Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 12 febbraio 2022
sabato 3 aprile 2021
RECOVERY FUND/INVESTIRE SUL SUD COME LA GERMANIA FECE SULL’EST. - Isaia Sales
In Europa, a partire dal secondo dopoguerra, ci sono stati solo due imponenti tentativi di recupero di vaste aree sottosviluppate all’interno della stessa nazione. Si tratta del Sud d’Italia (dal 1950 in poi) e della Germania dell’Est (dal 1990 ad oggi). I tentativi hanno interessato una consistente fetta di popolazione, 16 milioni e mezzo di abitanti nell’Est (un quinto dell’intera popolazione tedesca) e 20 milioni nel Sud (un terzo di quella italiana); molto estesa la superficie territoriale coinvolta (il 30% in Germania, il 41% in Italia). Anche altre nazioni europee hanno messo in piedi politiche specifiche per territori arretrati, ma nessuna di esse ha riguardato territori così ampi, così geograficamente compatti, con un tale numero di abitanti e così cospicue risorse investite.
I risultati di queste due straordinarie esperienze sono in genere valutati dagli studiosi e dai commentatori politici con giudizi radicalmente opposti: si passa dall’uso disinvolto della parola “fallimento” a quella enfatica di “miracolo”; per alcuni si tratta del più vasto spreco di denaro pubblico mentre per altri del più efficace intervento statale nella storia dei rispettivi Paesi. Formulare, dunque, un giudizio basato sui dati economici e finanziari non è facile: mentre conosciamo le cifre investite per l’Italia meridionale, non ci sono ancora cifre del tutto condivise su quanto effettivamente si è finora speso nella Germania dell’Est.
Gli investimenti. Per il Sud d’Italia le cifre sono queste: in cinquantotto anni, cioè dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008 (cioè fino all’inizio della crisi economica globale che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il Sud lasciandola solo all’utilizzo del fondi europei di coesione) sono stati investiti 342,5 miliardi di euro. In Germania Est si è investito in 30 anni quasi 5 volte in più di quello che si è speso in circa 60 anni nel Sud d’Italia, cioè tra i 1500 e i 2000 miliardi di euro. Nelle regioni orientali tedesche 70 miliardi di euro in media all’anno, nel Mezzogiorno 6 miliardi l’anno. La Germania ha investito nel suo “Mezzogiorno” (cioè nelle regioni che prima della riunificazione facevano parte di un altro Stato, la RDT) tra il 4 e il 5% dell’intero suo Pil, una cifra enorme, fatta di ingentissime risorse statali (procurate con emissione di titoli di Stato e attraverso la fiscalità generale con una tassazione ad hoc di tutti i redditi dei tedeschi) e da investimenti esteri per 1.257 miliardi di euro.
Nel Sud d’Italia invece, per tutto il periodo del cosiddetto “Intervento straordinario” non si è mai superato la soglia dell’1% del Pil. Chiusa la Cassa per il Mezzogiorno (la struttura speciale che guidò l’intervento pubblico nei territori meridionali) la percentuale è scesa ulteriormente.
Il confronto Vediamo ora i risultati in termini di reddito pro capite. Nel 1989 il Pil per abitante della Germania Est era la metà di quello della Germania Ovest (addirittura un terzo, secondo altre fonti), nel 2009 era salito a due terzi, nel 2018 al 75,1%. Certo, non l’eliminazione del divario come aveva promesso Helmut Kohl, ma comunque un balzo in avanti di almeno 25 punti. Un risultato ancora più significativo perché inizialmente la scelta discutibile di smantellare l’apparato industriale e privatizzarlo comportò una spaventosa disoccupazione di massa e l’emigrazione di 1 milione e ottocentomila persone dall’Est all’Ovest. Ancora oggi la disoccupazione è più alta ad Est, così come i salari sono inferiori in media del 20%, lo spopolamento di alcune aree è vistoso, il peso delle esportazioni è fortemente squilibrato tra le due aree e il malcontento tra la popolazione è elevato (come dimostra il sostegno a formazioni naziste in un territorio ex comunista!). Ma basta fare un confronto con il Sud d’Italia per comprendere come si tratti comunque di risultati notevoli: prima della pandemia, cioè nel 2019, il prodotto per abitante nel Mezzogiorno italiano è stato pari al 55,1% rispetto a quello del Centro-Nord, quasi 20 punti in meno della differenza che intercorre oggi tra le due aree tedesche. Il tasso di disoccupazione, sempre nel 2019, è stato del 17,6% nel Sud e del 6,9% nell’Est tedesco; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) è stata del 45,5% nel Sud, e solo dell’8,6% negli ex Lander dell’Est.
