giovedì 12 settembre 2019

Il Grande Twittatore. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 12 Settembre.

L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono

Essendo astemio, non pensavo che una sbornia potesse durare un mese. Però auguro di cuore a Salvini di tornare sobrio, almeno fino a quella successiva, perché ci sveli il vero autore del suo tweet del 2 luglio, ore 19.29: “A prescindere dai nomi, l’importante è che in Europa cambino le regole, a partire da immigrazione, taglio delle tasse e crescita economica. E su questa battaglia l’Italia sarà finalmente protagonista. #vonderLeyen”. Salvini era con Di Maio all’ambasciata Usa per l’Independence Day. Conte li aveva appena avvertiti da Bruxelles dell’opportunità unica di infilarsi nelle divisioni del fronte europeista e rendere l’Italia decisiva nell’elezione della candidata tedesca del Ppe Ursula von der Leyen a presidente della Commissione. E Salvini diede subito il via libera: caduto il falco socialista olandese Timmermans per i veti di 11 Paesi, fra cui l’Italia, non era più questione di “nomi”, ma di “protagonismo” dell’Italia. L’aveva preannunciato quel mattino a La Stampa il suo capogruppo Ue Marco Zanni: “I popolari ci hanno convinto. Avremo un portafoglio di peso”. E fonti leghiste confermavano all’Ansa il voto a Ursula “perché sulla riforma di Dublino e l’immigrazione abbiamo buoni riscontri”. Conte, trattando per due giorni e due notti con i partner europei, aveva rotto l’isolamento giallo-verde con la maggioranza Ppe-Pse-Alde uscita dalle Europee. E nutriva buone speranze che i franchi tiratori socialisti su Ursula rendessero indispensabili i voti grillo-leghisti. Il sovranismo sterile e parolaio di Salvini poteva virare verso quello pragmatico e produttivo di Conte.

Invece lo scorpione padano, sopraffatto dalla sua vera natura, ordinò ai suoi di votare contro. I 5Stelle mantennero la parola, anche per le aperture della VdL su ambiente e migranti. E i loro 14 voti furono decisivi per farla eleggere. Così Conte dovette sudare sette camicie per strappare la promessa della Concorrenza (il massimo finora ottenuto dall’Italia, quando B. ci mandò Monti) alla riottosa Ursula, che non voleva saperne di un leghista. Ma il premier fu così “traditore” che tenne il punto: il commissario spettava alla Lega, per premiarne la vittoria elettorale e per responsabilizzarla in Europa. Salvini gli indicò Giorgetti, che però si tirò indietro e la Lega prese a cincischiare tra Garavaglia e Centinaio (per l’Agricoltura). Il resto è noto: la crisi del Papeete e la svolta degli Affari economici a Gentiloni. Questi sono i fatti, con buona pace degli eurocomplotti che il Cazzaro rinfaccia a Conte, Di Maio e Pd. Le uniche congiure anti-Salvini sono quelle architettate da Salvini. E, sia detto a suo onore, funzionano a meraviglia.

Mediocrazia - Roberto Cataldi

Publio Cornelio Scipione nell'eredità storica culturale - Wikipedia

La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante (John Stuart Mill)


