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mercoledì 1 febbraio 2017

Lady dentiera, i giudici sequestrano d’urgenza 2,5 milioni. Il Consiglio di Stato le ridà l’appalto da 103. - Thomas Mackinson

Lady dentiera, i giudici sequestrano d’urgenza 2,5 milioni. Il Consiglio di Stato le ridà l’appalto da 103

Cortocircuito tra magistratura e giustizia amministrativa: la società di Maria Paola Canegrati, agli arresti domiciliari e sotto processo per corruzione, si riprende l'odontoiatria dell'ospedale di Desio, da cui era partita l'inchiesta. "Non c'erano anomalie nel bando". A firmare il ricorso in appello i commissari del Prefetto. Solo quattro giorni prima il Tribunale di Monza aveva ottenuto il sequestro d'urgenza di beni e conti correnti. Il revisore che fece saltare il sistema: "Non mi meraviglia, le cose non funzionano".

Escono dalla porta per rientrare dalla finestra. Il Tribunale sequestra a Lady dentiera beni per 2,5 milioni, quattro giorni dopo il Consiglio di Stato le riapre le porte dell’Ospedale di Desio-Vimercate riaffidando all’imprenditrice Maria Paola Canegrati l’appalto da 103 milioni, proprio quello per “servizi di assistenza specialistica di odontoiatria” che le costò l’arresto per corruzione insieme ad altre venti persone, tra le quali Fabio Rizzi, braccio destro sulla Sanità del governatore Roberto Maroni (che ha patteggiato). Meno noto che l’appalto al centro dello scandalo avesse anche una storia di ricorsi iniziata nel 2015 e finita il 20 dicembre scorso, quando la terza sezione del Consiglio di Stato lo ha riassegnato alla Servicedent della Canegrati, ritenendo che il bando fosse tecnicamente regolare. Un cortocircuito tra magistratura e giustizia amministrativa: quattro giorni prima il Tribunale di Monza otteneva il sequestro d’urgenza di beni e conti correnti per la titolare tuttora agli arresti e sotto processo (prossima udienza il 15 febbraio), dopo che il Gup ha respinto la sua richiesta di patteggiamento a 4 anni e 2 mesi, ritenendo la pena esigua.
La notizia non trapela finché il nuovo direttore generale Pasquale Pellino – in carica dal 1 gennaio 2016 proprio in seguito alla bufera giudiziaria – il 27 gennaio annuncia via mail a dipendenti e collaboratori quanto segue: “Abbiamo il piacere di informarvi che la Giustizia Amministrativa ha deciso l’affidamento a favore di Servicedent, tutto ciò si traduce col fatto che la suddetta società sarà legittimata al continuare l’attività per altri 6 anni +2”. Nessuna menzione delle implicazioni della decisione e del fatto che la titolare della società che fornirà il servizio, già commissariata a giugno dell’anno scorso, è sotto processo.