L’economia dietro la politica. La riunificazione tedesca è indubbiamente un evento epocale, tra le più difficili e complesse operazioni di pace del Novecento. La Germania ha per due volte riunificato territori in cui si parlava la stessa lingua e ci si sentiva accomunati dalla stessa storia e dalla stessa cultura: una prima volta nel 1871 e la seconda a fine Novecento. Alcuni studiosi ritengono che l’unità nazionale sia un valore che trascende la logica economica, un’aspirazione che travalica qualsiasi contabilità dei costi, un sacrificio da sopportare in cambio di una soddisfazione civile e “morale”: unire territori diversi è politicamente entusiasmante, ma economicamente devastante. D’altra parte come non ricordare il salasso che costò al bilancio del regno sabaudo la spesa per unificare l’Italia (in gran parte per sostenere le guerre). Ma non è affatto così. Dietro un disegno politico c’è sempre una convenienza economica, soprattutto se il disegno è davvero ambizioso e sostenuto da forti motivazioni pratiche oltre che ideali. Nel caso dell’unità raggiunta dall’Italia e dalla Germania a dieci anni di distanza l’una dall’altra, in ritardo rispetto alle altre nazioni europee, fu determinante la necessità del capitalismo dei rispettivi Paesi di allargare il mercato a dimensioni sufficienti a reggere le ambizioni nazionali. L’unità politica corrispondeva ad una esigenza anche economica. Ma anche le riunificazioni possono avere lo stesso miscuglio di aspirazioni politiche e di valutazioni economiche.
La lezione tedesca. La Germania sta lì davanti ai nostri occhi a provarcelo contro ogni ragionevole dubbio. Perché mai in Italia una reale convergenza tra due aree così differenti, quali sono il Nord e il Sud del Paese, viene percepita invece come un danno o un pericolo? Non ha bisogno anche l’Italia di una sua effettiva riunificazione? E può essere quello tedesco un modello? Diversi studiosi hanno delle perplessità su questo punto, anzi ritengono che si sia trattato di una vera e propria “annessione” più che una riunificazione, confermando il parere che diede già nel 1990 Gunter Grass. In ogni caso, si tratta di uno dei tentativi più coraggiosi, più originali, più dispendiosi fatti in Europa per ridurre le distanze tra realtà territoriali che, per varie ragioni storiche, si erano trovate separate e diversamente sviluppate.
Tre lezioni per l’Italia. Che insegnamenti se ne possono trarre per il dibattito politico ed economico in Italia?
1) Ogni divario tra diverse parti di uno stesso Paese è superabile, e lo si può fare (se lo si vuole) in pochi decenni anche partendo da situazioni peggiori di quelle che ci sono in Italia tra Nord e Sud. Avvicinare due territori diversamente sviluppati (in un lasso di tempo ragionevole) è un obiettivo assolutamente alla portata di qualsiasi nazione ben motivata. È una strategia che appartiene alla politica e non all’utopia. In economia e in politica non esistono situazioni irrecuperabili.