Nel discettare sulle diverse possibili forme di Governo, Platone aveva messo in guardia dalle loro possibili degenerazioni. Il filosofo greco, però, non avrebbe mai immaginato che il degrado di un sistema democratico moderno potesse avere a che fare con la progressiva perdita di "spessore" dei rappresentanti del popolo e con la banalizzazione dei ruoli e delle istituzioni.
Questo lento e progressivo declino verso la mediocrità diventa tanto più preoccupante quanto più si acquisisce la consapevolezza che tra una "buona" politica e una politica priva di "valore" (e di "valori") vi è in bilico la sorte di un intero Paese.
Ma proviamo a riavvolgere il nastro. Che cosa è successo a quel modello di democrazia sapientemente messo a punto dai nostri padri costituenti? Non siamo più di fronte allo stesso Parlamento, non vi è dubbio, ma se quel concetto alto di democrazia inizialmente ipotizzato è ormai tramontato, forse tutto è partito da un equivoco di fondo: l'idea che chiunque debba essere messo nelle condizioni di poter fare politica è stata confusa con l'idea che il merito potesse essere definitivamente accantonato. Un pò come avallare l'ipotesi di mettere alla guida di una nave chi non la sa condurre e non ha mai conseguito la patente nautica.
Per ricoprire un ruolo così delicato, come quello di legiferare, occorrerebbe innanzitutto un gesto di onestà intellettuale di chi si mette in gioco. Un candidato dovrebbe prima guardarsi allo specchio e chiedersi se è davvero capace del ruolo che vuol ricoprire. Ma non illudiamoci, siamo noi cittadini a dover acquisire una sempre maggiore capacità critica dato che, in ultima analisi, siamo noi a scegliere ed eleggere i nostri rappresentanti.
Se non diamo il giusto valore al merito, rischiamo di banalizzare il ruolo stesso della politica i cui principali "attori" non diventano altro che dei "bravi politicanti" alla ricerca più di consensi che di soluzioni ai problemi del Paese. Ai politicanti non serve il merito, basta saper "incantare" le masse, cavalcare l'onda del malcontento, banalizzare la comunicazione ed ottenere consensi.
Torniamo a Platone. Secondo un mito che trae origine da uno dei suoi dialoghi, Zeus dovette intervenire perché gli uomini senza la politica non erano in grado di vivere insieme ed erano quindi esposti agli attacchi delle belve. Decise quindi di mandare loro Ermes per portare il rispetto e il senso della giustizia. Ermes chiede a Zeus come deve dare agli uomini questi doni "Nel modo in cui sono distribuite le altre arti? Uno che possiede l'arte medica basta per molti profani, e così gli altri mestieri: anche dike (giustizia) e aidòs (rispetto) devo porre così negli uomini, o distribuirli a tutti?". Zeus risponde "a tutti e tutti ne partecipino". Platone parla di "partecipazione" all'attività politica. Ma attenzione, "partecipazione" alla vita politica è cosa ben diversa dall'"esercizio" in concreto della politica, esercizio che ovviamente richiede qualche dote in più. La partecipazione di cui parla Platone, si compie nel momento in cui si da luogo a un dialogo costante e costruttivo tra rappresentanti e rappresentati.
Sin dall'infanzia ci viene insegnato che è necessario "meritare" per ottenere qualcosa. E la vita, fin da subito, prende il sapore di una sfida. Si forma in noi l'idea del merito dia diritto a una sorta di "riconoscimento" sociale. Crescendo, però, questo mito comincia a vacillare. Specialmente quando a poco a poco ci si rende conto che ad avere la meglio, in genere, non sono i migliori ma i più furbi. Ed ecco che il concetto di merito si incontra e si scontra con la realtà dei fatti e l'anelito alla meritocrazia diventa una sorta di "bisogno di giustizia" in una società che dovrebbe premiare le competenze e le doti umane piuttosto che le astuzie.
Noi tutti vorremmo vivere in un mondo in cui sia dato il dovuto spazio per chi è il migliore nel suo campo. E noi tutti vorremmo che questo possa accadere anche in politica.
Ma è sempre così? La risposta la conosciamo bene. Del resto, si sa, le banalità ottengono più facilmente consensi ed applausi ed è molto più facile parlare alla pancia di un popolo che al suo cervello. Così, se ancora oggi si fanno avanti persone prive di qualità umane ma abili nella comunicazione è perché il politico che asseconda i "desiderata" dell'uomo mediocre ha molta più probabilità di avere successo. Ed ecco che si passa da una politica "meritocratica" a una sorta di "mediocrazia" dove prevale il degno rappresentante dell'uomo medio e dove le banalità prendono il sopravvento. Siamo così di fronte alla peggiore delle distorsioni del sistema democratico, quella che Richard Yates definì come una "malattia sociale" dove la gente "ha smesso di pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda mediocrità".
Sono tanti i rappresentanti dei cittadini. Li troviamo nelle istituzioni, negli enti territoriali, in Parlamento. E sono diversi sotto ogni punto di vista, non solo in fatto di ideologie. Eppure davanti ad una buona idea, davanti ad una soluzione efficace essi dovrebbero reagire dimostrando di essere "meritevoli" del ruolo che gli è stato assegnato anche solo imparando a dare il giusto valore alle buone idee, a quelle idee che si mostrano "valide" a prescindere da chi le ha messe in campo. Mai come oggi il mondo politico ha bisogno di fare il pieno di persone così, intellettualmente oneste e di incontrovertibile spessore umano. Allo stesso tempo bisogna tenere alla larga gli affabulatori e i ciarlatani che sanno solo illudere le piazze con l'abilità dei saltinbanchi o dei prestigiatori.
Se non si riconosce il demerito - scriveva Vittorio Zucconi - "non si potrà mai valorizzare il merito". Uno sforzo in tale direzione dobbiamo assolutamente farlo se vogliamo munirci degli "anticorpi" necessari per non cadere più nelle trappole del passato, per non replicare quegli errori che tragicamente si ripropongono ogni volta che ci lasciamo trasportare da una retorica malsana e fanatica, rinunciando ad esercitare il benché minimo senso critico.
Se la storia ci ha insegnato qualcosa allora dovremmo riscoprire dentro di noi il senso vero della democrazia, di una democrazia intesa come una "orchestrazione delle differenze" dove il potere non è la risposta a un'ambizione del singolo ma un servizio per la collettività. Oggi l'analisi sociologica e antropologica del potere ci consente di guardare, in una nuova prospettiva interpretativa, all'impalcatura filosofica e concettuale che ha sostenuto lo spirito di potenza dei totalitarismi di massa dei primi del novecento. Ma esistono aspetti che le scienze umane possono trarre solo dal fondo oscuro della psicologia individuale e collettiva. E' li che dobbiamo rivolgere le nostre attenzioni, perché il nostro futuro dipende solo e principalmente da quello che siamo e dalle persone a cui decidiamo liberamente di affidare la nostra rappresentanza.