Ma c’è dell’altro. Perché a proporre appello contro la decisione del Tar, che aveva accolto il ricorso di una concorrente (Smart Dental Clinic s.r.l., già Pentadent s.r.l. del gruppo San Donato) non è la titolare agli arresti ma i commissari che il prefetto di Monza ha nominato al suo posto a giugno: un altro paradosso. Lo spiega l’avvocato della Canegrati, Michele Saponara, mostrando soddisfazione per la sentenza: “Il Consiglio di Stato alla fine ha ritenuto legittimo il bando che aveva provocato tanto scandalo e sul quale sono appese alcune delle accuse contro la mia cliente. L’appello proposto e vinto dai commissari dimostra che non era poi così irregolare”.
Non si meraviglia Giovanna Ceribelli, il revisore dei conti che ha dato il via all’inchiesta setacciando appalti e fatture alla Canegrati. “E’ un’altra stortura delle leggi italiane, quando si trova qualcuno che ha ottenuto non uno ma diversi appalti in maniera “non ortodossa”, anziché vederseli revocare se lì vede riaffidare e per mano dei commissari”. “E’ vero che all’epoca dell’appalto non era ancora successo niente, ma oggi c’è un processo Canegrati in corso. La direzione sanitaria forse dovrebbe considerare che nell’ambito dell’indagine penale sono emerse irregolarità sui lavori eseguiti e sulle prestazioni fatte ai cittadini abbastanza pesanti, per non dire dei pagamenti doppi o fatti pagare in regime privato quando rientravano nell’assistenza sanitaria regionale”. Le carte del Gip raccontavano anche di materiali “diversi e più scadenti” proposti ai pazienti rispetto a quelli utilizzati solitamente dalle strutture sanitarie.
Da settembre la Ceribelli siede nel consiglio direttivo nell’Agenzia regionale anticorruzione (Arac), nata sull’onda di quello scandalo. “Ma non ha la struttura adeguata per occuparsi di queste cose, siamo solo in due ad avere le qualifiche per setacciare le gare. Qualcuno dei componenti ritiene possa diventare una specie di “centro studi” anziché di prevenzione della corruzione, cosa non prevista dalla legge istitutiva. Personalmente continuo a credere nella trasparenza, tanto che sto cercando di far rispettare la legge laddove le aziende del sistema regionale non lo fanno”. Una cosa fin banale, ma poi non così tanto.
documenti del bando finito nel mirino dell’autorità giudiziaria (e riammesso ora da quella amministrativa) dovrebbero essere disponibili sul sito dell’Azienda ospedaliera. La nuova gestione ha però preso tutto il pacchetto della vecchia e l’ha messo in una sezione separata tramite un link, che avvisa: “Per accedere ai documenti della precedente Azienda Ospedaliera di Desio e Vimercate, cliccare qui”. Il link però… non funziona. Il direttore Pellino ci fa chiamare al volo dal responsabile dell’area tecnica che assicura “provvederemo al più presto, grazie della segnalazione”. Un’ora dopo richiama dicendo che è stato ripristinato. Al momento in cui scriviamo però le sezioni (bandi, avvisi, concorsi etc) ci sono, ma sono vuote. “Accidenti, provvederemo. Grazie della segnalazione”. 
Benedetta trasparenza.

