venerdì 26 aprile 2019

Li chiamano “guru”: aiutano i politici a comunicare cazzate. - Alessandro Robecchi

Luca Morisi post

il Fatto Quotidiano 24 aprile 2019) – Provenienza sanscrita, termine caro agli indù, quattro lettere: Guru. Che significa più o meno maestro spirituale. Bello. Sul come e sul perché un termine così antico, denso e nobile sia – qui e ora – appiccicato a gente che maneggia Facebook e Twitter con disinvoltura da nerd ripetente sorvoliamo volentieri: l’arte di maltrattare le parole è un classico della politica italiana, si pensi alle molte volte che si è scomodato il termine “statista” per gente a cui non avreste affidato nemmeno una gelateria. Ora, dopo la foto pasquale di Salvini col mitra, eccoci di nuovo a parlare di guru, e quello di cui si discute oggi si chiama Luca Morisi a cui, sia detto per inciso, paghiamo lo stipendio tutti. Un guru statale, insomma.

COME SI SA, la vita del “guru della comunicazione” ha solitamente tre fasi. La prima: un illustre sconosciuto insegna al politico di turno come si accende un iPad, come si scrive un tweet, come si concentra un pensiero (quasi sempre debolissimo) in 280 caratteri di testo. Poi c’è la fase del trionfo: se il politico a cui il guru fa da badante ha qualche successo (anche virtuale), arriva la celebrazione. Uh, come è bravo il guru, uh, come è forte il guru, con tanto di giornalisti, commentatori e direttori che pendono dalle sue labbra, che si inginocchiano adoranti, magari in cambio di una confidenza, della promessa di un’intervista al Capo, di un segno di attenzione. 

La terza fase, triste, solitaria y final, è quella del viale del tramonto: quando le fortune del leader badato si offuscano, quando la popolarità scende perché finalmente ci si accorge che tutta quella strabiliante comunicazione era quel che era, fuffa e furbizia. E allora non solo del guru non si ricorda più nemmeno il nome, ma il politico di turno si accanisce su di lui e dice: “Non abbiamo saputo comunicare!”. Inutile riassumere le puntate precedenti, ma insomma, chi ricorda le fotine seppiate di Renzi che lo facevano sembrare un Bob Kennedy toccato dalla grazia, sa di cosa si parla. Sul guru d’importazione Jim Messina, pagato fior di migliaia di euro per perdere un referendum devastante, caleremo un velo pietoso.

Ora, da qualche tempo, c’è un nuovo guru in città, ed è questo Luca Morisi, assunto al Viminale, pagato da noi per maggior gloria di Salvini Matteo. Uno che parla di “esistenzialismo salviniano”, ossignur, e a cui i giornali dedicano articoli e riflessioni, per dire – in fondo – sempre la stessa cosa: uh, quanto è bravo il guru! Siamo insomma nella fase due, quella del trionfo, quindi basta aspettare. Naturalmente, e giustamente, molti notano che non è bello (e non ci sono esempi analoghi nella recente storia delle democrazie occidentali) un ministro dell’Interno descritto come “Armato e con l’elmetto”(testuale) e fotografato con in mano un mitra. Suona un po’ minaccioso, diciamo, ed è il solito impasto di vittimismo e aggressività: “Vi siete accorti che fanno di tutto per gettare fango sulla Lega?”, comincia il post del guru che stipendiamo tutti. Cioè: poveri noi, ci gettano fango! Che ingiustizia! Scatta poi l’elemento aggressivo e minaccioso del “Siamo armati e con l’elmetto”, con fotina del leader mitraglietta alla mano (nella foto compare pure il guru, pare preoccupato che parta un colpo, a dirla tutta). Il meccanismo comunicativo non è diverso da quello dell’ex marito stalker che aspetta sotto casa l’ex moglie: fase uno, vittimismo (“Guarda cosa mi hai fatto!”); fase due, aggressività: “Guarda che ho un coltello”.

