mercoledì 23 febbraio 2022

La crisi in Ucraina spiegata in due (beh, non proprio due) parole. - Michele Lebotti

 

In Ucraina ho vissuto un anno meraviglioso, a cavallo fra il 2009 e il 2010, viaggiando in lungo e largo per il paese per motivi di lavoro, finendo poi col trascorrere un’estate splendida in Crimea. Nei miei spostamenti, mi rendevo sempre conto che quel paese aveva (ed ha) due anime, distinte, separate fondamentalmente dal corso di un fiume, il Dniepr. Un’anima russa, propriamente russa, di ucraini che parlano russo, che sono di religione ortodossa e che sono eredi di quella cultura del Don che non ha mai conosciuto un confine reale fra Russia e Ucraina. Faccio notare che in russo la parola stessa У-край на vuol dire : presso/lungo i confini.
L’altra anima del paese è invece propriamente slava e mitteleuropea, direi quasi asburgica, considerato che a Leopoli furono incoronati ben due imperatori della casata imperiale austriaca. La Galizia, i Carpazi, tutti i territori fra Polonia e Ucraina esprimono infatti una cultura diversa, fondamentalmente cattolici, si parla ucraino, si avverte da secoli, la Russia, come un vicino ingombrante.
In effetti anche se si guarda la mappa dell’Europa, si nota che l’Ucraina ha la forma di un ponte. Ora questo essere ponte fra due mondi, che ha sempre trovato in Kiev, la bellissima capitale, la sua sintesi ideale, invece di divenire un vantaggio strategico per il paese, è diventato nel tempo la sua grande tara.
Come si è arrivati a questa polarizzazione drammatica?
Facciamo un passo indietro: fine dell’URSS, nascono, nelle repubbliche dell’ex impero, le pseudo-monarchie dei Lukashenko (Bielorussia), degli Aleev (Azerbaijan), dei Nazarbayev (Kazakistan) etc etc.. A Kiev si instaura un governo di incapaci attaccato alla tetta russa, che però di latte, all’indomani del crollo sovietico, ne ha ben poco. Il paese si impoverisce, le infrastrutture non reggono, la gente scende finalmente in piazza chiedendo rinnovamento. Sono i giorni di speranza della rivoluzione arancione, la rivoluzione di Maidan, la grande piazza che si apre sul Kreshatik, la via principale della capitale. La rivoluzione riesce, il governo in carica di dimette, le elezioni vengono vinte da Victor Yushenko, professore, scacchista, persona onesta, ma pessimo politico, e soprattutto, amministratore incapace. Fra i tanti errori di Yushenko c’è quello di mettersi vicino una pasionaria fascistoide, Yulia Timoshenko, che contribuirà non poco ad avvelenare l’aria del paese. Il governo Yushenko non funziona, la grivna crolla, la gente continua ad impoverirsi, le grandi speranze rimangono disilluse. Si torna a votare e questa volta, l’esito del voto premia un altro Victor, Yanukovich, espressione della parte russofona e russofila del paese, fra cui il Donbass appunto, essendo lui stesso nato a Donetsk. Ex malavitoso, uomo controllato dal FSB, estremamente corrotto. È l’anno in cui arrivo a Kiev. Il mio autista è anche un musicista, per la precisione oboista della filarmonica di stato. La quale filarmonica, ogni giovedì, va in casa di Yanukovich, un enorme villa sopra l’Arsenalnaya, a suonare per il presidente e per le sue feste.
Si ferma l’occidentalizzazione del paese, ci si riavvicina alla Russia. Tuttavia alcuni impegni come i colloqui per una preadesione all’UE erano stati già presi dal governo precedente. Yanukovich stoppa tutto. Questo scatena la rabbia delle generazioni più giovani e della parte del paese ad occidente del Dniepr. Yanukovich viene rimosso con la forza, da frange organizzatissime dietro le quali fra gli altri c’è la stessa Timoshenko. Ma Yanukovich era stato eletto democraticamente e quella parte del paese che lo aveva eletto, non ci sta. E’ la contro-rivolta, vengono occupati i municipi di Lugansk, Donetsk, Sebastopoli.. E in questa fase, Il nuovo governo di Kiev non trova di meglio che inviare in quelle province i carri armati. Contro una parte del proprio popolo. Un’assurdita’. La Russia manda i rinforzi tecnici e paramilitari che l’esercito ucraino non ha la forza di sconfiggere. Putin vede un’occasione unica e si prende la Crimea, senza sparare un colpo.
La situazione si cristallizza e questo status quo viene sancito internazionalmente dagli accordi di Minsk nel 2014. Fino a ieri sera.
Considerazioni finali: nelle situazioni così complesse il male e il bene, la ragione e il torto non stanno mai da una parte sola.
La NATO non può pensare di bussare alla porta di territori e paesi che sono al confine dello spazio strategico vitale della Federazione Russa. Ne’ può giustificare la sua esistenza con il solo spauracchio della russofobia.
La Federazione Russa non può pensare di violare la sovranità di paesi che sono comunque paesi terzi e indipendenti, ne’ può continuare ad inquinare il processo di integrazione europeo (l’unico argomento che vede convergere gli interessi russi e americani).
Si può ammettere che l’Ucraina non entri mai nella NATO ma non si può costringere nessuno a firmare un accordo scritto sulla testa di uno stato terzo, come vorrebbero i russi.
Gli USA non possono forzare la mano senza capire che i rapporti geopolitici fra Russia e Europa sono molto più complessi e interconnessi di quello che gli americani stessi vorrebbero. A 6000 km di distanza se ne fottono. Per loro l’energia non è un problema, per noi si.
L’Europa dovrà parlare con una voce sola, e dovrà mediare. Ne va del suo, pardon, del nostro futuro. Il resto lo leggeremo sui giornali a partire da domani..