mercoledì 13 luglio 2016

Metro C: 47 varianti e conto extra di 700 milioni. E quattro anni fa la Corte dei Conti disse: “Moralmente inaccettabile” - Marco Pasciuti

Metro C: 47 varianti e conto extra di 700 milioni. E quattro anni fa la Corte dei Conti disse: “Moralmente inaccettabile”

L'inchiesta della Procura di Roma, con 13 indagati arriva dopo una serie di denunce sulla lievitazione del budget, passato da 2,2 a 3,7 miliardi senza che l'opera fosse consegnata. L'Autorità anticorruzione: "Carenza nei rilievi archeologici preventivi, così lievitavano i costi". Nel 2013 l'esposto dei radicali in Comune. Già l'anno prima la magistratura contabile aveva definito la spesa "insopportabile per la finanza pubblica"


Ignazio Marino li aveva cacciati tutti il 17 luglio 2014 “per giusta causa”. E perché nell’operato della società era stato “rilevato un livello di criticità tale da far dubitare dell’affidabilità dell’attuale gestione aziendale, in particolar modo rispetto alle scadenze dei tempi di realizzazione della linea C della metropolitana”. Quel giorno, dopo un anno di braccio di ferro e reciproci scambi di accuse sui continui rinvii dei lavori, il sindaco “marziano” firmava un’ordinanza con cui revocava il cda di Roma Metropolitane: il presidente Massimo Palombi, i consiglieri Andrea Laudato e Massimo Nardi e il dg Luigi Napoli. Oggi tutti indagati nell’inchiesta della Procura di Roma che vuole fare luce sugli aumenti dei costi della Metro C.
Perché l’indagine di piazzale Clodio parte da lontano, affonda le proprie radici nei gangli più reconditi del fangoso potere capitolino in maniera inversamente proporzionale alla difficoltà e alle lentezze con cui binari e gallerie sono stati scavati nel ventre di Roma. Numerose sono state negli anni le mani levate a segnalare ambiguità, opacità e lungaggini, molteplici i dubbi avanzati sull’esecuzione e la regolarità dei lavori da attori della società civile ai partiti politici. A partire dall’associazione Italia Nostra, firmataria di un esposto già nel 2013, fino al Partito Radicale. “Due anni fa presentavamo il primo dei nostri esposti sugli abusi, le illegalità e gli sprechi negli appalti della Metro C di Roma, le cui ragioni sarebbero poi state pienamente accolte da Corte dei Conti e Autorità Anticorruzione”, commenta Riccardo Magi, segretario del partito, che ricorda anche la richiesta di dimissioni dell’assessore Improta, finito poi nel registro degli indagati insieme ad altre 12 persone. “Solo lo scorso giugno abbiamo diffidato il governo dall’assumere ogni iniziativa amministrativa, economica, politica a favore della prosecuzione della Metro C, chiedendo la rescissione in danno del contratto”.
Nel 2012 era stata la Corte dei Conti a scoperchiare il vaso di Pandora. “Per l’incidenza perniciosa della corruzione  – scandiva il 22 febbraio 2012 nella sua relazione il procuratore regionale della sezione giurisdizionale del Lazio, Angelo Raffaele De Dominicis, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – si son riversati sulla finanza pubblica costi veramente insopportabili e moralmente inaccettabili come ad esempio i problemi emersi nella prima fase di realizzazione della linea C della Metropolitana di Roma”.