PER FARSI perdonare, dopo qualche ora, ecco la foto di Salvini con tre pupazzi di peluche. Messaggio: è armato e con l’elmetto, ma è anche un tenero cucciolone. Una cosa che sarebbe considerata troppo scema anche in una quarta elementare, se la classe non fosse impegnata a battere le mani e a dire: “Bravo guru!”.

https://infosannio.wordpress.com/2019/04/24/li-chiamano-guru-aiutano-i-politici-a-comunicare-cazzate/?fbclid=IwAR0si9kBKhG05Z7unC6f0FPgUIzGKR-97lRrvKLDGHntUHr99J9o8goVIvc

martedì 23 aprile 2019

Ora che Berlusconi affonda, i topi fuggono. - Massimo Fini

topiPDL

Sul Fatto del 15.4 Antonello Caporale fa un divertente elenco dei transfughi di Forza Italia che lasciano ‘in articulo mortis’ Silvio Berlusconi cercando un approdo più o meno sicuro nella Lega o dalla Meloni. Fra i più noti ci sono Elisabetta Gardini, Denis Verdini, Vittorio Sgarbi, Paolo Bonaiuti, seguiti da una serqua di consiglieri regionali, comunali e altri che hanno incarichi di rilievo in quel partito. Caporale nota che fra coloro che hanno disertato e che si vergognano un po’ di questo voltafaccia, l’ipocrita formula di rito è: “Lascio Forza Italia dopo una lunga e dolorosa riflessione”.
Una menzione speciale fra questi voltagabbana meritano Bonaiuti e Sgarbi. Quando lavoravo al Giorno negli anni 80, e Silvio Berlusconi non era ancora apparso sulla scena politica, il collega Bonaiuti era più a sinistra di Satanasso e io, per lui, naturalmente un “fascista”. Sotto le elezioni del 1996 la direttrice di Annabella mi chiese di fare un’intervista al Cavaliere. Gli accordi erano che avrei mandato delle domande scritte all’Ufficio stampa di Roma e poi mi sarei incontrato ad Arcore con Berlusconi. “Telefona al capo dell’Ufficio stampa”. Telefonai. Dall’altro capo del filo mi rispose proprio Paolo Bonaiuti. Ne rimasi un po’ stupito. “Ah, sei tu?” dissi un po’ sorpreso non avendo ancora percepito –siamo ancora all’inizio dell’esperienza berlusconiana- la slavina di trasformisti, di sinistra e di estrema sinistra, che in seguito sarebbe diventata una vera e propria valanga, che si stava attaccando alla giacca del Cavaliere. L’intervista poi non si fece perché Bonaiuti farfugliò su alcune domande che potevano mettere in imbarazzo il Cavaliere. Ma non fu questo che mi colpì, mi colpì l’assoluta disinvoltura di Bonaiuti che nemmeno con me, che conoscevo i suoi precedenti, si vergognava un po’.
Comico è il pretesto preso da Vittorio Sgarbi per filarsela. Del resto in anni lontani Patrizia Brenner allora sua fidanzata e che lo conosceva bene mi aveva preavvertito: “Guarda che se Berlusconi dovesse vacillare di Vittorio si vedrà solo la polvere della sua fuga”. Qual è il pretesto preso da Sgarbi? Lo “schiaffo di Sutri” (parafrasando lo storico “schiaffo di Anagni”, noblesse oblige): aver disertato “per ben due volte” la cerimonia di intitolazione di un giardino alla madre dello stesso Berlusconi. Di Sutri Sgarbi, che come politico non ha mai combinato assolutamente nulla, è sindaco per meriti berlusconiani: l’aver attaccato per vent’anni, dalle tv del Biscione, nei modi più violenti e giuridicamente sgrammaticati, per star bassi, la Magistratura. Sutri è una cittadina di 6.000 abitanti. Come si può pretendere che un uomo di 83 anni, malato, che entra ed esce dagli ospedali, che ha ancora importanti impegni politici si sobbarchi un viaggio a Sutri per non offendere la ‘delicatezza’ di Sgarbi?
I transfughi di oggi devono tutto a Silvio Berlusconi, onori, improbabili carriere, quattrini. A me fanno più ribrezzo di Berlusconi che nella sua più che ventennale avventura politica ha messo la propria enorme energia, gli altri sono solo dei parassiti che gli hanno succhiato il sangue.
Sia chiaro che io non cambio una virgola di ciò che penso di Berlusconi, che proprio in questi giorni mi ha querelato per una dozzina di articoli che ho scritto su di lui, querela che se dovesse andare a buon fine mi ridurrebbe sul lastrico e forse al gabbio. Cosa, quest’ultima, che non mi dispiacerebbe poi tanto perché in un Paese dove Berlusconi è a piede libero il solo posto decente per una persona normalmente perbene è la galera. Ma i topi che lasciano la nave che affonda mi danno ancora più disgusto. Sto dalla parte di Alessandro Sallusti che da direttore del Giornale difende l’ultima ridotta berlusconiana, come i guerriglieri dell’Isis si sono difesi a Baghuz. Coraggio Alessandro, se si deve cadere, è molto più nobile e coraggioso cadere in piedi.
Massimo Fini