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martedì 22 febbraio 2022

Mosca e Kiev, una battuta ci seppellirà. Antonio Padellaro

 
                                                                                                                                                           Nella premiata linea di arredamento Cremlino, dopo il lettone di Putin, furoreggia il tavolone di Putin, con l’ospite di turno fatto accomodare lontano un chilometro. Per simboleggiare l’immensa distanza tra l’autocrate padrone dei destini del mondo e i premier-fantoccio delle democrazie alla canna del gas, costretti a omaggiarlo dopo sfibranti anticamere (Macron, Scholz e forse prossimamente anche Draghi, e sarebbe una gara di ego niente male). Nella stagione televisiva del non so nulla ma discetto su tutto, dopo la virologia “secondo me” furoreggiano gli opinionisti Foreign Office. Che interpellati sulla imminente invasione russa dell’Ucraina trattano la materia con la stessa sicumera con cui disegnano gli scenari del Calenda day (che, come il birillo rosso del bar centrale di Foligno, si considera l’ombelico del pianeta). A parte Lucio Caracciolo e gli esperti dell’Istituto Affari Internazionali, che studiano la politica estera da una vita, nei talk si susseguono sussiegose rimasticature (mal digerite) degli articoli usciti il giorno prima. E ci litigano pure. Mentre sono i protagonisti a buttarla sul cazzeggio, a riprova che non esiste nulla di più tragicamente ridicolo della guerra. Dall’uomo di Kiev, Zelenski, che si aggira per le trincee in tuta mimetica e borraccia come in una gita fuori porta: non a caso un comico prestato alla politica e, purtroppo, non restituito. Allo zar Vladimir, a cui dobbiamo la migliore battuta quando dopo i ripetuti annunci americani che l’invasione sarebbe scattata mercoledì scorso, chiede con quel sorriso di traverso in stile Kgb “Gli Usa hanno detto a che ora inizia la guerra?”. Di un umorismo involontario invece non difetta Fabio Fazio (che infatti nasce imitatore) quando è stato sentito domandare al direttore del Foglio, Claudio Cerasa se mai accadrà che un giorno le guerre spariranno dalla faccia della terra, “come è accaduto con il cannibalismo”. Lo sventurato rispose.                                                                                                                                                                          https://www.ilfattoquotidiano.it/in-dicola/articoli/2022/02/22/mosca-e-kiev-una-battuta-ci-seppellira/6502455/?fbclid=IwAR3d7_2AoQjradswlSLAtWk-7hRAW0i2hBeh7Mb8e-3nzQ6J9ZTMI3EiPuo

domenica 20 febbraio 2022

Cari elettori...- Vincenzo Garofalo

 

...molti politici non si rendono conto cosa significa avere il frigo vuoto. Guardare la propria auto ferma lì, allo stesso posto, allettata perché non puoi fare benzina.
Non sanno cosa significa non riuscire a dare ai propri figli la merenda desiderata a scuola. E comprare loro vestiti e scarpe perché crescono. Molti politici non sanno del tremolio di quel pollice impaurito che espone la mano di una mamma quando tocca la punta delle scarpe, per sentire se c'è ancora dello spazio, per sentire se il piedino può ancora arrangiarsi, prima dell'inevitabile restringimento.