mercoledì 11 settembre 2019

Salvini, la grande protesta di piazza. Ma contro chi? - Montesquieu

Imponente, la manifestazione che si è tenuta davanti al palazzo di Montecitorio, in occasione ed in contemporanea al dibattito sulla fiducia al nuovo governo. In premessa: è benvenuta ogni manifestazione che si svolga con misura democratica da parte di soggetti democratici. In questo caso, due dei tre partiti che si oppongono al nuovo governo. Forza Italia, il terzo, si limita a negare la fiducia in aula. Benvenuta, anche, ogni manifestazione che unisca al metodo democratico una motivazione, che sia chiara e comprensibile, sia a chi partecipa, sia a chi costituisce l’oggetto della protesta. Ecco, sulla reale motivazione, soprattutto sul destinatario della protesta, non tutto appare limpido e lineare. Meglio, quello che appare chiaro non è quello che viene detto. “Non in mio nome”: il titolo della protesta, che viene messo in bocca ai manifestanti, appare quanto meno sviante. Un governo non nasce nel nome di chi lo contesta e gli nega la fiducia. Ovviamente. Tanto valeva dirlo, anche con tutta la durezza possibile, nelle due aule, come fa il partito berlusconiano. Nelle aule il popolo, quindi gli elettori, sono ben più correttamente e complessivamente rappresentati di quanto non lo siano in piazza.
Prendersela con il governo è normale, fisiologico, per delle opposizioni: un po’ meno, inveire al furto di democrazia, per il fatto che questo chieda la fiducia alle camere. Se la ottenesse, sarebbe di per sè legittimo. E allora, con chi ce l’hanno, i protestanti? Perché c’è un bel po’ di ipocrita frustrazione nel protestare senza poter o voler dire a chi è indirizzata una protesta così vibrata. Proviamo a capire: se si contesta la legittimazione democratica di un governo, c’è poco da cercare. Un governo, nel nostro sistema parlamentare, ha un padre ed un responsabile unico: il capo dello Stato, che lo accompagna fin davanti alle Camere, le quali decidono se dargli o meno la fiducia. Oltre che democratica, una manifestazione avrebbe il dovere, soprattutto verso chi chiama in piazza, di essere onesta. Il capo dello Stato è oggi un po’ troppo apprezzato dagli italiani per chiamarlo in causa direttamente? Certo, molto più, per il lavoro di questi difficili anni, di un anno fa, quando la promotrice della manifestazione di lunedì cercò di accreditarne l’immagine di traditore della Costituzione. Tutto sommato, se non più apprezzabile, almeno più onesta la posizione di allora che quella di oggi.
Oggi, il capo dello Stato Mattarella avrebbe meritato la più dura e illimitata delle contestazioni se, in presenza di una maggioranza che si propone di diventare governo del paese, avesse deciso di sciogliere le Camere. Come chiedono gli odierni oppositori, in questo caso non troppo costituzionali.