FALLIMENTO DELL'ESPRESSO. - Tommaso Merlo




Che l’Espresso (di De Benedetti) stia fallendo è davvero una bella notizia perché lascerà spazio ad altri progetti editoriali che i cittadini riterranno degni di essere letti. A far chiudere i giornali in Italia non è qualche dittatore gialloverde, sono i cittadini che non li comprano più. Evviva la democrazia! E quando il governo gialloverde taglierà gli ultimi finanziamenti all’editoria, altre testate seguiranno l’Espresso nel baratro. (sono già falliti La Padania, l'Unità, Europa, Liberazione, il Secolo d'Italia; dal 2003 ad oggi lo Stato ha versato oltre 230 milioni di euro nelle casse di 19 testate di partito, l’80% delle quali è fallito) Era ora. E così sul mercato rimarrà chi fa giornalismo all’altezza dei tempi e dei lettori. Evviva la liberà di mercato. Evviva la libertà di espressione. Nessuno dice infatti che l’Espresso debba cambiare idea o smetterla di attaccare i gialloverdi, macché, che continui puri, anzi, che alzi i toni se gli fa piacere, ad una sola piccola condizione, che lo faccia coi soldi dei suoi padroni o dei suoi lettori e non coi soldi dei contribuenti. E visto che i lettori se la sono data a gambe levate, all’Espresso sono rimaste due possibilità. O convince i De Benedetti a vendere ville e yatch e gioielli di famiglia per pagare gli stipendi dei loro giornalisti oppure abbassare la saracinesca e mandare le penne rosse a lavorare. E good luck. Sta finendo un’era. Finalmente. L’Italia ha girato pagina, è andata avanti. Il giornalismo no, è rimasto indietro politicamente ma anche culturalmente. È figlio di un mondo che non esiste più. Ed è questo il problema. La stampa dovrebbe essere una delle avanguardie della società, un luogo che informa onestamente la cittadinanza ma anche dove si ragiona, s’immagina, si contribuisce in qualche modo al pensiero e al dibattito di una comunità nazionale. La stampa italiana oggi è drammaticamente piatta e distante dalla società. È retrograda e conservatrice. Sa di muffa. È lenta, scontata e le sue parole sono vaghe e vuote come quelle di certi professoroni alla vigilia della pensione o di certi preti anziani che hanno perso la vocazione e predicano in chiese desolatamente vuote. Ostaggio di vecchi soloni rimbambiti, la stampa italiana predica e si lagna sbandierando stracci sgualciti senza avere la forza di penetrare nella realtà e soprattutto guardare avanti. Riesce solo a guardare indietro, appiccicando etichette anacronistiche, replicando ricette ormai nauseabonde. Come impedita da paraocchi ideologici che la fanno sbattere contro i muri delle proprie ammuffite convinzioni. Il perché è semplice. La stampa italiana è una delle sacche in cui si è annidato il vecchiume pre 4 marzo. È una casta reduce del vecchio regime e dal dente avvelenato che rifiuta il cambiamento perché per molti di loro significherebbe perdere carriere e status e la pestifera certezza di essere nel giusto in quanto casta intellettualmente e moralmente superiore. Ego e depravazione elitaria di categoria. Ma anche bassa politica. La stampa oggi è una protesi malconcia delle paturnie ideologiche del passato e di una fase partitica tra le più fallimentari della storia repubblicana. E ne riflette il peggio. Chi dirige la stampa sono anziani o polli di batteria che fino a ieri leccavano i deretani di qualche politicante di destra o di sinistra raccontando in giro la panzana della loro libertà e indipendenza che se ne avessero avuto anche solo un granello non li avrebbero mai fatti nemmeno entrare dalla porta di quelle redazioni. A seguito dello tsunami gialloverde, molta stampa è rimasta orfana di padroni politici e aree di riferimento. Da un giorno con l’altro. Da schiava a potenzialmente libera. Ma invece di spezzare del tutto le catene e abbracciare il nuovo corso, ha preferito rimanere incatenata al passato. Invece di smetterla di far politica e cominciare finalmente a fare giornalismo, hanno addirittura esasperato il vecchio modello politicizzato sdoganando fake news e spingendo sulle campagne diffamatorie. Hanno come avuto paura della libertà perché non la conoscono, non l’hanno mai vissuta veramente. E così si son messi in proprio, si son fatti partito. Auto imprigionandosi. Si son fatti sindacati difensori di un regime moribondo, si son fatti infami boicottatori di un cambiamento che non capiscono e non vogliono capire perché sanno benissimo che dopo aver fatto fuori i loro padroni politici, quel cambiamento farà far fuori anche loro. Come infatti sta succedendo. Naturalmente, democraticamente, pacificamente. Lasciando i loro giornali a marcire in edicola ed i loro talk-show blaterare nel vuoto. Stiamo arrivando al punto di rottura. Le crepe son sempre più profonde. I resti del vecchio regime scricchiolano e barcollano preannunciando il tonfo finale. Se i gialloverdi terranno duro, l’Espresso sarà solo il primo salubre crack di una lunga serie.