Non sanno cosa significa avere le bollette accumulate sul comodino, e decidere, ogni volta, quella a cui devi dar priorità. Le date di scadenza non le guardi più: servirebbero solo a sentenziare il grado di colpevolezza di un'impotenza ingiusta.

Molti politici non sanno cosa significa scegliere se e come curarsi: il SSN, ormai, lo hanno smantellato. Non sanno che il ricorso agli esosi privati e il prezzo di certi farmaci faranno acquisire solo il coraggio di dire ai propri cari e agli amici intimi che è tutto a posto, quando invece non lo è. Un peso che poi devi scaricare, e lo confessi al primo interlocutore passante dagli occhi buoni che incontri.

Molti politici non sanno cosa significa andare a letto con la paura di essere sfrattati e non sapere dove andare a dormire: la dignità che ti rimbocca ancora una volta le coperte, e che cerca la tua attenzione, una tua rassicurazione. Ma tu ti volti dall'altro lato, per evitare il suo sguardo, perché non sai se sarai più leale con lei, se potrai più mantenerla. E pensi, su un cuscino bagnato, a come ti sentirai quel giorno: quando di nascosto la porterai lontana da te. Sai che non è la stessa cosa, ma in cuor ti sembrerà lo stesso un gesto colpevole, come quello che fanno alcuni codardi che abbandonano i propri animali fedeli lungo le strade.

Di tutte le ingiustizie questa è la più brutta.

Cari elettori, questi non sono più casi isolati, purtroppo. Ci sono moltissime povertà taciute prima che diventino eclatanti. Ma molti nani politici non ci arrivano. Non comprendono più la natura stessa dell' uomo, perché non ne hanno più il rispetto, perché tale condizione di offesa dignità gli è dovuta per proteggere il loro nobile vantaggio. Ormai si sono rinchiusi un'altra volta nella loro Versailles: per loro la povertà è diventata tangibile.
La storia insegna, ma non ha scolari (cit).
E sappiamo come andò.

Adesso aprite gli occhi e guardatevi bene intorno. Non bisogna per forza essere esperti di politica per capire chi si sta battendo davvero per voi. C'è una forza politica in questo Paese che ha già dato prova della sua lealtà e della sua onestà nel proteggere l' Italia dei semplici e degli esclusi. L'unica che ammette anche gli errori, e nella tana dei lupi era impossibile non farli. Ma l’empatia con la quale si rivolge a un Paese sempre più sofferente, generosa al punto d' anteporre gli interessi dei cittadini ai propri, è il primo segnale di riconoscimento di chi mette la propria esperienza e capacità al vostro servizio. Perché il mondo di riferimento del m5s è quello della gente semplice, della gente dimenticata, emarginata. Una forza di denuncia che si cala nelle situazioni per poterle migliorare: è attenta e rispettosa della vostra dignità. Si batterà sempre per farvela ritrovare, poiché è nata per questo motivo ed è nel suo dna aiutare chi è stato costretto ad abbandonarla...
e se gli darete forza, sarà anche in grado di tutelarla nei confronti di chi non la rispetta.

Vincenzo Garofalo 

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Lupi per Agnelli. - Marco Travaglio

 