Si riferiva, il magistrato, al report stilato dalla sezione centrale di controllo della Corte, che aveva prodotto un documento pubblicato agli inizi dello stesso mese di febbraio ”sui costi quasi triplicati per l’esecuzione di questa importante arteria sotterranea”. I numeri:  ”Aggiornato a 3.379.686.560 euro” senza le opere complementari, ”con la progettazione definitiva della tratta più complessa” (del centro storico), per la Corte dei Conti, il costo era destinato ad aumentare ancora. E ”notevolmente”.
Gli anni passavano veloci, i lavori procedevano con lentezza esasperante, mentre la parcella dei costruttori lievitava di conseguenza. La fotografia definitiva sul continuo aumento dei costi la scattava quattro anni più tardi l’Autorità nazionale anticorruzione. Nel rapporto pubblicato il 2 luglio 2015, l’ente presieduto da Raffaele Cantone certificava che al progetto iniziale – dal 2007 a quella data – erano state apportate 47 varianti e che dopo 7 anni il preventivo iniziale era aumentato di 700 milioni.
La delibera, trasmessa alla Corte dei Conti, riportava tutti i passaggi della gara e del contratto per la nuova linea metropolitana a partire dal 2005, quando a gennaio una delibera Cipe individuava il tracciato fondamentale, base d’asta: 2,5 miliardi di euro. Stazione appaltante la società del Comune capitolino Roma Metropolitane. Il 28 febbraio 2006 la gara veniva aggiudicata per circa 2,2 miliardi all’associazione temporanea di imprese costituita da Astaldi, Vianini Lavori, Consorzio Cooperative Costruzioni e Ansaldo Trasporti Sistemi Ferroviari che costituiscono la società “Metro C”, contraente generale.
Questo, il background. Da lì aveva inizio una storia costellata di decine di varianti e contenziosi. Di varianti, l’Anac ne contava 47: 7 a parità di importo, 5 in diminuzione e 33 in aumento, per un incremento dell’importo contrattuale di circa 316 milioni. Sta di fatto che il documento che l’Authority ha trasmesso alla Procura della Corte dei conti, annotava come “il costo dell’investimento per il cosiddetto ‘Tracciato fondamentale’ della linea C fosse aumentato nel tempo passando dal valore iniziale di 3.047 milioni a 3.739 milioni di euro“.
Ed è proprio l’Anac a illuminare la causa di quegli aumenti di costo. Ovvero le varianti, capitolo indissolubilmente intrecciato con quello dei rilievi archeologici. L’operato di Roma Metropolitane nell’appaltare l’opera “appare non coerente con i principi di trasparenza e di efficienza per aver messo a gara un progetto di tale rilevanza in carenza di adeguate indagini preventive, per una parte molto estesa del tracciato, senza tenere in debito conto i pareri espressi dalla Soprintendenza archeologica”, mette nero su bianco l’Authority.
E questo “ha determinato una notevole aleatorietà delle soluzioni progettuali da adottare nella fase di esecuzione e, ad appalto già in corso, rilevanti modifiche rispetto alle previsioni contrattuali, imputabili in parte anche al contraente generale”. In pratica nel progettare il percorso si faceva in modo di non tenere conto della possibilità di imbattersi nei resti di una villa romana, di una esedra o di un acquedotto. Quando accadeva, si faceva una variante al progetto. Ogni volta. Così il costo dell’opera non ha fatto che aumentare.