2) Il ritardo economico non è un fatto antropologico, non appartiene alla razza, all’indole, al carattere, al clima, non è uno stigma morale. Sembra assurdo doverlo ripetere, ma la Germania dimostra come il vantaggio di un’area non si possa spiegare e giustificare con l’arretratezza antropologica dell’altra. Infatti fino al 1949, cioè all’atto formale della divisione della Germania in due entità statali distinte, quella occupata dai sovietici e quella occupata dalle truppe alleate, i Lander orientali erano la parte più sviluppata, facevano parte nel passato della “grande Prussia”, una delle realtà industriali più avanzate d’Europa. Nel 1937 i territori che poi diventeranno la Germania dell’Est avevano il reddito per abitante più alto in Europa, superiore del 27% rispetto ai territori della Germania dell’Ovest, con la presenza di imprese modernissime nel campo della meccanica di precisione, dell’ottica, della chimica e della produzione aereonautica. Dunque, sono le vicende storiche, gli accadimenti politici, le scelte strategiche che possono modificare radicalmente l’economia e la vita di un territorio e la sua collocazione nelle vicende generali di una nazione. I popoli non sono immobili, né tantomeno i territori. 3) Non è vero che i soldi spesi nelle aree più arretrate sono uno spreco, una perdita secca per lo Stato e per i territori più ricchi. Colmare i divari economici è una operazione che si ripaga ampiamente, è un affare per tutti e non un sacrificio. D’altra parte ciò si è dimostrato vero anche in Italia: il periodo in cui il nostro Paese è cresciuto a tassi elevatissimi (1950/1980) corrisponde al periodo in cui decollava anche il Sud grazie agli investimenti della Cassa del Mezzogiorno. Recuperando una parte meno sviluppata, la ricchezza investita si trasforma in ricchezza generale.
Un esperimento keynesiano. La Germania di oggi è di gran lunga la nazione europea economicamente più ricca di quanto lo fosse nel 1989, prima della riunificazione e prima dei grandi investimenti nell’Est. Anzi nel 1989 l’economia tedesca stava attraversando un periodo di stagnazione e di difficoltà. Si è trattato, dunque, di una particolare sperimentazione di politiche keynesiane territoriali. I benefici generali sono stati nettamente superiori ai costi investiti. Se negli anni 1980/1989 la crescita complessiva della Germania Ovest era stata in media dell’1,8%, negli anni successivi alla riunificazioni si sfiorarono tassi di crescita molto alti, un più 4,5% nel solo 1990 e un più 3,2 per cento nel 1991. L’economia tedesca ricevette dall’unificazione e dai massicci investimenti all’Est uno straordinario stimolo di crescita che le permise di proiettarsi tra le prime potenze industriali e commerciali del mondo, assurgendo a un ruolo geopolitico inimmaginabile a pochi decenni dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Certo, la Germania non è l’Italia, il Sud non è l’Est tedesco. E in Italia il divario territoriale dura da 160 anni. Ma il Mezzogiorno ha conosciuto anch’ esso un suo periodo d’oro. Si è verificato tra il 1950 e il 1973. In quel ventennio il Pil meridionale registrò il più alto tasso di crescita dal 1861 in poi. Nel 1973 il Pil pro capite del Sud arrivò al 60,5 di quello del Centro-Nord (quasi otto punti in più rispetto al 1950, quando era fermo al 52,9) un risultato mai più raggiunto negli anni successivi. I progetti di investimenti nella prima fase erano rigorosi, i tecnici di alto livello. Poi ci fu una degenerazione clientelare, e dalla crisi petrolifera del 1973 l’Italia decise progressivamente di lasciar perdere.
Il passato che insegna. Il trentennio d’oro dell’Italia , quello culminato con il boom economico, si realizzò principalmente perché il Sud fu parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che rese possibile il balzo industriale del Nord (ben 2 milioni e mezzo di meridionali emigrarono tra il 1955 e il 1975), con la costruzione di infrastrutture che fecero uscire dal Medioevo intere comunità, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, con la piena partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione, con la scolarizzazione di massa che permise a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri.
Il Sud fu tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta del Novecento parte attiva della ricostruzione nazionale. Senza gli investimenti nel Sud, l’Italia sarebbe rimasta una piccola nazione, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stato nel corso della sua storia precedente, dal 1861 in poi. Fu in quel periodo, cioè nella ricostruzione del secondo dopoguerra, che il Sud divenne fino in fondo parte dell’Italia, quando nei fatti concorse al suo sviluppo economico e se ne avvantaggiò.
Un’altra obiezione che si può fare a quanto finora sostenuto è che in Italia non ci sono le risorse e le condizioni politiche e finanziarie per fare quello che si è fatto in Germania. Eppure qualcosa sembra rendere possibile ciò che fino a qualche tempo fa sembrava impossibile. Cospicue risorse pubbliche arriveranno dall’Europa come arrivarono nel secondo dopoguerra dai prestiti americani e internazionali.