La lettura dei giornaloni ci induce a un moto spontaneo di commozione e gratitudine per una famiglia di buoni samaritani torinesi che dona un miliardo di euro allo Stato per i nostri bisogni più impellenti. I titoli più soavi sono sulle testate dei benefattori. Stampa: “Accordo tra Fisco e gruppo Agnelli: un miliardo per le sedi in Olanda. Exor: ‘Corretta la nostra interpretazione delle norme. Nessuna sanzione, contenzioso chiuso’”. Repubblica: “Accordo col Fisco sul passaggio in Olanda. La società: ‘Operato secondo le regole’”. Ma anche il Sole 24 ore non scherza: “Exor e Agnelli, quasi 1 miliardo per chiudere la vertenza fiscale”. E il Corriere: “Exor-Agnelli, pace da 950 milioni con il Fisco”. Non è ben chiaro a quale guerra o “vertenza” o “contenzioso” sia seguito l’“accordo” di “pace”. Ma è pacifico che i donatori subalpini nulla dovevano, avendo osservato rigorosamente “regole” e “norme”, il che rende ancor più nobile il munifico gesto di devolverci metà degli utili. Un po’ come quegli imputati che patteggiano anni di galera, ma restano innocenti. Ci par di vederlo, il giovine John Elkann che arringa il folto gregge degli Agnelli, leccandosi il pollice mentre sfoglia il libretto degli assegni: “Mi voglio rovinare: facciamo un miliardo e un bacio sopra, se no dicono che siamo tirati! Apro una parente: se non sganciamo subito il miliardo, il fisco potrebbe affibbiarcene 2 o 3 per l’Exit Tax non pagata col trasloco in Olanda, e cara grazia che c’è lo sconto Draghi. Ma questo non lo diciamo, anche perché dallo Stato abbiamo incassato 10 miliardi fino al 2013 e ora si ricomincia. Chiusa la parente. Senza nulla a pretendere, i fratelli Elkann, che siamo noi”.

Ci par di vedere pure i colleghi di Stampubblica, ai quali va la nostra solidarietà. S’erano appena riavuti dalla fatica di nascondere il sequestro di 30 milioni ai cavalieri Gedi (gestione De Benedetti) per una presunta truffa da 38 all’Inps e di maledire il M5S per le truffe miliardarie sul superbonus (mai esistite) e zac! Gli capita fra capo e collo la notizia del padrone che prende i soldi e scappa, viene beccato e ne restituisce un po’ per evitare il peggio, mentre con l’altra mano ritira il primo dei 3-4 miliardi in 8 anni gentilmente offerti dal trio Draghi-Giorgetti-Cingolani. Ora chi lo dice a Sebastiano Messina, che su Rep voleva “vietare a vita l’uso della parola ‘onestà’” ai 5Stelle che “permettono a un imbroglione di truffare un miliardo – un miliardo! – col superbonus e consentono a mafiosi, finti poveri e latitanti di incassare ogni mese il reddito di cittadinanza” (500 euro!). In attesa di trovare un’anima pia che lo avvisi col dovuto tatto, Rep mette a pag. 1 il miliardo dallo Stato agli Agnelli e a pag. 25 il miliardo dagli Agnelli allo Stato. Sennò poi la gente sospetta che questi Agnelli siano parenti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/20/lupi-per-agnelli-2/6500321/

Letta, Calenda e Giorgetti officiano il “Draghi forever”. - Tommaso Rodano

 

Verso il 2023 - Il congresso di Azione invita tutti i big di partito tranne FdI e 5S. Il segretario del Pd: “Vinceremo insieme”.

È il caso di unire i puntini. Giovedì, dopo i molteplici incidenti parlamentari, Mario Draghi s’infuria con i partiti: o fate come dico io, oppure “così non si va avanti”. Venerdì il Partito democratico si premura di confermare di essere dalla parte del premier, senza se e senza ma. Il ministro Andrea Orlando se la prende con i partiti più irrequieti della maggioranza. Non li cita, si riferisce a Lega e Cinque Stelle, ma in fondo pure Forza Italia, quelli che “creano instabilità ponendo ogni volta dei distinguo”. Sabato, infine, Enrico Letta partecipa al congresso romano di Azione, il partito di Carlo Calenda, e spalanca le porte del centrosinistra al più draghista dei leader moderati: “Faremo grandi cose, vinceremo insieme le elezioni del 2023”.

Tre indizi fanno una prova. In un momento di turbolenze per la maggioranza di governo, il Pd rimane saldamente a sostegno del premier, immobile e affidabilissimo. I dem si sono intestati il ruolo di partito di Draghi. Per il presente e per il futuro. D’altra parte l’intervento del segretario Letta al battesimo romano del partito di Calenda è difficile da fraintendere.