https://infosannio.wordpress.com/2018/10/07/fallimento-espresso/

venerdì 19 aprile 2019

Siri indagato, la tela dell’ex deputato Arata per arrivare alle istituzioni: assessori, un ex ministro e Micciché. - Giovanna Trinchella

Siri indagato, la tela dell’ex deputato Arata per arrivare alle istituzioni: assessori, un ex ministro e Micciché

C'è un groviglio di corruzioni che ha portato gli investigatori della Dia fino al cuore del governo. Il "gruppo Arata/Nicastri", così lo definiscono gli inquirenti, quando l'imprenditore dell'eolico è finito nei guai, ha potuto far affidamento "sulla importante rete di rapporti istituzionali" di Arata "per trovare canali privilegiati di interlocuzione con organi politici regionali siciliani.

C’è un groviglio di corruzioni – svelate da una primigenia indagine antimafia della Procura di Palermo sull’imprenditore Francesco Isca – che ha portato gli investigatori della Dia fino al cuore del governo con la notifica al senatore leghista Armando Siri dell’informazione di garanzia per corruzione. Ma ci sono soprattutto nomi che parlano di una vecchia politica in dialogo con il malaffare e in alcuni casi anche indirettamente con la mafia: una tela, stando all’Antimafia, costruita da Franco Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia. A scorrere le otto pagine del decreto di perquisizione della Dda di Palermo saltano agli occhi i nomi del boss latitante Matteo Messina Denaro, ma anche di un esponente politico di spicco come Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, già ministro e con responsabilità di governo con Berlusconi premier, di Alberto Dell’Utri, fratello gemello di Marcello ex senatore di Forza Italia, quest’ultimo ai domiciliari per scontare una condanna per concorso esterno, e Calogero Mannino, ex ministro democristiano, coinvolto e assolto nel processo sulla Trattativa.
Perché compaiono tutti questi nomi – nessuno di loro è indagato – nell’inchiesta di Palermo? Perché Franco Paolo Arata, già presidente del Comitato interparlamentare per lo sviluppo sostenibile, autore del programma di governo della Lega sull’Ambiente, l’uomo che – stando ai pm di Roma – avrebbe corrotto il sottosegretario leghista con la promessa o la consegna di 30mila euro, si attiva in modo da trovare ascolto e intercessioni per gli affari di Vito Nicastriimprenditore dell’eolico finito ai domiciliari con l’accusa di aver contribuito alla latitanza del boss di Castelvetrano. Senza contare le “bustarelle”, soldi e il lavoro per un figlio, andate a tre dipendenti pubblici per passare informazioni sulle pratiche e concedere una autorizzazione alla costruzione di impianti di produzione di energia alternativa delle società del duo Nicastri/Arata “soci” nel grande affare delle energie rinnovabili in Sicilia. Anche attraverso i loro figli, Manlio Nicastri e Paolo Francesco Arata, anche loro indagati.
Chi è l’imprenditore Vito Nicastri, i pm: “Spregiudicato e pregiudicato”. Partendo dagli affari di Francesco Isca, considerato vicino alle famiglie mafiose Musso e Crimi, i pm di Palermo svelano un primo legame economico tra Nicastri e Isca. Poi entra in scena Arata e gli investigatori scoprono “un reticolo di società” facenti capo alla famiglia Arata, “ma partecipate occultamente da Nicastri, vero regista delle strategie imprenditoriali” e definito dall’ex politico “la persona più brava dell’eolico in Italia”. Il re del vento “oltre ad aver un’indubbia competenza e abilità in tale settore – sottolineano gli inquirenti nell’informazione