giovedì 16 aprile 2020

Ora Gallera si dimetta. - Luca Telese

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Le inchieste su Alzano Lombardo, la lettera del direttore dell'ospedale e la testimonianza raccolta in esclusiva da TPI.it nei paesi civili comportano una assunzione di responsabilità. E si sanano con le dimissioni dei responsabili.

Dopo questa testimonianza Alzano cessa di essere un mistero ospedaliero e diventa un problema civile. Perché Alzano non è solo il punto di scaturigine più letale dell’epidemia in Lombardia (e quindi in Italia). Non è più, come nei primi frammentari e incoerenti racconti solo un “errore” dettato dalla concitazione comprensibile di una emergenza drammatica. Dopo questo documento la vicenda dell’ospedale fantasma che chiude e riapre diventando focolaio smette di essere una foto fuori fuoco e diventa due cose ben precise: una caso di malasanità, e una bugia.
Partiamo dal secondo elemento, che spiega il primo. Ancora domenica scorsa, ospite di Massimo Giletti a Non è l’Arena, l’assessore Gallera ribadiva granitico: “L’Ospedale è stato chiuso per due ore, sanificato e solo dopo riaperto”. Gallera raccontava, dunque, di avere piena contezza dei fatti, di aver ricostruito la vicenda, e di aver anche appurato che era stato seguito un protocollo tale da mettere in sicurezza l’intera struttura. Così non è andata, come sappiamo adesso. Ma allora la domanda è inevitabile: perché il massimo garante della sanità in Lombardia si ostina a sostenere una versione che prima è stata smentita dai fatti (le conseguenze devastanti di quel contagio) e adesso anche dai testimoni? E passiamo al problema della profilassi: solo uno stolto potrebbe esercitarsi nella caccia all’errore e al dettaglio, in questa vicenda. Gallera non sbaglia quando elenca il numero dei contagiati che in dieci giorni di marzo esplode in maniera geometrica dettando i tempi dell’emergenza agli apparati della Regione. Qui di seguito la testimonianza esclusiva TPI del dipendente dell’ospedale di Alzano: 
Ma la vicenda di Alzano, così come quelle delle case di riposo per anziani, ci raccontano più di un errore messo in ombra dal turbine degli eventi. In questo caso ci parlano addirittura di un colpevole occultamento della realtà: la Regione, dunque, proprio mentre contestava al governo di non aver chiuso le zone rosse e di non aver preso atto del dramma, teneva una linea “negazionista” sui territori. L’esatto contrario di quello che vuole far credere oggi. È il caso del Trivulzio, dove il professor Bergamini veniva sospeso per la sua ossessione sulle protezioni nei reparti (un gesto folle), ed è il caso di Alzano, dove la testimonianza di questo operatore rivela un conflitto insanabile tra le legittime preoccupazioni dei dirigenti dell’ospedale e i suoi superiori della direzione sanitaria e della direzione generale. Qui di seguito l’audio-testimonianza esclusiva TPI di un’infermiera di Alzano:
C’è infine un ultimo elemento, per certi versi un dispotismo burocratico che questa inchiesta di Francesca Nava – esattamente come la precedente – mette in luce: l’assoluta negazione del principio di autonomia dei territori. Dirigenti regionali che usano il principio di autorità per sconfessare le scelte di chi si trova nell’occhio del ciclone, sul campo, ed è l’unico che può toccare con mano il problema. E non sono proprio questo due elementi, l’ossessione del controllo “centralistico” e la “cecità” che di solito (e anche in questa crisi) vengono imputati a “Roma” e alle “strutture burocratiche dello Stato”, dagli iperautonomisti di Milano? Sono tutti sostenitori della mitologica voce “dei territori”, tranne quando ad ascoltarla dovrebbero essere loro. Troppo comodo.
Si capisce perché queste inchieste su Alzano, questo documento e le drammatiche testimonianze pesano così tanto, e sono così difficili da accettare per chi ha preso le scelte: perché fanno cadere una impalcatura di facciata e un apparato propagandistico. Sono piccoli-grandi peccati di arroganza che – quando vengono appurati – nei paesi civili comportano una assunzione di responsabilità estrema. E si sanano con le dimissioni dei responsabili.