Al congresso di Azione ci sono leader di partito di ogni schieramento, da destra a sinistra: Antonio Tajani (FI), Giovanni Toti (Cambiamo), Ettore Rosato (Iv), Roberto Speranza (Articolo Uno). L’apertura è affidata al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Il senso politico lo dà il padrone di casa, Calenda, che stabilisce in modo netto il perimetro politico: tutti tranne Conte e Meloni. Compresa la parte della Lega fedele a Giancarlo Giorgetti, non a caso – pure lui – tra gli ospiti del congresso di Azione. “Siamo per il dialogo – ha detto Calenda – ma questo non vuol dire accettare qualunque controparte. Noi non dialoghiamo e non accettiamo il confronto con il Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia. È una scelta netta e definita perché il dialogo si fa a partire dai valori comuni”.

A prescindere dai veti calendiani, Letta aveva a sua volta annunciato i suoi saldi propositi di alleanza. Con un’apertura mai così netta ai moderati di Azione: “Ci troveremo insieme, accanto, alle prossime elezioni – ha garantito il segretario del Pd –. Avremo uno sguardo comune sul futuro, a partire dall’Europa. E sono sicuro che faremo grandi cose. Insieme vinceremo le elezioni del 2023. E dopo, insieme, daremo un governo riformista, democratico ed europeista al nostro paese. Sono qui per confermare questa voglia di fare strada insieme per il bene dell’Italia”. Di più, non si poteva dire.

Ora, resta difficile capire quale sia il vero punto di equilibrio di Letta, che fino a prova contraria rimane il sostenitore di una larghissima alleanza liberale che va da Calenda fino ai Cinque Stelle di Conte. Ma che sbatte sui veti reciproci, fieramente esibiti dai presunti alleati. Conte – che sarebbe, sempre fino a prova contraria, il primo alleato del Pd – di Calenda non ne vuole sapere. Calenda – che era arrivato a minacciare la sua candidatura alle suppletive della Camera solo per ostacolare quella eventuale di Conte – almeno ha stabilito un perimetro molto chiaro: per lui “tutto è possibile, a condizione che non ci siano i 5Stelle”.

In serata il leader dei Cinque Stelle commenta così, con i suoi collaboratori: “Prendiamo atto dell’arroganza e dei veti, ma li lasciamo ad altri. I protagonismi dilatano l’ego e fanno apparire indispensabili. Noi non abbiamo paura del confronto, ma c’è una differenza sostanziale fra campo largo e campo di battaglia: creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere non ci interessa”.

Conte e Calenda sono alternativi: dei due, l’uno. Per capire cosa passi per la testa del segretario del Pd, può aiutare questa parola d’ordine, tremendamente bizantina: “Continuità dinamica”. La spiega Stefano Ceccanti, deputato dem di consolidate convinzioni draghiane: “Letta – dice – è sempre stato coerente nel perseguire una continuità dinamica con Draghi, non con la medesima coalizione da unità nazionale, ma con una futura maggioranza progressista”. Letta è per un Draghi post-elezioni, insomma: scommette sulla conferma dell’attuale premier come unico scenario delle urne. Un dato che finirebbero per accettare sia i 5Stelle che Calenda. Invece l’irascibile fondatore di Azione è per un draghismo “statico”. Per Calenda da una parte ci sono “i buoni” europeisti che continueranno a sostenere Draghi: i partitini di centro, il Pd, Forza Italia, la Lega depurata dal salvinismo. Dall’altra “i cattivi” populisti: la Lega fedele a Salvini, Fratelli d’Italia e il M5S. L’unica sfumatura tra Letta e Calenda è proprio il rapporto con Conte.

La sorpresa, che anticipa la giornata in cui il segretario del Pd vira definitivamente al centro, è l’intervista di Goffredo Bettini al Foglio. Proprio colui che aveva ispirato la strategia giallorosa di Nicola Zingaretti, in teoria il più vicino a Conte, disegna il manifesto più draghista di tutti: “Oggi dobbiamo essere il partito della stabilità”, dice Bettini. Il Pd “è il partito più forte” dopo la (ri)elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, “è l’architrave del sistema democratico”. E il suo dovere è quello di “aiutare Draghi nella navigazione”.