mercoledì 30 dicembre 2015

Palermo, tram del maxi-appalto costretto a girare vuoto. Il bilancio? Già in rosso. - Giuseppe Pipitone

Palermo, tram del maxi-appalto costretto a girare vuoto. Il bilancio? Già in rosso

Rischiava di costare alle casse del capoluogo siciliano una stangata da 328 milioni di euro: fondi Ue che sarebbero stati bloccati se non fosse stato operativo entro il 31 dicembre. E la magistratura indaga, dai lavori cominciati senza un progetto esecutivo alle costose consulenze elargite per nomina diretta.

Otto anni di lavori, più di trecento milioni di euro di spesa, settimane di collaudo infinito, e un bilancio che nasce già in passivo. In mezzo ci sono le indagini della procura, una durissima relazione dell’Anticorruzione e un fuoco incrociato di polemiche. È in questo variopinto scenario che a Palermo tornerà a sfrecciare il tram, quasi un secolo dopo l’ultima corsa, datata 1947. Altri tempi, dato che questa volta l’affare tram rischiava di costare alle casse del capoluogo siciliano una stangata da 328 milioni di euro: fondi dell’Unione Europea che sarebbero stati bloccati se il progetto non fosse stato operativo entro il 31 dicembre.
Bruxelles vuole indietro i soldi del tram? Che problema c’è? Smontiamo i binari e glieli spediamo indietro”, commentavano ironici i consiglieri comunali di Forza Italia. “Col tram diminuiranno furti e rapine”, vaneggiava, invece, il sindaco Leoluca Orlando, consapevole che la questione stava per trasformarsi in un vero e proprio disastro per la sua giunta: nonostante i cantieri avessero finito da mesi il loro lavoro, infatti, mancavano sia il denaro che gli uomini per gestire il servizio. Alla fine, però, dopo una seduta fiume durata più di 24 ore e terminata la vigilia di Natale, il consiglio comunale ha dato il via libera al contratto per mettere la gestione della rete tranviaria nelle mani di Amat, la società comunale che si occupa già del trasporto pubblico su gomma.
Un via libera nato tra le polemiche, dato che è arrivato con i voti del centro destra e dei consiglieri comunali fedeli a Orlando, mentre il Pd ha già iniziato la raccolta firme per chiedere il ritiro della delibera. Il motivo? Il primo cittadino finanzierà la gestione del nuovo mezzo pubblico imponendo la "Zona a traffico limitato" nel centro storico cittadino. I conti sono presto fatti: gestire il tram costa 22 milioni di euro all’anno, tra manutenzione (dieci milioni), energia elettrica (quattro milioni e mezzo), autisti (sei milioni) e pulizie (quasi trecentomila). Con la Ztl, che costerà 100 euro all’anno per ogni veicolo che entrerà in centro (anche per i residenti), l’eterno sindaco palermitano (in carica già nel 1985) stima di mettere in cassa una trentina di milioni l’anno. “Bisogna opporsi a questo scippo in piena regola”, tuonano i consiglieri dem.
Il nodo della Ztl, però, non è l’unico che anima la protesta dei professionisti dell’antitram. “Nel primo anno – dice la consigliera Nadia Spallitta – il tram costerà circa 22 milioni e prevede incassi per 4 milioni, mentre nel secondo anno costerà 17 milioni e l’incasso dovrebbe restare lo stesso”. Come dire che il nuovo trasporto pubblico palermitano nasce già con un rosso di almeno 13 milioni di euro all’anno: buco che verrà appunto ripianato solo con i soldi della nuova Ztl.
Ma non solo. Perché a correre sui binari non sono solo le polemiche, ma soprattutto le inchieste giudiziarie che cercano di fare luce su quindici anni di appalti a nove cifre. Il progetto di una nuova linea tranviaria del capoluogo siciliano prende corpo nel 2000 quando la Banca europea d’Investimenti dà l’ok ad un finanziamento da 160 miliardi di lire. Da quel momento in poi comincia la tipica sagra del rinvio molto cara alla burocrazia nostrana: il progetto dovrà attendere cinque anni per essere autorizzato, i cantieri verranno inaugurati nel 2006, ma i lavori cominceranno solo nel 2007. Manco a dirlo, il costo per realizzare l’opera lievita a dismisura: il primo appalto viene assegnato per 192 milioni di euro, più del doppio rispetto al primo finanziamento, quindi spuntano varianti, consulenze, bonus per più di 80 milioni di euro. È per questo motivo che nel 2013 Raffaele Cantone prende carta per segnalare “anomalie e difformità” nell’intera operazione: dai lavori cominciati senza un progetto esecutivo alle costose consulenze elargite per nomina diretta.
Il dossier dell’Anticorruzione finisce sui tavoli dei pm Roberto Tartaglia e Maurizio Agnello, che già due anni fa avevano aperto un fascicolo sulla vicenda. Indagine che è ancora in corso, mentre pochi giorni fa un altro sostituto procuratore, Daniela Varone, ha ordinato agli uomini della guardia di finanza di andare in Municipio per sequestrare ogni singolo documento sulla rete tranviaria. E mentre si attende che le indagini degli inquirenti facciano luce sui vari punti oscuri del maxi appalto, il tram ha già iniziato la sua corsa tra le vie della città: solo che è completamente vuoto. In attesa che il consiglio comunale approvasse il contratto di servizio con l’Amat, e aspettando ancora oggi il via libera della Regione Siciliana, i conducenti sono obbligati ogni giorno ad un collaudo infinito: il tram c’era, i binari pure, ma mancavano i soldi e i gestori per fare partire il servizio. E così, ogni mattina gli autisti mettono in moto il tram, provano i freni, si fermano ai semafori, ripartono, senza che alcun passeggero sia mai potuto salire sui luccicanti vagoni bianchi costruiti dall’austriaca Bombardier. Uno spettacolo surreale che dovrebbe finire entro il 31 dicembre, ma che nel frattempo va avanti da quasi un mese: come dire che in Sicilia i paradossi riescono a materializzarsi persino sui binari.