di garanzia – è un imprenditore pregiudicato e spregiudicato“. Condannato in via definitiva per corruzione e truffa aggravata a Nicastri, prima di finire ai domiciliari, nel 2012 era stata applicata la misura di prevenzione personale e nei suoi confronti era stato emesso anche un provvedimento di confisca. Nonostante questo e nonostante Nicastri – da oggi in carcere – fosse finito ai domiciliari per l’appoggio “all’amico di Castelvetrano”, i legami con Arata non si sono spezzati. L’ex deputato e suo figlio “non hanno avuto alcuna esitazione a proseguire un rapporto societario di fatto con il detenuto Nicastri, architettando molteplici escamotage per consentire una continua, e  a volte anche diretta, interlocuzione con il ‘re dell’eolico’ nonostante le prescrizioni imposte a Nicastri, ripetutamente e gravemente violate” per “portare avanti i molteplici progetti imprenditoriali e le connesse azioni delittuose”.
Il “gruppo Arata/Nicastri” e i contatti con i politici.
Scrivono poi i pm: “Gli Arata, attraverso la società Alqantara… hanno acquisito partecipazioni nella Etnea srl (operante nel settore del mini-eolico, con dieci turbine già produttive), nella Solcara srl (titolare di sei torri mini-eoliche già produttive), nella Solgesta srl (partecipata, prima al 50%, poi interamente, da Solcara srl, impegnata in due progetti di costruzione di impianti di produzione di bio-metano), nella Bion srl (fotovoltaico) e nell’Ambra Energia srl (fotovoltaico)”. Tutte società che “appaiono partecipate occultamente” da Nicastri. Ma non solo la Solgesta, come emerge da alcune intercettazioni, “è da considerarsi partecipata occultamente anche da Francesco Isca“.
Il “gruppo Arata/Nicastri”, così lo definiscono gli inquirenti, quando quest’ultimo è finito nuovamente nei guai, ha potuto far affidamento “sulla importante rete di rapporti istituzionali” di Arata “per trovare canali privilegiati di interlocuzione con organi politici regionali siciliani ed essere introdotto negli uffici tecnici incaricati di valutare, in particolare, i progetti relativi al ‘bio-metano'”. Ed è così che inizia l’elenco delle personalità contattate – ma che risultano estranee alle indagini – da Arata come l’assessore regionale alle Energie “Alberto Pierobon  grazie all’intervento di Gianfranco Micciché, a sua volta contattato da Alberto Dell’Utri“. Poi, quando “l’epicentro della fase amministrativa” è diventato l’assessorato al Territorio e Ambiente (per la verifica di assoggettabilità del progetto alla VIA, valutazione di impatto ambientale) “Arata è riuscito ad interloquire direttamente con l’assessore regionale Territorio e Ambiente Salvatore Cordaro” e  “tramite questi, con gli uffici amministrativi di detto Assessorato, dopo aver chiesto un’intercessione per tale fine a Calogero Mannino”. La Dia sentirà come persone informate sui fatti Miccichè, Pierobon e Cordaro.
Nell’assessorato alle Energie Arata e Nicastri trovano in due dipendenti che si “prodigano” a fornire informazioni sulle pratiche per loro in cambio di bustarelle. Un’altra sponda arriva in un dipendente del Comune di Calatafimi che stando, agli inquirenti ha incassato 115mila euro sul proprio conto nel corso di tre anni bonifici provenienti dalla Quantas (riconducibile a Nicastri) per aver rilasciato le autorizzazioni per la costruzione delle torri mini-eoliche della Etnea, società che nel dicembre 2015 aveva acquistato la Quantas. Ma al “gruppo” non bastava ed è per questo che a un certo punto probabilmente hanno puntato su Roma.

