’ambiente” che “intende penalizzare chi mette in pericolo in modo deliberato l’ambiente violando le norme in vigore”. La pene prevista è di un anno di reclusione e 100.000 euro di multa.

Il reato riguarderà per esempio quelle fabbriche che “scaricano dei prodotti che non hanno un’incidenza concreta immediata sull’ambiente, ma di cui si teme che possano mettere in pericolo l’ambiente, i pesci e gli ecosistemi”. I due nuovi reati saranno iscritti nella legge sin dalla prossima settimana. “Oggi c’è chi sceglie di inquinare perché gli costa meno che pulire. Le cose cambieranno”, ha aggiunto Éric Dupont-Moretti. Molto enfaticamente Barbara Pompili, intervenuta anche alla radio FranceInfo, ha detto: “Il braccio della legge si abbatterà finalmente su tutti i banditi dell’ambiente, tutti quelli che gli recano danno o senza farlo apposta, o perché lo hanno voluto o perché hanno fatto una scelta intenzionale”.

Diverse associazioni, come France Nature Environnement, hanno visto nell’annuncio dei ministri un progresso nella politica ambientale del paese. Altre invece hanno fatto notare che il governo ha rivisto al ribasso, soprattutto sul piano delle sanzioni, le ambizioni del progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima che, per esempio, puntava a multe molto più salate, fino a colpire il 20% del fatturato globale delle aziende colte in fallo. Il militante ecologista Cyril Dion ha lanciato a sua volta una petizione online per ricordare a Macron gli impegni presi a giugno con i francesi, raccogliendo in alcuni giorni più di 260.000 firme. Dion ricorda un sondaggio dell’istituto Harris per il quale nove francesi su dieci ritengono che sia “urgente” intervenire in favore del clima.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/24/la-sterzata-della-francia-sulla-tutela-del-clima-arriva-il-reato-di-ecocidio/6014398/

Dateci il vaccino anti-comparsate tv. - Nanni Delbecchi











L’infodemia aspetta ancora il suo vaccino, così si diffonde un consiglio da amico al giorno. Si è appena spento l’eco di Flavio Briatore che per abbassare la febbre consiglia di prendere la tachipirinha (la risposta del Billionaire al moijto del Papeete), ed ecco Andrea Crisanti mettere in guardia gli italiani sui vaccini: “Senza i dati non mi vaccino. Troppa velocità, fasi saltate, conoscenze insufficienti. Per fare un vaccino, io personalmente, voglio che sia approvato e voglio vedere i dati.” Una dichiarazione urbi et orbi (specialmente orbi), che fa tornare alla mente quella di Mimmo Craig nell’indimenticabile Carosello di un olio d’oliva extravergine: “Matilde! La pancia non c’è più! La lattina la voglio qui, sul tavolo.”

Anche Crisanti, lui personalmente, il vaccino lo vuole lì sul tavolo, ma allora qualche dubbio sorge spontaneo. La prima cosa che viene da pensare (facendo peccato, s’intende) è che l’inconscio di Crisanti tema che i vaccini funzionino presto e bene, e allora lui personalmente non possa più andare in tv un giorno sì e l’altro pure. Il secondo dubbio, a dire il vero, è una certezza: assistiamo alla tracimazione dell’ego tra gli uomini di scienza, che, in mancanza delle famose evidenze, mettono in evidenza loro stessi. Rete, radio e tv sono a caccia di dichiarazioni da trasformare in titoli, ogni giorno bisogna sfornarne di nuove, spararne di più grosse, e pazienza se si rischia di passare per negazionisti o no vax, tanti nemici tante opinioni, l’importante è non uscire dal giro dei collegamenti. Prima del Covid immaginavamo gli scienziati chiusi nei loro laboratori e nelle corsie degli ospedali; ora li vediamo pronti a collegarsi h24 e nelle corsie degli studi televisivi. Il virus dell’infodemia fa male; trasforma tutti in divi, o almeno illude di poterlo diventare. Se Flavio Briatore studia da popstar mediatica la situazione è grave ma non seria; ma se studia Crisanti la situazione è grave, e soprattutto seria.

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Ricchi da Covid 34 miliardi in tasca a 40 italiani. È il virus, che bellezza! - Alessandro Robecchi

 

Mi piacciono moltissimo gli appelli alla compattezza e all’unità del Paese, che dovrebbe attutire i colpi della crisi da virus. Ne prendo appunto ogni volta su un taccuino, sottolineando qui e là, specie quando il monito viene dai piani più nobili della Repubblica. Disse Mattarella il 2 Giugno: “C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro”. Bellissime parole, sottoscritte all’unanimità da tutti – ma proprio tutti – i commentatori.

Passati quasi sei mesi, col Natale alle porte, il dibattito sull’apertura delle piste da sci che surclassa quello sulla riapertura delle scuole (che non vendono skipass, non fatturano in polenta e stanze d’albergo, quindi chissenefrega), sarebbe forse il momento di fare il punto sulla “condivisione dell’unico destino”. E così ci vengono in aiuto due ricerche, da cui grondano numeri e dati. Una è quella del Censis, che si può riassumere con pochi punti fissi: 7,6 milioni di famiglie il cui tenore di vita è seriamente peggiorato causa pandemia, 600 mila persone entrate in quel cono d’ombra che sta sotto la soglia di povertà, 9 milioni di persone che hanno dovuto chiedere aiuto (a famigliari e/o banche). L’altra ricerca viene da PwC e Ubs (le banche svizzere), e ci dice che i miliardari (in dollari) italiani erano 36 l’anno scorso, e che quest’anno sono 40, hurrà. La loro ricchezza complessiva ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari e poi, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più. In euro, al cambio attuale, fa 33,7 miliardi. E siccome i numeri sono beffardi e cinici, ecco che il totale fa più o meno quanto si è tagliato alla Sanità pubblica in dieci anni, che è poi la stessa cifra che arriverebbe indebitandosi con il Mes (circa 36 miliardi).

Non serve sovrapporre le due ricerche per capire che i vasi comunicanti della distribuzione della ricchezza non comunicano per niente, e alla luce di questi numeri le belle parole di Mattarella strappano un sorriso.

Vengono in mente, chissà perché, le continue metafore e similitudini con cui si paragona l’attuale crisi pandemica a una guerra: le trincee degli ospedali, gli eroi sul campo (medici e infermieri), i sacrifici della popolazione, l’incertezza su mosse e contromosse, la seconda terribile offensiva del nemico. E si dimentica volentieri, in questa continua, sbandierata analogia tra Covid e conflitto armato, che chi si arricchisce durante una guerra è più “pescecane” che “dinamico imprenditore”. Però – sorpresona! – di colpo, davanti alle cifre dell’impennata dei super ricchi italiani, la metafora del “Covid come la guerra”, solitamente molto gettonata, si scolora, si attenua, sparisce del tutto. Sarà una guerra, d’accordo, ma quelli che pagano sono i 600 mila scaraventati nella loro nuova condizione di molto-poveri, o oltre sette milioni di famiglie che stringono la cinghia e i denti. Pagano i tanti soldati, insomma, mentre i pochi generali festeggiano le loro rimpolpate ricchezze. Forse con i 34 miliardi piovuti in tasca ai 40 miliardari italiani si potrebbero attenuare problemi e sofferenze di qualche milione di persone. Come “condivisione di un unico destino” non sarebbe male, anzi, sarebbe un’ottima “unità morale” che, ovviamente, non vedremo.

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