DioUniverso, creatore.

L'immagine può contenere: una o più persone e cibo

Dunque, tirando le somme, Dio crea l'uomo col fango e la donna con la costola dell'uomo (e qui già casca l'asino: se ha fatto l'uomo col fango, perchè non utilizzare la stessa procedura e lo stesso materiale per creare la donna?), li dota di organi genitali riproduttivi, ma impedisce loro di utilizzarli e, quando lo fanno, li punisce cacciandoli dall'Eden.

Ora, io posso anche credere in qualcosa, - nell'Universo, ad esempio, inteso come Dio e mio creatore -, posso anche riverire e rispettare il mio DioUniverso creatore, ma non potrò mai credere alle fesserie che ha diffuso la chiesa... perchè mi rifiuto di credere che Dio abbia confidato a qualcuno un suo controsenso.
Anche perchè se Adamo ed Eva non avessero commesso il cosiddetto peccato originale la terra non si sarebbe mai popolata (e sai che noia vivere sempre con lo stesso uomo, la stessa donna, da soli, per l'eternità....), contrariamente a ciò che Dio avrebbe desiderato avendo dotato le sue creature di organi riproduttivi.


by cetta.

La Corte dei Conti stronca le concessioni autostradali. - Carlo Di Foggia

La Corte dei Conti stronca le concessioni autostradali

L’indagine svela i favori ai signori del casello elargiti in 20 anni: profitti stellari, norme capestro, proroghe infinite e investimenti in calo. “Riequilibrare i rapporti”
Anche la Corte dei conti boccia le concessioni autostradali. La revisione “sostanziale” dei contratti evocata dal premier Giuseppe Conte nel suo discorso ha ora una base di partenza. A chiederla, infatti, sono i magistrati contabili. Dopo una lunga istruttoria, avviata a inizio 2018, il giudice Antonio Mezzera ha consegnato il rapporto sull’intero settore, visionato dal Fatto, alla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato – a cui partecipano Palazzo Chigi, ministero delle Infrastrutture e dell’Economia – che dovrà approvarlo il 24 settembre prossimo.
Il documento, 156 pagine, è un duro atto di accusa, che poggia anche sulle critiche pesanti – e inascoltate – delle autorità indipendenti (Concorrenza, Contratti pubblici, Anac, Banca d’Italia) e ripercorre 20 anni di regali, zero trasparenza, mancata apertura alla concorrenza, assenza di gare, proroghe ripetute, scarsi controlli, extra-profitti stellari a fronte di investimenti calanti e clausole capestro in barba alle leggi.
Emblematico è il caso di Autostrade per l’Italia, oggi dei Benetton, il colosso più esposto alle critiche che gestisce 3mila dei 6mila chilometri di rete (in totale i gestori sono 22). Con la privatizzazione del 1997 fu firmata la nuova convenzione con l’Anas con una proroga di 20 anni (al 2038), giustificata con il fatto che si trattava di un’azienda statale. La Corte dei conti non validò la proroga, visto che “avrebbe alterato le condizioni di equilibrio determinate dai piani finanziari, risolvendosi in un beneficio ingiustificato”. Contro si pronunciò anche l’Antitrust. Tutto inutile e la proroga divenne la prassi per tutte le altre concessioni. Risultato? Nel 2003 i Benetton prendono il controllo e già due anni dopo gli investimenti effettuati erano inferiori di 2 miliardi rispetto ai 4,1 previsti dai piani finanziari 1997-2005. Soldi non accantonati ma “usati per finanza speculativa”, spiegò il ministero delle Infrastrutture in Senato nel giugno 2006. Dal 2004 si decise che le proroghe servivano perfino a sanare i contenziosi pregressi. Secondo il rapporto, la Corte dei conti ha “dichiarato illegittimo” l’affidamento del 1997. L’effetto, però, è stato nullo. La più grande convenzione è rimasta col vecchio impianto, senza “tante prescrizioni di garanzia e salvaguardia del bene pubblico”.
Nel 2008 il neonato governo Berlusconi blindò le concessioni per legge pur essendo contratti privati, per superare le critiche degli organi tecnici di controllo e con il Parlamento all’oscuro dei documenti per poter valutare. Quella di Autostrade, per dire, era stata bocciata dal Nucleo per la regolazione dei servizi di pubblica utilità (Nars) anche perché conteneva una clausola mostruosa che garantisce ai Benetton un indennizzo gigante anche in caso di revoca per colpa grave, come “crolli e disfacimenti”, quello che è poi successo col ponte Morandi. Una norma illegittima secondo il rapporto, perché vietata dal codice civile. Insomma, la concessione si può revocare senza penali miliardarie.
Le critiche riguardano tutti gli ambiti, a partire dalla prassi con cui i concessionari affidano tutti i lavori in house, in barba alla legge (quella del 2017, peraltro, è molto blanda) e alle direttive Ue. In 20 anni si è messo in piedi un sistema “irrazionale”, con proroghe continue, ritardi nel mettere a gara le concessioni e modelli tariffari oscuri e penalizzanti che hanno generato incrementi “senza riscontro nei costi”, sempre più alti dell’inflazione, anche grazie a “una sistematica sottovalutazione dei volumi di traffico”, e remunerato capitali mai investiti a rendimenti stellari a fronte della “costante diminuzione degli investimenti”. Dal 1993 i ricavi dei concessionari sono raddoppiati, da 2,5 a 6 miliardi, di cui un quarto finiscono in profitti. Critiche forti anche per l’assenza di personale adeguato al ministero per effettuare i controlli, assai carenti.
Tirate le somme, la Corte dei conti raccomanda di cambiare passo e soprattutto “una rapida introduzione del nuovo sistema tariffario elaborato dall’autorità dei Trasporti per riequilibrare i rapporti a vantaggio dello Stato”, visto che remunera solo il capitale davvero investito e riduce le tariffe. I signori del casello sono già sul piede di guerra.