Sembra Calenda, invece è Bettini. Il larghissimo campo del centro, con un’impercettibile spolverata di sinistra, è praticamente servito.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/20/letta-calenda-e-giorgetti-officiano-il-draghi-forever/6500353/

sabato 19 febbraio 2022

Il nuovo “decreto bollette”: copre un terzo dell’aumento. - Patrizia De Rubertis e Marco Franchi

 

CHI CI GUADAGNA - Le risorse arginano molto parzialmente l’impatto degli aumenti sui bilanci di famiglie e piccole imprese, ma il governo non vuole ricorrere a nuovo deficit. Tra le fonti di copertura non c’è un nuovo intervento sugli extraprofitti delle compagnie energetiche.

In deficit no, per carità, che l’Europa ci guarda e poi abbiamo anche avuto tutta questa crescita imprevista nel 2021. E quindi di lima e di cesello, senza dimenticare un po’ di fantasia, arriva il decreto “energia e molto altro” coi suoi 8 miliardi e mezzo di euro. Tra le fonti di copertura non c’è un nuovo intervento sugli extraprofitti delle compagnie energetiche, ben rappresentati dai 2 miliardi di utile netto (su 4,7 totali nel 2021) fatti registrare da Eni negli ultimi tre mesi dell’anno scorso: “Ci aspettiamo che i grandi produttori di energia condividano con il resto della popolazione il peso dei rincari dell’energia, sul come ci stiamo riflettendo”, ha spiegato Mario Draghi ieri in conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato il nuovo decreto.

In attesa che la riflessione del premier e dei suoi ministri sia finita, va registrato che la maggior parte degli 8 miliardi, almeno 5,5, saranno impiegati per arginare – assai parzialmente – l’impatto dei prezzi energetici sulle bollette di luce e gas di famiglie e imprese (rispettivamente una botta da + 131% e +94% su base annuale). I soldi per il periodo aprile-giugno sono così divisi. Poco meno di 3,4 miliardi (che si aggiungono agli 1,2 miliardi stanziati a luglio, ai 3,5 di ottobre e ai 3,8 inseriti nella legge di Bilancio) andranno a famiglie e piccole imprese. Le leve azionate sono le solite: la riduzione degli oneri di sistema (1,8 miliardi), il taglio dell’Iva al 5% sul gas (592 milioni), fondi per le famiglie più povere (500 milioni), a cui vanno aggiunti altri 480 milioni per tagliare gli oneri generali nel settore del gas. A questi si sommano 400 milioni per Regioni ed enti locali, anche loro alle prese con l’aumento delle bollette (specie per ospedali e strutture sanitarie) e altri 2,3 miliardi di euro destinati alle imprese più grandi ed “energivore” (tra riduzione degli oneri di sistema e crediti d’imposta), che già a fine gennaio erano state destinatarie di 1,7 miliardi per far fronte, però, a una bolletta energetica che nel 2022 sarà superiore ai 30 miliardi.

Quello che segue è il conto più generale del ministero dell’Economia, Daniele Franco: nell’ultimo trimestre del 2021, a fronte di rincari per famiglie e imprese di circa 21 miliardi, “ne abbiamo fiscalizzati circa un sesto, 3,5 miliardi”; le stime dell’Arera indicano rincari sempre per 21 miliardi per il primo trimestre 2022 e “noi siamo intervenuti per circa 5,5, quindi per un quarto”. Il prossimo aumento della bolletta è stimato in 14-15 miliardi, ha aggiunto il ministro, “noi interverremo per circa 5,5 miliardi”, pari a oltre un terzo.

Le risorse, come si vede, arginano solo molto parzialmente l’impatto degli aumenti sui bilanci di famiglie e piccole imprese, ma il governo com’è noto non vuole ricorrere a nuovo deficit (i soldi arrivano soprattutto da risparmi precedenti e dai proventi delle aste della CO2) e spera che la buriana sia passata. Ucraina permettendo, certo: “Siamo ancora in un rallentamento della crescita in Europa, ma secondo le previsioni riprenderà spedita dal secondo trimestre di questo anno: bisogna essere cauti perché i rischi geopolitici potranno incidere sulla crescita”, ha detto Draghi. Anche scongiurando l’ipotesi di una guerra vera e propria, pure nuove sanzioni alla Russia – di cui si discute – possono mettere in difficoltà il nostro Paese: “Le sanzioni – ha detto Draghi – devono essere concentrate in settori che non comprendano l’energia e che siano proporzionate rispetto all’attacco e non preventive. L’Italia ha solo il gas, non ha il nucleare e il carbone e sarebbe la più esposta”.