Milano ha perso: così la città è stata travolta dall’onda lunga del virus. - Selvaggia Lucarelli

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Un anno fa, ad aprile, Milano era il Salone del mobile, la mostra di fiori sui Navigli, le maratone che tagliavano la città, lo Yogafestival a Citylife, il Gran Ballo di Primavera alla Balera dell’Ortica. C’erano il Rum Festival, il Miart, Tommaso Paradiso che cantava “Felicità puttana” al Forum. Era la Milano dell’immaginario comune, la città in cui le cose succedono, l’Europa è più vicina, il nuovo arriva prima. Era “la città in cui si vive meglio” secondo una classifica di quei giornali che misurano il benessere coi numeri. Beppe Sala, sindaco moderno e benvoluto, posava su una copertina di Style con il Duomo sullo sfondo e il titolo “Città aperta”. Una profezia sbagliata. Del resto, perfino gli scienziati, neanche un anno dopo, si sono rivelati indovini fallibili.
Milano, poi, non è la città delle Cassandre. Qui il domani è un grattacielo nuovo, il quartiere riqualificato, le Olimpiadi invernali. Un anno dopo, Milano è una città che si guarda sulle pareti specchiate del Palazzo Unicredit e non sa più chi è. Malconcia e incredula, la città che mastica il futuro, che farà, che sarà, che non si ferma, si trova per la prima volta a maneggiare ciò che non conosce: il presente. In una narrazione capovolta, per giunta, in cui restano le fotografie di chi dalla “città delle occasioni” è scappato sul primo treno. O sul primo jet. La narrazione capovolta della città che trainava il resto dell’Italia e che ora ne è la zavorra.