Luigi Di Maio -



Buongiorno, anche oggi la Lega minaccia di far cadere il governo. Lo aveva già fatto con la Tav. Sembra ci siano persino contatti in corso con Berlusconi per fare un altro esecutivo. Sono pieni i giornali di queste ricostruzioni e lo trovo gravissimo. Sono davvero sbalordito. 
Trovo grave che si prenda sempre la palla al balzo per minacciare di buttare via tutto. Ma dov’è il senso di responsabilità verso i cittadini? Dove è la voglia di cambiare davvero le cose, di continuare un percorso, di migliorare il Paese come abbiamo scritto nel contratto?
L’Italia non è mica un gioco, l’Italia siamo noi e milioni di famiglie in difficoltà che vogliono un segnale. L’Italia non è un trofeo e trovo gravissimo che la Lega con così tanta superficialità ogni volta che gli gira minacci di far cadere il governo. Ma poi per cosa? Per non mettere in panchina un loro sottosegretario indagato per corruzione (che potrà poi rientrare nel governo laddove, mi auguro, si risolvesse positivamente la questione) sono pronti a far saltare tutto e a tornare con Berlusconi? Questo è il valore che danno all’Italia?
Scusatemi, ma è stato proprio il MoVimento 5 Stelle a bloccare i tentativi del sottosegretario leghista Siri di introdurre alcune misure diciamo un po’ controverse. E anche i giornali oggi ne danno conto. Noi ce le ricordiamo: quando arrivarono sui nostri tavoli ci sembrarono strane e le bloccammo. Questo dimostra che gli anticorpi del Movimento ci sono e sono ancora forti. Senza di noi chissà cosa sarebbe accaduto.
Abbiamo sempre agito rispettando un punto, un principio: la legalità! Siamo sempre stati coerenti su questo. Lo abbiamo dimostrato anche recentemente a Roma. Siamo nati sulla questione morale e gli indagati per corruzione o per aver preso mazzette e tangenti no, non possiamo accettarli. Siamo entrati per cambiare le cose, non per lasciarle così come sono.
Mi auguro che la Lega lo abbia capito. Perché quella di ieri su Virginia Raggi è stata una vera e propria sceneggiata mediatica. Tra l’altro, sempre ieri sera, a pochi giorni dallo scandalo sulla sanità che ha travolto il Pd in Umbria, ho avuto la fortuna di ascoltare il nuovo segretario del Pd dire che quando un politico è indagato, deve dare delle spiegazioni ai cittadini. Sono più che d’accordo, peccato però che ancora stiamo aspettando le sue di spiegazioni...
Vedete, la legalità, l’etica, la questione morale in politica hanno anche un prezzo, a volte, e un peso. Noi, questo peso, sappiamo sostenerlo. Noi questi valori li abbiamo sempre difesi. E continueremo a farlo. A testa alta e con orgoglio.