martedì 10 settembre 2019

Salario minimo: cos’è, come funziona e perché fa paura alle imprese. - Barbara Massaro (Panorama)



Sostenere le fasce più basse di reddito introducendo l’obbligo del cosiddetto salario minimo, ovvero quella retribuzione oraria base che i datori di lavoro dovrebbero garantire per legge in busta paga.

La proposta targata M5S pende come una spada di Damocle sulla testa delle imprese già dalla passata legislatura e il premier-bis Conte ne ha parlato anche nel suo discorso programmatico alla Camera dei Deputati quando ha annunciato l’ipotesi di una legge sulle relazioni sindacali e una “applicazione erga omnes dei contratti collettivi”.

Cos’è il salario minimo.
Con il concetto di salario minimo si fa riferimento alla più bassa retribuzione o paga oraria, giornaliera o mensile, che un datore di lavoro deve corrispondere ai propri dipendenti.

L’ex Ministro del Lavoro Di Maio qualche mese fa aveva proposto di fissare la quota parte minima in busta paga a 9 euro, e nel testo si parlava di “una definizione certa, uguale per tutti i rapporti di lavoro subordinato, e cogente del trattamento economico che integra la previsione costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente, attraverso l’obbligo che non sia inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative”.

I paradossi del salario minimo.
Quindi in sostanza sarebbe un provvedimento che andrebbe a riguardare coloro che sono vincolati da contratto nazionale di lavoro, solo che già oggi – come ricordava qualche tempo fa la Cgia di Mestre – “Nei principali contratti nazionali di lavoro dell’artigianato, che presentano i livelli retributivi tra i più bassi fra tutti i settori economici presenti nel Paese, le soglie minime orarie lorde complessive sono comunque superiori alla proposta di legge del Movimento 5 Stelle”.

Inoltre alla paga base ogni impresa aggiunge le indennità – il cosiddetto salario differito – e cioè le festività, gli straordinari, la maternità e tutto il resto. Introdurre per legge il cosiddetto salario minimo costerebbe alle pmi imprese almeno 1,5 miliardi l’anno e a subire maggiormente l’aggravio sarebbero proprio le imprese piccole e piccolissime, il settore dell’artigianato e le partite Iva, ovvero quelle aree del mercato del lavoro dove oggi come oggi è ancora possibile trovare impiego.

Un disastro per le imprese.
Se quindi imprese che ora fanno i salti mortali per mantenere i dipendenti dovessero vedersi imposta per legge la paga base oraria questo potrebbe determinare un aumento del numero di licenziamenti e una proporzionale crescita del lavoro in nero.