Roccaforte del virus, Milano è la città che per ultima uscirà dalla paura dei contagi. E non è detto che gli altri, quelli che ormai i contagi li hanno azzerati o quasi, la aspetteranno. Cosa è successo? Cosa succede a Milano? Succede che la coda dei contagi è lunga perché Milano – almeno un po’ – poteva farcela. Il virus le è girato intorno per settimane, ha aggredito prima il basso lodigiano, la Val Seriana, Brescia, Bergamo. Era chiaro che Milano non potesse godere di una immunità miracolosa, ma era altrettanto chiaro che con un contenimento efficace, si sarebbero potuti limitare i danni.
Si poteva giocare con un anticipo di quasi un mese, e invece no. Anziché dall’onda anomala che si frange senza lasciare scampo, Milano è rimasta sommersa dall’onda lunga. Il sorpasso dei contagi rispetto alla città di Bergamo con le sue bare portate via dall’esercito è avvenuto il 30 marzo. Un mese e 8 giorni dopo il paziente 1 di Codogno. Una vita, durante un’epidemia. Vuol dire che in quei 40 giorni, per tirare su il ponte levatoio, ci si è messo troppo. Vuol dire che di Milano non si sono comprese le fragilità, forse distratti dalle narrazioni sulla città performante (aggettivo osceno, molto milanese, che non a caso arriva dal linguaggio finanziario), dall’idea radicata che la sanità nel capoluogo lombardo fosse il meglio che si potesse chiedere.
A Milano, del resto, ci sono i grandi ospedali pubblici, i gruppi privati più stimati, con all’interno Facoltà di Medicina e poli didattici di università. Ci sono le eccellenze, i luminari, gli esperti, i reparti. Ci sono decine e decine di Rsa, alcune delle quali, come gli ospedali, sono una sorta di città nelle città. Migliaia di pazienti, di dipendenti, di operatori sanitari, di addetti alle pulizie e di parenti che da lì entrano ed escono tutti i giorni. E poi le case di riposo. Piene e numerose, perché qui a Milano i figli sono pochi, gli anziani sono tanti e gli stipendi sono alti.
Non esiste neppure un censimento attendibile delle case di riposo e delle Rsa a Milano. Una specie di giungla urbana invisibile, in cui il Coronavirus ha trovato il suo parco giochi. Qui stava la fragilità di Milano. Qui andavano alzate le barricate. È l’ultima flebo, più che l’ultimo aperitivo, ad aver esposto mortalmente la città. Mentre noi fotografavamo gli ultimi irresponsabili sui Navigli o in Sempione nel weekend del 6 marzo, il virus passava di letto in letto e poi dallo stetoscopio del medico giovane al vecchietto della stanza 5, dal laccio emostatico sul braccio della ragazza immunodepressa all’infermiera del piano terra, dal pigiama della signora in cardiologia allo sfigmomanometro della dottoressa che quest’anno se ne va in pensione. E che, prima di dimettere il ragazzino del reparto all’ultimo piano, ha stretto la mano a quei genitori simpatici, che la chiamavano a tutte le ore.
Il virus entrava nelle case di riposo con i figli delle domenica, viaggiava tra coperte, vassoi di paste, baci e termometri. E poi, con loro, tornava a casa. I parenti e il personale ospedaliero, chi amava e chi curava, è stato l’inconsapevole traghettatore della malattia. Andava difesa, Milano, con quel prezioso anticipo che ha avuto. Bisognava iniziare a usarli con serietà, quei numeri snocciolati a caso nei bollettini di Gallera. Contare pazienti, dipendenti di ospedali, Rsa, case di riposo e avere paura. Prevedere. Schivare il più possibile. Pretendere report dettagliati, trasparenti da tutti.
È anche l’assenza di paura che ha fregato questa città. È la sfrontatezza fessa, perennemente stampata sulla faccia di Gallera. È l’arrogante debolezza di chi non convive con l’idea che si possa perdere. Quella paura che forse ha salvato il Sud. E poi gli interessi. Tante, troppe Rsa hanno taciuto, perché se avessero parlato avrebbero dovuto chiudere. Idem troppe case di riposo, che hanno privato figli e nipoti di informazioni importanti, che hanno atteso settimane prima di ammettere il disastro. I tamponi al personale si sono fatti poco o per niente ovunque, perché va detta una verità semplice, impronunciabile: meglio un medico, un infermiere malato che un reparto senza più personale.
Non si sono tamponati i cittadini, ma si è tamponato il disastro con la propaganda, con l’ospedale di plastica dorata da inaugurare a favore di telecamera, con le colpe da attribuire ai milanesi a giorni alterni. Quelli in cui i numeri erano pessimi “i milanesi vanno troppo in giro, la app dice che ci sono troppi movimenti sospetti dopo le 23”, quelli in cui erano migliori “bravi i milanesi, i vostri sacrifici sono premiati”. Nessuno, intanto, che dica la verità: a Milano si muore ancora tanto perché il virus è entrato dove ha trovato i bersagli più fragili. Tant’è che le terapie intensive, nonostante i morti siano sempre tanti, si stanno svuotando: è perché il novantenne in casa di riposo non lo intuba nessuno. Muore lì.
Non è stato il runner, il colpevole. È nell’abbandono a cui è stata destinata questa città, la colpa di questa dolorosa coda finale. Una città che oggi, 15 aprile, conta 15.000 contagiati contro gli 11.000 di Brescia e i 10.000 di Bergamo, e lo dico sapendo quanto poco valgano i numeri in questa farsa tragicomica di bollettini inaffidabili. Saremo gli ultimi, qui a Milano, ad uscirne. E ne usciremo più tardi, senza aver sfruttato il tempo e l’esperienza maturata nelle settimane che hanno preceduto l’onda lunga. Ne usciremo perché siamo stati in casa. Perché i virus, senza essere portati in giro dall’ospite, non vanno da nessuna parte. Ne usciremo perché abbiamo avuto rispetto e abbiamo avuto paura. Ne usciremo in un cimitero di morti e di morti viventi. Di sopravvissuti che sono stati abbandonati, di malati in casa che si sono auto-imposti quarantene e hanno messo un piede fuori senza sapere se erano ancora positivi. Di famiglie intere che si sono infettate perché “a Milano requisiremo hotel e strutture per isolare gli infetti” e invece balle. Ne usciremo per ultimi, sfiniti e affranti, con la sensazione che qualcosa – almeno qualcosa- qui si sarebbe potuto salvare. Si poteva proteggere. Si poteva risparmiare.
Ne usciremo con una narrazione nuova, da inventare. O forse, per un po’, finalmente senza narrazioni. E no, non basta comprare pagine di giornale per riscrivere la storia di questa primavera. Dovremo rinunciare agli slogan fighetti, all’utilizzo compulsivo di quel verbo insopportabile, “ripartire”, perché non partiremo, non correremo. Dovremo, come prima cosa, imparare a usare di nuovo le gambe. Dovremo coprirci gli occhi perché il sole ci farà male. Dovremo fare i conti con i nostri debiti e con le nostre paure, andare a trovare i nostri morti, tornare a sorridere, sotto la mascherina, ai vicini che torneranno dalle case al sud e dalle ville in montagna.
Lavoreremo in un modo nuovo, stupendoci – forse – di quanto Milano possa offrire a se stessa, prima ancora che agli altri. E quando torneremo a votare, dovremo ricordare tutto, dovremo conservare la memoria primitiva del dolore del fuoco che brucia il dito, la prima volta. Ci racconteranno, tra un po’, che abbiamo vinto. Non abbiamo vinto nulla, qui a Milano. E non dovremo permettere a nessuno di costruire carri del vincitore in dieci giorni, con le immagini in time-laps da pubblicare sui social. Dovremo tornare ad imparare e a correggere, perché forse avevamo smesso.
Dovremo tornare al presente e a guardare ciò che è davanti a noi, perché prima di “ripartire” c’è da sistemare. Non dovremo tornare quelli di prima. Dovremo tornare migliori. Perché Milano ha perso. E dovremo prenderci cura di lei. Mi piacerebbe che si ricominciasse, in questa meravigliosa città, con il tono lucido, rigoroso, sobrio di chi tornò, appunto, sapendo che c’era un cimitero troppo affollato, alle sue spalle, per concedersi sbavature gioviali. Mi piacerebbe che si ricominciasse con un: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. Niente di più.

mercoledì 15 aprile 2020

Conte batte Macron e la Merkel: è lui il premier più apprezzato in Europa.