Fu grazie a quei prestiti che si avviò una politica straordinaria per il Mezzogiorno e fu quella politica che diede una svolta all’economia italiana. Quanti soldi investiti nel Sud sono ritornati all’economia del Nord? Molti. La Svimez ha calcolato che per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi tornano all’economia del Centro-Nord in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali; al contrario, per ogni euro investito nel settentrione solo 6 centesimi ritornano nel meridione.
D’altra parte in quell’epoca a spingere per massicci investimenti al Sud c’erano uno statista come Alcide De Gasperi (trentino) e un grande banchiere come Domenico Menichella (pugliese) e tanti tecnici settentrionali appassionati delle terre meridionali. A Menichella in gran parte si deve il miracolo economico italiano. Egli fu anche il fondatore della Svimez nel 1946. E fu lui ad ideare la Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 utilizzando i prestiti in dollari della Banca Mondiale destinati agli investimenti nelle aree depresse del mondo.
Una nuova occasione Draghi ha davanti a sé la possibilità di ripetere un nuovo miracolo economico. Non si potrà certo replicare il modello della Cassa per il Mezzogiorno, ma la nazione ha bisogno di una strategia che inglobi il suo Sud.
D’altra parte le risorse europee sono tante proprio perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche delle regioni meridionali. L’Italia non ce la farà a riprendersi riattivando un solo motore produttivo; ha la possibilità di accenderne un secondo che renderà più veloce ed efficiente il primo. Far crescere il Sud è un affare per l’economia italiana. L’occasione si ripresenta. Come nel secondo dopoguerra, come in Germania.
Libertàgiustizia da La Repubblica
lunedì 23 novembre 2020
La metà dei prestiti garantiti al Nord. Sud a rischio usura. - Patrizia De Rubertis
Le imprese chiedono sempre più liquidità, anche perché la ottengono a basso prezzo grazie alle garanzie statali. Ma il flusso di questi soldi si ferma soprattutto al Nord, con un rischio usura nelle regioni del Sud. A otto mesi dall’avvio dei prestiti garantiti, introdotti dal dl Liquidità, da una parte ci sono i dati forniti dall’Associazione bancaria (Abi) che rilevano l’ingente crescita delle richieste di finanziamento arrivate al Fondo centrale di garanzia che hanno smosso crediti per oltre 106 miliardi. Dall’altra parte ci sono i numeri che arrivano dal territorio elaborati dal sindacato dei bancari Fabi che mostrano uno “squilibrio” nell’erogazione dei soldi: oltre il 52% dei finanziamenti garantiti dallo Stato sono andati a quattro Regioni (Lombardia 23%, Veneto 11,4%, Emilia-Romagna 10,2%, Toscana 8,2%) dove opera, però, appena il 37% di Pmi e partite Iva. Due facce della stessa medaglia.
Dal 17 marzo al 20 novembre, ha spiegato il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini, nel corso di un’audizione in commissione Bilancio, sono arrivate 1 milione e 290 mila domande al Fondo di garanzia per le Pmi per un importo che ha già superato i 100 miliardi di liquidità, soglia ipotizzata dal governo all’emanazione del decreto. Di queste domande, 991 mila (oltre 19,4 miliardi) sono per prestiti fino a 30 mila euro con garanzia statale del 100% e durata di 10 anni concessi in automatico senza necessità di un’istruttoria. Poco più di 277 mila le richieste di finanziamento fino a 800.000 (non si deve superare il 25% dei ricavi) per un totale di 82,2 miliardi. Si tratta di prestiti con durata massima di 72 mesi e garanzia al 90%, ma estendibile fino al 100%.
Una massa senza precedenti di denaro che si è fermata a Bologna. La rilevazione della Fabi mostra evidenti discrepanze su base territoriale. Gli estremi sono dati da Lombardia ed Emilia-Romagna che hanno ricevuto più di un terzo del totale. dall’altra parte c’è il Molise con 4.854 richieste pari allo 0,5% del totale e 89 milioni di euro complessivi. È nelle Regioni del Centro-Nord che si concentra sia l’erogazione dei mini-prestiti che di quelli fino a 800.000 euro. Eppure in questi territori la maggior parte delle fabbriche non ha chiuso durante il lockdown di marzo e aprile. Mentre al Sud, dove c’è più bisogno di liquidità, i prestiti garantiti scarseggiano spingendo il ricorso a forme alternative di finanziamento non legali. “In una situazione così difficile non bastano i finanziamenti: sono indispensabili anche stanziamenti a fondo perduto anche per evitare che famiglie e imprese possano essere costrette a chiedere denaro agli usurai”, commenta il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. Tanto che nei primi sei mesi dell’anno, le segnalazioni di operazioni sospette lavorate dalle banche hanno raggiunto quasi 50 miliardi, di cui il 99% relativo al rischio riciclaggio.