venerdì 5 giugno 2015

Mafia Capitale, ‘illegittimo l’appalto al Cara di Mineo’. Ma Alfano ignorò Cantone. - Marco Lillo

Mafia Capitale, ‘illegittimo l’appalto al Cara di Mineo’. Ma Alfano ignorò Cantone

La gara da 100 milioni di euro dell'aprile 2014, al centro dell'inchiesta della Procura di Catania che vede indagato il sottosegretario Ncd Giuseppe Castiglione insieme ad altre 5 persone, era stata segnalata dall'Anticorruzione al ministero dell'Interno, che non è mai intervenuto.

La lettera che Il Fatto Quotidiano ha potuto leggere :Lettera Cantone Lillonon proviene dagli atti giudiziari ma è fondamentale per capire l’inadeguatezza del Ministero guidato da Angelino Alfano nel gestire la questione più importante dell’indagine: l’appalto da 100 milioni del Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania). Il 27 maggio scorso il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone scrive al ministro Alfano una lettera pesante: l’appalto del Cara di Mineo vinto nell’aprile 2014 da un raggruppamento di imprese che comprende la Cascina (i cui manager sono stati arrestati ieri) è illegittimo.
Alfano non ha ancora risposto. Cantone terminava le sue sette pagine segnalando la delibera del Consorzio di Comuni Calatino Terra di Accoglienza che confermava l’appalto del Cara nonostante un parere contrario dell’Anticorruzione nelle mani delle imprese che lo avevano vinto, in testa La Cascina. Cantone scrive anche ad Alfano: “Tale problematica sarà sottoposta da Anac al giudice contabile per eventuali
profili di danno erariale”.
Tutto inizia il 25 febbraio scorso quando Cantone firma un parere sulla gara vinta dal consorzio comprendente La Cascina, vicina a Luca Odevaine, arrestato a dicembre per vicende analoghe. La gara da 100 milioni per gestire il centro per rifugiati più grande d’Europa in Sicilia sembrava ritagliata su misura del consorzio che già gestiva il Cara. Cantone nel parere scrive che la gara è “illegittima” perché “in contrasto con i principi di concorrenza,proporzionalitàtrasparenza, imparzialità e economicità”. La bacchettata lascia indifferente il Consorzio Calatino Terre di Accoglienza presieduto da Anna Aloisi, sindaco Ncd di Mineo, feudo elettorale del sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione, grande portatore di voti del partito di Alfano (oggi indagato dalla Procura di Catania per turbativa d’asta).
Un mese dopo il parere di Cantone, il 25 marzo, il prefetto Mario Morcone interviene davanti ai parlamentari del Comitato Schengen: “Dico una cosa che non piacerà: ho qualche dubbio sulla decisione del presidente Cantone, che peraltro conosco, apprezzo e stimo moltissimo”. Morcone si schiera con chi gestisce il centro: “A noi hanno detto sempre che il general contractor (come quello scelto da Odevaine e compagni per il Cara di Mineo, ndr) era la soluzione e che si risparmiava e ora improvvisamente per un contratto del 2013 si è stabilito che è stata impedita la partecipazione alle piccole e medie imprese”. Morcone chiude critico: “A certe situazioni bisogna fare attenzione perché ci sono sicuramente aspetti di opacità ma anche tanta gente per bene”. Forti anche delle parole di Morcone, il 13 aprile il direttore generale del Consorzio Calatino Giovanni Ferrera e la presidente Aloisi inoltrano a Cantone una “richiesta di riesame del parere”. Nell’istanza, Ferrera si fa forte di un parere del 10 aprile 2015 della Direzione centrale dei Servizi civili per l’immigrazione del Ministero che “ha confermato l’indirizzo assunto da questo consorzio nel 2014 e negli ultimi sette anni dalle Prefetture”. Effettivamente il 10 aprile il direttore centrale vicario, Maurilia Bove, scrive alla Prefettura di Catania una lettera che sembra un via libera alla strada scelta a Mineo. Dieci giorni dopo lo stesso viceprefetto Bove corregge un po’ il tiro con una seconda lettera alla Prefettura: specifica che la prima nota non faceva “riferimento al caso specifico” di Mineo.
Cantone comunque non si piega e il 6 maggio scrive al Consorzio Calatino che l’Anac non rivede il suo parere: la gara è illegittima. Il 15 maggio Ferrera, del Consorzio Calatino, firma e pubblica la determina che conferma l’appalto da 100 milioni e chiude la questione anche perché l’Anac ha solo un potere consultivo. Grazie alle lettere della direzione che dipende da Morcone e dopo l’audizione anti-Cantone del prefetto, l’appalto ne è salvo. 
Ora Angelino Alfano dovrà rispondere finalmente una volta per tutte alla domanda implicita della lettera del 27 maggio di Cantone: l’appalto di Mineo da 100 milioni, per il quale Luca Odevaine pretendeva mazzette di 10-20 mila euro mensili dai manager della Cascina arrestati ieri, assegnata grazie a una gara definita ‘illegittima’ da Cantone, al Ministro va bene?

venerdì 8 maggio 2015

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole. - Elena Ciccarello

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole

Una delibera dell'Anac detta le linee guida per gestire le denunce di dipendenti pubblici su casi di malaffare e nepotismo. Al primo punto la tutela del segnalante e le procedure informatiche per garantire riservatezza. In Usa si recuperano così sei miliardi l'anno, mentre in Italia è sempre in agguato il marchio del "delatore".