(business.it/) – Non solo il leader più apprezzato dagli italiani in queste giornate concitate, con il Paese alle prese con la delicata gestione dell’emergenza coronavirus. Ma anche uno dei capi di Stato più amati in Europa. Questo quanto emerge da un sondaggio realizzato da Swg per il Tg La7 e che ha messo a confronto gli indici di gradimento dei cittadini di diverse nazioni Ue nei confronti dei loro rappresentanti: l’operato del nostro esecutivo è risultato migliore di quello di Angela Merkel o Emmanuel Macron.

Le rilevazioni hanno evidenziato come il gradimento verso il governo Conte sia più alto, infatti, di quello dei cittadini tedeschi e francesi nei confronti dei rispettivi leader politici, a loro volta impegnati nel difficile compito di traghettare i loro Paesi fuori da una crisi senza precedenti. Alla domanda “Nel suo paese si stanno prendendo tutte le misure necessarie per affrontare la diffusione dell’epidemia?”, il 73% degli italiani ha risposto con un convinto “sì”. In Germania soltanto il 65% della popolazione pensa che la Merkel abbia fatto il possibile, in Francia solo il 54% si dice convinto da Macron.

Per cercare una nazione dove c’è maggiore consenso verso le istituzioni bisogna rivolgere lo sguardo alla Polonia: lì, però, a giocare a favore è anche il basso numero di casi di contagio registrati, circa 7 mila, ben al di sotto rispetto a tanti Paesi dell’Europa dell’ovest. Diverso è invece il discorso se si sposta il ragionamento verso l’Europa: molti italiani, infatti, non sembrano per niente soddisfatti dell’accordo che è andato delineando dopo l’ultimo Eurogruppo.

Alla domanda “Nell’Eurogruppo è stato raggiunto un accordo che consente l’utilizzo del fondo salva-stati Mes all’Italia per 37 miliardi, senza condizioni penalizzanti, mentre non sono stati approvati gli Eurobond. Come ritiene questo risultato?”, il 40% degli italiani ha risposto che si tratta di un cedimento da parte dell’Italia, il 30% parla di compromesso accettabile e il 26% non si è espresso. Soltanto per un 4% dei cittadini si tratta di un successo.

https://infosannio.wordpress.com/2020/04/14/conte-batte-macron-e-la-merkel-e-lui-il-premier-piu-apprezzato-in-europa/

Salvini tanaliberatutti. - Roberta Labonia

A Milano comincia oggi IDN18: parlano Salvini, Fontana e Fedriga ...