È dall’Est che al momento arrivano le più grosse preoccupazioni per il premier. È vero che “Vladimir Putin ha accennato alla possibilità di continuare a garantire le fornitura di gas all’Italia e di aumentarla se necessario”, ma questo non si può fare se non all’interno “degli impegni e delle relazioni con gli alleati e degli effetti delle sanzioni”, tanto è vero che “si sta anche studiando come l’Italia possa continuare a essere approvvigionata da altre fonti se dovessero venire meno quelle dalla Russia”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/19/il-nuovo-decreto-bollette-copre-un-terzo-dellaumento/6499449/

“Immunità”: Lotti e Boschi, nessuno segue l’ex premier. - Marco Lillo

 

Matteo Renzi ieri ha depositato il suo esposto alla Procura di Genova contro i pm che lo indagano a Firenze: Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Antonino Nastasi. La sua tesi è che abbiano violato le guarentigie del Parlamento depositando nell’inchiesta Open le sue chat. Erano state trovate nei cellulari sequestrati non a Renzi ma ad altri soggetti che avevano interlocuzioni su Whatsapp con il senatore. I pm di Firenze le hanno depositate perché non le considerano conversazioni o corrispondenza (quindi tutelata dall’articolo 68 della Costituzione), bensì documenti sequestrati a terzi utilizzabili esattamente come la lettera di Tiziano Renzi trovata nel pc del padre durante una perquisizione (e non si sa se mai inviata al figlio senatore) depositata nel processo del padre per bancarotta.

Se le chat non sono conversazioni o corrispondenza, come dicono i pm, non serve la richiesta di utilizzazione. Ergo Matteo Renzi sta denunciando i pm per una violazione inesistente. Se lo sono però dovrebbe essere un giudice a stabilirlo. Non Renzi, il Senato, la Procura di Genova o l’opinione pubblica. Questo è il punto.

Il leader di Italia Viva invece, prima di sollevare la questione di fronte al giudice competente, è andato in tv (Porta a Porta, Tg2 Post) e persino a Radio Leopolda per sostenere la sua tesi aggiungendoci sopra il carico di attacchi ad personam per i tre pm su altre questioni. Renzi non è il primo ex premier che preferisce difendersi dal processo piuttosto che nel suo processo. Però c’è un dato che nessuno ha sottolineato: a indebolire le sue tesi ardite sono i comportamenti ben diversi di due parlamentari indagati con lui che, trovandosi nella medesima condizione, hanno scelto una strada diversa. Maria Elena Boschi e Luca Lotti non hanno sollevato la questione dell’articolo 68 della Costituzione obbligando la Giunta della Camera a un braccio di ferro analogo a quello aperto in Senato con la magistratura. Lotti e Boschi avrebbero potuto firmare anche loro un esposto a Genova come quello di Renzi contro i pm. Non lo hanno fatto. Probabilmente i due parlamentari faranno valere i loro diritti nella sede propria, cioé a Firenze davanti al giudice competente. In caso di uso delle chat contro di loro, probabilmente chiederanno al giudice di stabilire se le loro prerogative sono violate. Punto. Niente interviste, niente denunce, niente attacchi personali.

La guerra di Renzi parte un anno e mezzo fa. Il 21 settembre 2020 i suoi difensori intimano al pm Turco “di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa ai sensi dell’articolo 68 della Costituzione”. Il 4 ottobre Turco risponde picche e allora il 7 ottobre 2020 Renzi scrive alla Presidente del Senato Casellati che il 14 ottobre scrive a Turco per fargli sapere che la questione “su richiesta del Senatore Renzi è stata deferita alla Giunta”. Renzi scrive ancora a Turco il 24 novembre 2020 e poi il 27 novembre allegando la missiva alla solita Casellati e anche al procuratore generale della Cassazione e al vicepresidente del CSM, competenti per le azioni disciplinari contro i pm. La Giunta delle immunità ha ora votato a favore di Renzi e la questione del conflitto di attribuzione dovrà essere votata in aula al Senato. Lotti e Boschi non hanno chiesto nulla di simile ai colleghi della Camera.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/19/immunita-lotti-e-boschi-nessuno-segue-lex-premier/6499495/?fbclid=IwAR2cqzTHUtnoz9Ljn_Y_VbzM5BIEfKPHHnfuhXR29YHRIaNFJZ3Gbcbu5S4