Questo perché se i 9 euro sono la paga più bassa nei settori più umili in maniera proporzionale dovrebbe crescere il salario minimo anche ai livelli più alti e se così non fosse si assisterebbe al paradosso di lavoratori di livello inferiore pagati di più di colleghi più anziani o con mansioni di maggiore responsabilità.

A livello internazionale, inoltre, la filosofia stessa alla base del salario minimo è stata bocciata da autorevoli organi quali l’Ocse, Confartigianato e Confindustria che ne sottolineano limiti e paradossi.

Coloro cui la paga oraria minima non arriva a 9 euro sono circa 4 milioni di lavoratori ovvero il 21,1% del totale e in tutto per le imprese l’aggravio sui conti si aggirerebbe intorno ai 6,7 miliardi di euro, una bella zappa sui piedi per quelle aziende che vorrebbero creare lavoro.

https://infosannio.wordpress.com/2019/09/10/salario-minimo-cose-come-funziona-e-perche-fa-paura-alle-imprese/
Mi piacerebbe chiedere a chi ha scritto l'articolo se gradirebbe che i suoi articoli le venissero pagati senza un riferimento a documenti che indichino quale dovrebbe essere la giusta remunerazione del suo lavoro. Questa eterna differenziazione di trattamento tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è inaccettabile.c.

La maschera di pietra. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 10 Settembre.

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Il volto pietrificato di Luigi Di Maio, accanto a Giuseppe Conte, la dice lunga su quello che Padellaro chiama il Governo dei Malavoglia. Non ce la fa proprio a sorridere, il capo 5Stelle, nemmeno dopo gli inviti di Grillo. Parliamo di un giovane di 33 anni che ha bruciato tutte le tappe: deputato e vicepresidente della Camera a 27 anni, leader del primo partito a 31, vicepremier e bi-ministro del Lavoro e Sviluppo a 32, ora ministro degli Esteri. Costretto a imparare in fretta mestieri diversi e delicati, deriso come “bibitaro” mai laureato dagli stessi che ora s’indignano (giustamente) per gli attacchi alla Bellanova, ex bracciante con la terza media. Al suo posto, molti sorriderebbero a 32 denti: nessun ragazzo del Sud con quei trascorsi ha mai fatto tanta strada. Perché non sorride? Un anno fa poteva essere premier con una stretta di mano o una telefonata a B.. Invece rifiutò. E Salvini, per conto terzi, gli impose un premier terzo. Così Giggino e Grillo scelsero Conte: un bel jolly, col senno di poi. Un mese fa, dopo l’harakiri salviniano, Di Maio s’è visto offrire Palazzo Chigi sia dal Pd sia da Salvini: il Pd preferiva un leader azzoppato dalle Europee e dal naufragio giallo-verde al più popolare e ingombrante Conte; e il Cazzaro, sfumato il voto, era pronto a tutto pur di liberarsi di Conte e restare al potere.

Di Maio ha respinto entrambe le sirene e si è giocato l’ultima occasione del salto più alto: per non perdere Conte; per ricompattare il M5S, passato dal lutto del 26 maggio al nuovo entusiasmo del Grillo ritrovato; e per non diventare il parafulmine delle tensioni fra e nei partiti della nuova maggioranza. Ma l’anno scorso aveva costruito il Contratto con la Lega sul rapporto personale con Salvini, dopo 7 anni di comune opposizione ai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (tutti col Pd dentro e la Lega fuori). Perciò è rimasto bruciato dal tradimento dell’8 agosto. Ora un’analoga sintonia con qualcuno del Pd è impossibile: capi e capetti parlano lingue giurassiche; non si sa bene chi comandi; e il programma giallo-rosa è nato troppo vago e frettoloso, tant’è che andrebbe precisato meglio dopo il giro di boa della legge di Bilancio. Non è detto che la partenza fredda e guardinga sia di malaugurio per il Conte-2, visto l’esito degli entusiasmi che accompagnarono il Conte-1. Ma la maschera di Di Maio riassume il vero enigma del nuovo governo: riusciranno i nostri eroi a mescolare e contaminare le proprie diversità, assorbendo le poche virtù dei rispettivi alleati per migliorarsi? Ci accontenteremmo che non si facessero contagiare dai vizi altrui. Fra due litiganti, c’è sempre un terzo che gode. E sappiamo chi è.