Era giusto l’8 aprile scorso quando Matteo Salvini ci aveva regalato questa “perla” : “… non è il momento di mandare inchieste sugli ospedali lombardi, lasciamo che medici e dirigenti lavorino. Anzi onore a chi è in trincea, io più che un’inchiesta dei Nas o un fascicolo della procura avrei mandato medaglie”.
Il suo è lo stesso giochetto sporco che sta facendo in queste ore la premiata ditta leghista Fontana&Co. Anzi lui è il loro maestro. La stanno buttano in caciara contando sulla commozione che sta suscitando in queste ore l’abnegazione e il senso di sacrificio di tutto il personale medico e infermieristico lombardo, per nascondere le loro vergognose mancanze, le loro scelte scellerate. Come è stata quella di riaprire, il 23 febbraio scorso, dopo averlo chiuso per neanche 4 ore, il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo, senza nessuna sanificazione, appena scoperto che ci erano passati 2 casi Covid. Chi volesse una chiave di lettura dei numeri agghiaccianti di vittime dell’epidemia nel bresciano e nella bergamasca è servito.
Alle 14,00 la direzione dell’Ospedale sceglie di chiudere, riporta “L’eco di Bergamo”. “lo volevamo chiuso”, testimonia un primario, “poi telefonarono da Milano” (Leggi Pirellone). Ora la Procura di Bergamo ha aperto un inchiesta. Ed è solo una delle tante che si stanno apprendo in queste ore su molte strutture sanitarie lombarde. Quelle che Salvini, appunto, non vuole. Non è il momento, dice lui.
E stamattina sempre il Cazzaro Verde ha rincarato la dose. A Coffee Break su La7 (ormai è ufficiale, Cairo è uno dei suoi sponsor), non contento, ha dettato la sua ricetta per la ricostruzione post epidemia : “Condono è una brutta parola” – ha sentenziato – ma in tempo di guerra ci vogliono pace fiscale, pace edilizia, blocco del codice degli appalti”. E perchè no il rutto libero di fantozziana memoria? E ancora: “Io dalla task force (ndr, quella per la ricostruzione voluta da Conte), mi aspetto questo. Tutto quello che non è vietato è permesso, se non ho risposta dall’ente pubblico, faccio, parto”.
Sembra che dopo questo discorso, il “comitato” a tutela degli evasori di tutta Italia gli voglia intestare una piazza mentre i capi di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Corona Unita si dice si siano riuniti e abbiano deciso di dedicargli un monumento. Ovviamente ricorro ai paradossi così, tanto per sdrammatizzare, che di incazzature ce ne prendiamo già abbastanza. Ma come non incazzarsi, anzi indignarsi, davanti a tanta irresponsabilità, tanta superficialità? Non sarà con la ricetta dell’ennesimo condono che l’Italia potrà ripartire. Quello che non gli riuscì nel 2018 col Conte Uno, quando Luigi Di Maio gli fece tana quando scopri che nel testo del dl fiscale qualcuno aveva inserito lo scudo per i capitali mafiosi e la non punibilità per chi evade, Salvini forse vuole riproporlo adesso? Contando su un opinione pubblica resa claustrofobica dalla lunga quarantena e in grande misura pressata da problemi economici? Roba da sciacalli.
E il condono edilizio? Che c’azzecca con la ripresa post – epidemia, direbbe Di Pietro. All’Italia, per ripartire, servono investimenti in infrastrutture. Sia materiali, come gli Ospedali pubblici, le scuole antisismiche, e la manutenzione, quella vera, non quella targata Benetton, delle nostre Autostrade, che immateriali, come la banda larga. Serve ritornare ad investire nell’istruzione, in un corpo insegnante efficiente e preparato. Da qui bisogna iniziare, e serviranno tanti, tanti soldi, se l’Europa non sarà miope, per risollevare l’azienda Italia e tutto il resto del vecchio continente. Altro che l’ennesimo condono edilizio targato Salvini/Berlusconi /Meloni!
E poi il peggio del peggio, l’affondo finale del leghista: “bloccare il codice degli appalti”. Non ripensarlo, semplificarlo, renderlo più a misura del piccolo e medio imprenditore (che quelli grossi c’ hanno barba di tecnici a supportarli). No. Bloccarlo! Nel nostro Paese equivarrebbe a dire alle mafie: prego, accomodatevi, ecco le chiavi di casa, I’Italia è vostra.
Come se già non lo fosse abbastanza.

martedì 14 aprile 2020

Emergenza Coronavirus, Gratteri su aiuti economici: "Evitare che vadano in mano alla mafie".

Nicola Gratteri: «La 'ndrangheta punta a diventare il supermarket ...


Catanzaro - "Bisogna fare in fretta, ma c'è il pericolo che i soldi degli aiuti vadano in mano alle mafie, certamente. Per questo, per quanto riguarda i lavoratori in nero, ho parlato con l'Anci, e per lo meno l'Anci calabrese è d'accordo: consegneranno gli elenchi ai Prefetti, che li distribuiranno alle forze dell'ordine che li visioneranno per evitare che evasori totali, gente ricca che sulla carta risulta nullatenente, incassi questi soldi". Lo ha detto a Sky TG24 il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri. "Per quanto riguarda le aziende - ha aggiunto Gratteri - è necessario, anche in questo caso, questo tipo di controllo. Noi abbiamo le forze dell'ordine che sul territorio hanno un controllo capillare, abbastanza diffuso. Possiamo utilizzare questa grande conoscenza per interagire con chi deve distribuire questi soldi, con chi va a fare gli elenchi per vedere chi ha bisogno e chi no".
"In paesi di 5000 abitanti - ha proseguito Gratteri -, di cui ad esempio è piena la Calabria o la Sicilia, a una stazione dei carabinieri bastano 48 o 24 ore per controllare. Non si ritarda di molto, al massimo di 48 ore. In paesi più grandi ci sono le Compagnie, la Guardia di Finanza, la Questura. È più il parlare che il fare. Intanto mandate questi soldi, nel contempo mandate questi elenchi alla Prefettura e in 48 ore si è in grado di stabilire chi è evasore totale e avrebbe la possibilità. Sarebbe una grande occasione di controllo, per far emergere il lavoro nero, finirla con questo sfruttamento che dura da secoli. Questo è un momento importante, consideriamolo uno spartiacque, però è ovvio che per fare queste cose ci vuole volontà, coraggio, libertà, non è una cosa semplice". "Sono molto vicino alle persone che hanno bisogno e ai poveri - ha detto ancora il Procuratore di Catanzaro - soffro quando li vedo ma al contempo mi arrabbio perché non è possibile che nel 2020 ancora succedano questi sfruttamenti, ma soprattutto perché non incominciamo a discutere anche il mercato. Non è possibile che le arance della Calabria vengano pagate trenta centesimi e poi al mercato di Milano costino due euro e cinquanta".
"Non ho avuto nessuna interlocuzione con il Governo, mi chiamano parlamentari di tutte le ideologie politiche, mi confronto con tutti e sono, per quello che posso e per quelle che sono le mie conoscenze, il consulente gratuito di tutti" così ha proseguito il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri sui rischi di influenza della criminalità organizzata per quanto riguarda la distribuzione degli aiuti economici in seguito alla crisi economica dovuta all'epidemia di coronavirus.
“Le mafie sono un fenomeno mondiale, non più solo europeo, anche se l’Europa fa finta di non capire, perché in Germania arrivano milioni di Euro provenienti dal traffico di cocaina e sono i grandi ristoratori che riciclano per conto della ‘ndrangheta in Germania". Lo sottolinea il procuratore di catanzaro, Nicola Gratteri, riferendosi, tra l'altro a un articolo comparso in un quotidiano tedesco. "Non si devono permettere di dire quelle cose sull’Italia - aggiunge - sono cose che conosco bene, per quante rogatorie internazionali ho fatto con la Germania già dieci anni prima della strage di Duisburg. So io quante volte li abbiamo pregati di cambiare le norme, di contrastare le mafie in Germania, di cambiare il loro Codice e non siamo stati ascoltati”.