Le moratorie sui crediti scadranno il 31 gennaio. Al ministero dell’Economia stanno valutando la possibilità di prevederne un ulteriore prolungamento da inserire nella manovra o nel Milleproroghe. Con un occhio alla possibile esplosione dei crediti deteriorati da parte di imprese e famiglie che potrebbero non essere in grado di restituire i prestiti ottenuti.
lunedì 11 novembre 2019
Report: del leghista Giancarlo Giorgetti che se la dà a gambe davanti ai microfoni ne vogliamo parlare?
domenica 20 gennaio 2019
Matera, capitale del deserto. - (Marcello Veneziani)
martedì 13 marzo 2018
martedì 6 dicembre 2016
Istat, un residente su quattro in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale: al Sud quasi il 50%.
La metà delle famiglie vive con duemila euro al mese. Cresce il divario tra nuclei più e meno abbienti.
Situazione più grave al Sud - "I livelli di rischio povertà sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati - spiega l'Istat - in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%)". La quota è in aumento anche al Centro (da 22,1% a 24%) ma riguarda meno di un quarto delle persone, mentre al Nord si registra un calo dal 17,9% al 17,4%.
Metà famiglie vive con duemila euro al mese - In Italia la metà delle famiglie residenti può contare su un reddito netto non superiore a 24.190 euro, ovvero a 2.016 euro al mese. Rispetto all'anno precedente, l'Istat rileva un "valore sostanzialmente stabile". Una novità visto che il reddito familiare in termini reali interrompe "una caduta in atto dal 2009, che ha comportato una riduzione complessiva di circa il 12% del potere d'acquisto delle famiglie".
In difficoltà soprattutto le famiglie numerose - Le persone che vivono in famiglie con cinque o più componenti sono quelle più a rischio di povertà o esclusione sociale: passano a 43,7% del 2015 da 40,2% del 2014, ma la quota sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori.
Target Ue ancora lontani - Il rischio povertà riguarda in pratica 17 milioni e 469mila persone, una cifra che "allontana" ulteriormente gli obiettivi prefissati dalla Strategia Europea 2020: entro tre anni, infatti, l'Italia dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12 milioni e 882mila. Attualmente la popolazione esposta è invece "superiore di 4 milioni 587 mila unità rispetto al target previsto".
Cresce il divario tra famiglie ricche e povere - Secondo l'Istat il 20% più ricco delle famiglie italiane percepisce il 39,3% dei redditi totali, mentre il 20% più povero ne percepisce il 6,7%. In altri termini, il reddito delle famiglie più abbienti è ben 5,9 volte quello delle famiglie appartenenti al primo quinto. Se si include l'affitto figurativo, la disuguaglianza diminuisce e le quote passano rispettivamente a 7,7% e 37,3%: le famiglie più ricche percepiscono cioè un reddito pari a 4,9 volte quello delle famiglie del primo quinto.
martedì 2 febbraio 2016
CIMITERO NAZIONALE DI SCORIE NUCLEARI IN VENETO? - Gianni Lannes
In Italia, sul nucleare è stata bruciata una quantità impressionante di denaro pubblico, ma nessun risultato operativo è stato ancora raggiunto. E', in particolare, fallimentare la ricerca di un deposito per lo scorie nucleari ad alta radioattività. Anche perché nuovi problemi continuano ad accumularsi. Circa sei mesi fa doveva essere presentata la mappa dei possibili luoghi dove sistemare le scorie nucleari. Era un impegno solenne del governo Renzi. Poi sono cominciati rinvii incomprensibili e, tuttora, sei mesi dopo, non si sa niente al riguardo, a parte la recentissima esternazione della Vicari. Si conoscono solo i criteri utilizzati per individuare il sito adatto o meglio per escludere luoghi ove sarebbe pericoloso sistemare sostanze tanto dannose alla salute.