In Italia c’è chi li chiama “delatori” e guarda con sospetto alle loro denunce. Ma negli Usa è grazie ai “whistleblower“, persone che segnalano in modo riservato all’autorità gli illeciti di cui sono testimoni, che il Governo recupera ogni anno l’85% delle somme oggetto di frodi, oltre 55 miliardi di dollari dal 1986 con una media, oggi, di sei miliardi all'anno. Un sistema lontano “anni luce” da quello italiano, secondo il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone che ieri, intervenendo con l’ambasciatore statunitense John R. Philip ad un convegno organizzato dall’Universita’ Luiss Guido Carli, ha presentato il nuovo vademecum sul whistleblowing approvato dall’Anac e sollecitato nuovi “passi in avanti dal punto di vista normativo” per tutelare il dipendente pubblico che decide di esporsi.
Le Linee guida approvate dall’Anticorruzione nascono per “offrire agli enti pubblici italiani una disciplina applicativa delle stringate disposizioni di principio introdotte dalla legge n. 190/2012 (cd. “Legge Severino“)”. Si tratta dunque di regole elaborate, secondo quanto scritto dalla stessa Autorità, a partire da norme troppo “sintetiche” cui si è voluta dare “un’espansione massima possibile”, “nel contempo suggerendo al Legislatore possibili miglioramenti”.
Il vademecum si concentra sul tema della tutela del segnalante, in primis, su cui si chiede un “intervento chiarificatore” da parte della politica, ma anche sull’orizzonte di illeciti che possono essere segnalati, sui soggetti cui rivolgersi per fare la segnalazione e il trattamento da riservare alle segnalazioni anonime (comunque acquisite anche se trattate in modo diverso). Secondo l’Anticorruzione potranno essere segnalati non solo gli illeciti contro la pubblica amministrazione ma anche “l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati”. L’elenco è lungo “sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro” eccetera.
Le amministrazioni pubbliche non possono rivelare l’identità del whistleblower senza il suo consenso, tranne nei casi in cui chi “è sottoposto al procedimento disciplinare” per effetto della segnalazione abbia bisogno di conoscerla perché “assolutamente indispensabile” per la propria difesa. L’autore della segnalazione non può in ogni caso essere oggetto di provvedimenti disciplinari per effetto della sua denuncia, ma la tutela decade se viene riconosciuto colpevole di un reato di calunnia o diffamazione già in primo grado.
Il primo punto del vademecum resta comunque la tutela del whistleblower, sui cui la normativa attuale, secondo il documento, presenta ancora troppe lacune. Su questo l’Anticorruzione, in attesa di nuove norme, introduce alcune regole per il ricorso a procedure informatiche tali da evitare “la presenza fisica del segnalante”, che vanno indirizzate al responsabile per la prevenzione della corruzione dell’ente a meno che non riguardino proprio quel funzionario. In tali casi la segnalazione andrà invece inviata all’Anac. In ogni caso le amministrazioni dovranno fare di tutto per adottare procedure di tutela. “Al fine di evitare che il dipendente ometta di segnalare condotte illecite per il timore di subire misure discriminatorie, è opportuno che… le amministrazioni si dotino di un sistema che si componga di una parte organizzativa e di una parte tecnologica, tra loro interconnesse”, si legge nel documento.
A fronte di queste disposizioni resta però un problema di fiducia. E di tempi. “A noi tanti scrivono perché non ricevono risposte da parte delle istituzioni o perché hanno bisogno di indicazioni e di incoraggiamento prima di presentare una segnalazione” spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Fraschini, responsabile dello sportello per le segnalazioni di Transparency Italia. “Chi decide di fare una segnalazione ha bisogno di fidarsi del suo interlocutore e le fredde procedure burocratiche spesso in questo non sono d’aiuto”. Il modulo offerto dal servizio dell’Anticorruzione, come prima cosa, chiede a chi vuole fare una segnalazione di indicare il suo nome, cognome e posizione lavorativa. E questo, come notato dallo stesso Cantone, può non aiutare quando non si è in grado di garantire il segnalante da ritorsioni. “Chi scrive all’Anticorruzione non riceve una risposta e non riesce a capire a che punto sia la sua segnalazione” continua poi Fraschini. “Ma chi per colpa di quegli illeciti ha perso il lavoro o vive una situazione di disagio non può aspettare dei mesi”. L’America è ancora lontana.