Commissariateli - di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 14 APRILE 2020

L'immagine può contenere: una o più persone

Sarebbe bello uscirne tutti insieme, ma più passano i giorni e più si comprende che sarà impossibile: non uscirne, ma farlo tutti contemporaneamente. È sempre più difficile convincere un cittadino del Molise o del Veneto che deve restare ai domiciliari chissà fino a quando perché in Lombardia e in Piemonte i contagi e i morti, anziché scendere, salgono. O meglio, si potrebbe convincerlo se, dopo i disastri fatti nei primi due mesi, le giunte lombarda e piemontese mostrassero uno straccio di strategia per aggredire il virus. Invece continuano a subirlo, inerti e in balia degli eventi, senza un orizzonte né una linea d’azione chiara. Passano il tempo a chiacchierare, a lodarsi, imbrodarsi e scaricare barile su “Roma”.

Esemplare l’assessore forzista lombardo Mattinzoli che, mentre le destre accusano Conte di rompere l’unità nazionale, lo insulta dandogli del “pezzo di merda”, minacciandolo di “riempirlo di botte”: ed è ancora al suo posto.
Indimenticabile l’assessore forzista Gallera, così garrulo fino all’altroieri malgrado il record mondiale di morti nella sua regione, e ora silente dopo la scoperta dello scandalo di Alzano (i suoi fedelissimi che vietano la chiusura dell’ospedale dopo i primi focolai) e dell’ordinanza che riversa nelle Rsa i malati Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora infetti. Leggendario lo sgovernatore leghista Fontana, che accusa il governo di negare la cassa integrazione a 1 milione di lombardi senz’averla mai chiesta. Poi si dice stupito perché “ero convinto che la curva rallentasse più velocemente”, ma fa poco o nulla per frenarla: scarsa mappatura dei contagi, nessuna campagna aggressiva di tamponi, niente sorveglianza attiva sui contagiati, nessun piano di test sierologici, ignorata la medicina territoriale, isolamento tutto da dimostrare nelle Rsa fra reparti con sani e con malati Covid. Nulla di ciò che fa il Veneto di Zaia, leghista anche lui, ma con la testa sul collo. Solo chiacchiere e propaganda, incluso il Bertolaso Hospital che doveva creare alla Fiera “600 posti letto” e, a due settimane dall’inaugurazione e a una dall’apertura, ospita 10-12 malati con 50 medici e infermieri rubati agli ospedali pubblici. Per questo gli Ordini dei medici di tutta la Lombardia hanno lanciato un j’accuse che fa a pezzi la politica sanitaria per il passato remoto, per il passato prossimo e per il presente. E denunce simili fanno, anche in sede penale, i medici piemontesi contro le analoghe politiche (su Rsa e zero strategie) della giunta gemella del forzista Cirio, con un comitato di crisi (vedi pag. 2) che definire imbarazzante è un eufemismo.