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giovedì 18 aprile 2019

Pagavano fino a 15 mila euro per un diploma falso che aprisse le porte della scuola pubblica. - Jacopo Ricca

Pagavano fino a 15 mila euro per un diploma falso che aprisse le porte della scuola pubblica
Inchiesta a Torino: nel mirino 150 tra segretari e bidelli.
Pagavano fino a 15mila euro per avere un diploma falso, ma anche per lavorare nella scuola privata e ottenere così un punteggio alto per avere un contratto nelle scuole pubbliche come bidelli, tecnici o segretari. I racconti fatti ai sindacati dai lavoratori, licenziati in questi mesi dalle scuole del Torinese che – su invito dell'Ufficio scolastico provinciale – hanno avviato i controlli sulle certificazioni, confermano come dietro all'intera vicenda ci sia un'organizzazione.
Sul caso - rivelato da Repubblica Torino oggi in edicola - arriva una condanna unanime da parte dei sindacati: “Quanto è accaduto è inaccettabile. Va tutelato il diritto di chi si è comportato in modo onesto e condannato chi porta avanti pratiche truffaldine – tuona Luisa Limone, segretaria regionale della Flc Cgil - Il numero dei posti disponibili e delle assunzioni a tempo indeterminato è molto più basso di quanto servirebbe e deve però far riflettere che si sia arrivati a questa situazione. Mi sembra molto preoccupante per il sistema. Va apprezzato l'atteggiamento degli uffici scolastici regionale e provinciale. Il passo successivo però deve guardare verso una stabilizzazione dei precari”. Durissima anche la segretaria torinese della Cisl Scuola, Teresa Olivieri: “I falsi e chi li ha fatti vanno condannati – ragiona – Trovo che sia inquietante anche la disponibilità alla truffa di queste persone che sapevano, nella maggior parte dei casi, che i diplomi erano falsi e si sono piegati a pagare cifre importanti”.
Da ottobre a oggi almeno 110 persone sono state licenziate e la posizione di 146 è al vaglio della procura di Torino dopo che l'Usp ha segnalato il caso ai magistrati. Le false attestazioni e i lavoratori arrivano tutti da Campania, Calabria e Sicilia: “Dopo alcune segnalazioni da parte delle scuole abbiamo ritenuto opportuno un intervento sulla tematica – racconta il direttore dell'USp Stefano Suraniti - L'inserimento di numerosi aspiranti con età molto giovane con punteggio molto alti, sia per i titoli che per i servizi svolti era sospetto anche perché i titoli spesso erano conseguiti in scuole paritarie di altre regioni e il servizio era svolto, spesso per poche ore, in scuole paritarie di altre regioni; pertanto abbiamo chiesto alle scuole di verificare il versamento dei contributi presso l’Inps ed è spesso risultato che tale versamento era assente”.
La cosa è stata confermata anche dai sindacati che hanno raccolto le lamentele di queste persone: “Per lavorare un'ora o due a settimana e avere il massimo punteggio a fine anno pagavano somme importanti, dai 5 ai 15mila euro a seconda del periodo e delle attività – raccontano i sindacalisti – C'è chi ha rinunciato a un lavoro al Sud per trasferirsi qua e ora ha perso tutto”.