Provate per un attimo a immaginare se la Lombardia e il Piemonte, o Milano e Bergamo, maglie nere dell’emergenza Coronavirus in Italia, fossero governate non dai “competenti” di destra&Pd, ma da “incompetenti” dei 5Stelle, tipo Appendino e Raggi. In tv e sui giornali non si parlerebbe d’altro e tutti invocherebbero le dimissioni delle due grilline, fino alla loro impiccagione sulla Mole Antonelliana e sulla Madunina. Invece non solo nessuno chiede la testa di Fontana, Cirio, Gallera, Mattinzoli, Sala, Gori e di tutta la fallimentare classe politica lombardo-piemontese. Ma i giornaloni continuano a menarla con l’“incompetenza” dei 5Stelle, che almeno stavolta non c’entrano. Su Repubblica, Francesco Merlo arriva a sostenere che la task force nominata dal premier, con “Vittorio Colao, 17 manager e professori, prima del Covid sarebbe stata derisa e calunniata dagli asini saputi che, cacciando i competenti dalla politica e dalle professioni, hanno instaurato la Cretinocrazia”: primi della lista “Grillo e Casaleggio” (che ospitano da sempre sul blog e ai V-Day premi Nobel come Stiglitz e Krugman, scienziati, esperti di nuove tecnologie ecc.).

E così, mentre tutti parlano d’altro per fare propaganda e/o non doversi smentire, si perdono di vista due Regioni totalmente fuori controllo che, non certo per colpa dei cittadini, rischiano di prolungare il lockdown di tutt’Italia anche dopo il 4 maggio. È vero, il virus nei primi giorni è stato sottovalutato in tutto il mondo. Ma sono trascorsi quasi due mesi e non si può più accettare che Fontana si trinceri ancora dietro “il virus particolarmente violento in Lombardia”, perché la sua violenza è stata direttamente proporzionale a vari fattori, in primis gli errori dei vertici sanitari della sua Regione: all’inizio (sull’ospedale di Alzano e la mancata zona rossa in Bassa Val Seriana), in seguito (con le Rsa e la rincorsa all’ospedalizzazione selvaggia) e oggi (zero strategie per aggredire l’emergenza). Né si può lasciare il Piemonte in balìa di una giunta di inetti che si ispirano all’unico modello da non seguire: quello lombardo. Non lo diciamo noi: lo dicono i medici, con denunce documentate a cui nessuno ha neppure tentato di replicare (se non col decisivo argomento che gli Ordini dei medici sono “al servizio del Pd”). La politica non c’entra nulla: c’entra la pelle dei lombardi e dei piemontesi e anche la sorte di un intero Paese ancora bloccato per i numeri spaventosi di quelle due regioni. Il governo, se può, pensi seriamente a commissariare le due Regioni, o almeno le loro Sanità allo sbando. Per il bene di tutti.


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Coronavirus, in Lombardia gli ospiti delle residenze per anziani non vengono portati in pronto soccorso per delibera della giunta. - Gaia Scacciavillani

Coronavirus, in Lombardia gli ospiti delle residenze per anziani non vengono portati in pronto soccorso per delibera della giunta

L'obiettivo di un alleggerimento del peso sugli ospedali difeso a spada tratta dalla Regione, non è avvenuto solo agendo sui flussi in uscita, ma anche su quelli in entrata. E il mezzo, in entrambe le direzioni, sono sempre le Rsa. Leggere delibere per credere. Inclusi gli allegati dove si relegano le "buone prassi" per il fine vita.

“Le cose le abbiamo scritte in atti ufficiali che non possono essere travisati”. Dice bene l’assessore lombardo alla Sanità, Giulio Gallera, quando parla delle decisioni prese dalla Giunta regionale in merito all’invio di pazienti covid nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa). Cioè le strutture per anziani malati cronici che erogano assistenza sanitaria condivisa tra più persone, prevalentemente in convenzione con il pubblico, sulla base di parametri che vengono definiti dalle regioni stesse. Quegli stessi parametri, come già sottolineato da ilfattoquotidiano.it, però, rendono davvero difficile, se non impossibile, reperire le strutture che secondo la regione sarebbero titolate ad accogliere i pazienti covid. Almeno in base alla definizione della deliberazione di giunta dell’8 marzo scorso ricordata da Gallera lunedì 6 aprile nel suo punto quotidiano.

Le residenze sanitarie non hanno personale in più, anzi – L’assessore ricorda: “Abbiamo detto che le Rsa che avevano strutture autonome dal punto di vista strutturale, cioè padiglioni separati o strutture fisicamente indipendenti, cioè con aree che non entravano in contatto con altri pazienti e autonome anche dal punto di vista organizzativo, cioè con personale da dedicare esclusivamente a questi pazienti, cioè con luoghi totalmente separati e personale dedicato, se potevano e volevano”…ospitare i pazienti covid meno gravi. Peccato che in base ai cosiddetti minutaggi, cioè il tempo minimo che una struttura per convenzione con il pubblico, deve dedicare a un ospite, le Rsa abbiano delle enormi difficoltà a coprire il normale carico di lavoro (che non prevede la gestione di epidemie, ma neanche di polmoniti delle quali normalmente si occupano gli ospedali).
Non a caso non appena ci sono dei concorsi pubblici, il personale delle strutture private corre attratto dall’idea che per lo Stato si lavora molto meno e si prende di più. Figuriamoci avere personale doppio. Quindi, anche senza entrare nel merito delle strutture fisiche separate, resta il nodo del personale e non si capisce quali siano le Rsa lombarde che sono state ritenute idonee a sgravare gli ospedali dai pazienti covid senza mettere a rischio i propri ospiti, com’era nei desiderata di chi ha scritto la delibera. Ilfattoquotidiano.it ha provato a chiederlo a più riprese, quotidianamente all’assessore nelle ultime tre settimane, ma non ha mai avuto risposta.
La decisione della Lombardia del 30 marzo – Il comprensibile obiettivo di un alleggerimento del peso sugli ospedali, in ogni caso, non è avvenuto solo agendo sui flussi in uscita, ma anche su quelli in entrata. E il mezzo, che giustifica il fine, sono sempre le Rsa. Lo si legge neanche troppo tra le righe di un’altra deliberazione della Giunta di Palazzo Lombardia, la numero XI/3018 del 30 marzo scorso, che è stata presa poche ore dopo il primo incontro dall’inizio dell’emergenza tra l’assessorato di Gallera e gli operatori del settore, i gestori delle Rsa, che hanno chiesto di essere almeno posti nelle condizioni di gestire i pazienti covid. Detto fatto.
Nel testo della deliberazione che è seguita all’incontro, è scritto che visto che “per gli ospiti delle Rsa e delle Rsd, in quanto pazienti fragili, l’emergenza da Covid-19 può rappresentare problematica particolarmente significativa”, e che grazie alla delibera di giunta dell’8 marzo scorso, “le Rsa possono accogliere pazienti dimessi da strutture ospedaliere inviati dalla centrale unica regionale dimissione post ospedaliera”, la giunta Fontana ha ritenuto “opportuno fornire alle Rsa e Rsd indicazioni per la gestione operativa degli ospiti e del personale, al fine di contenere le infezioni correlate all’assistenza nell’ambito dell’emergenza da Covid-19”. Seguono quindi “indicazioni per la gestione clinica di eventuali casi di Covid 19. Con particolare riguardo all’ossigenoterapia e alla sedazione palliativa”.
Così la giunta non manda in ospedale gli ospiti delle Rsa – La delibera include vari allegati. Uno dei quali contiene le indicazioni operative per la gestione degli ospiti che presentano sintomi “similinfluenzali” o covid positivi. Con una distinzione. I maggiori di 75 anni che presentano dei valori anomali di saturazione dell’ossigeno e sono in “discrete condizioni di salute”, vengono dirottati sul circuito ospedaliero tramite il 112. Per gli ultrasettantacinquenni che hanno una “situazione di precedente fragilità nonché più comorbilità”, invece, “è opportuno che le cure vengano prestate presso la stessa struttura per evitare ulteriori rischi di peggioramento dovuti al trasporto e all’attesa in Pronto Soccorso”.
In altre parole, considerato che le Residenze sanitarie assistite per definizione ospitano persone di età media superiore ai 75 anni con malattie croniche e, quindi, situazioni di fragilità, come per altro si ammette in testa alla delibera, la giunta Fontana esclude a priori dall’accesso ospedaliero gli ospiti delle Residenze sanitarie che pure fino a un mese e mezzo erano in grado di tollerare il trasporto in ospedale in caso di necessità. A loro, secondo le istruzioni dello stesso allegato, viene misurata la saturazione periferica dell’ossigeno e, in caso di necessità, somministrata l’ossigenoterapia. La terza strada è indicata in meno di due righe dallo stesso allegato dove si legge che “se il paziente è terminale si allegano le linee guida per ‘protocollo di sedazione terminale/sedazione palliativa“.
Le istruzioni sul fine vita in un allegato – Quest’ultimo capitolo è trattato in un ulteriore allegato che definisce asetticamente scopi della sedazione terminale, ambiti di applicazione e modalità di gestione della stessa, raccomandando come “un’attenta e corretta gestione dell’intero processo, decisionale ed attuativo, è importante per realizzare un efficace controllo dei sintomi e per minimizzare lo stress emozionale dei parenti (lutto patologico) e dei sanitari (burn-out dell’equipe)”. La decisione, sottolinea quindi l’allegato, “deve arrivare al termine di un processo decisionale che vede coinvolti l’equipe curante, il malato (se possibile) e i familiari o le persone a lui care”. Resta da capire al termine di quale processo sono invece state prese delle decisioni così importanti e delicate, che riguardano l’etica, l’universalità della sanità e il fine vita e che pure, in Lombardia nel 2020, vengono relegate all’interno di una serie di allegati in coda a una delibera varata in silenzio.