sabato 5 giugno 2021

Giustizia di classe. - Marco Travaglio

 

Dopo aver fatto inciuci con tutti e il loro contrario ed essersi ridotti a percentuali da prefisso, i Radicali sono atterrati in braccio a Salvini. Auguri a loro, ma soprattutto a lui. Il prestigioso sodalizio raccoglie firme per sei referendum che renderanno la giustizia – l’avreste mai detto? – “giusta”. Siccome i quesiti sono scritti in un idioma che fa apparire il sànscrito una passeggiata di salute (solo il secondo conta ben 1074 parole), ci siamo armati di un decrittatore per codici cifrati e li abbiamo tradotti.

1. Responsabilità civile dei giudici. Oggi chi ritiene di aver subìto un torto dalla giustizia può chiedere i danni allo Stato. Se vince il sì, potrà fare causa direttamente al magistrato. Così chiunque sarà condannato nel penale o si vedrà dar torto nel civile denuncerà i suoi giudici. Che saranno sepolti di denunce. O, per evitarle, non condanneranno più nessuno e, fra un potente e un poveraccio, daranno ragione al primo, a prescindere. Giustizia giusta?

2. Manette difficili. Si vuole abolire la custodia cautelare per i delitti puniti con pene sopra i 5 anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti”. Quindi, se non si può più arrestare neppure per finanziamento illecito e per i reati gravi, i delinquenti in guanti bianchi (e pure di strada) resteranno liberi di inquinare le prove, fuggire e commettere altri reati. Giustizia giusta?

3. Separazione delle carriere fra pm e giudici. Se il pm ha fatto per un po’ il giudice, ha assorbito la cultura dell’imparzialità tra accusa e difesa (Falcone e Borsellino furono giudici istruttori e poi pm). Se invece fa solo il pm, assorbe la mentalità dell’accusa, tipica delle forze di polizia, non della magistratura. Quindi, una volta separati dai giudici, i pm saranno più “giustizialisti” di prima. Giustizia giusta?

4. Abolizione della Severino. L’altra sera dalla Gruber Salvini vaneggiava sulla barbarie di cacciare sindaci e amministratori locali condannati in primo grado. Forse non ha letto il quesito, che propone di abolire l’“incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”: cioè vuole riportare in Parlamento, al governo e negli enti locali persino i pregiudicati (in Cassazione, non in primo grado) per reati gravi. Giustizia giusta?

5. Elezioni al Csm. Chi si candida non dovrà più raccogliere firme. Il che, con la giustizia giusta, non c’entra una mazza.

6. Consigli giudiziari. Nelle filiali locali del Csm che giudicano la bravura dei magistrati, avrebbero diritto di voto pure gli avvocati. Cioè, per dire, a Palermo a valutare la professionalità di Nino Di Matteo potrà esserci l’avvocato di Matteo Messina Denaro. “Giustizia giusta”, come no.

IlFQ

venerdì 4 giugno 2021

Giustizia è sfatta. Un pezzo dopo l’altro stanno smontando la riforma Bonafede. - Nicola Scuderi

 

Tra i referendum di Salvini, le indiscrezioni sulle conclusioni della commissione della ministra Cartabia, e la pioggia di emendamenti in Commissione Giustizia al ddl sul Csm, è iniziata la guerra per mandare in pensione il progetto di riforma dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede.

Un pezzo dopo l’altro stanno smontando la riforma Bonafede.

Sembra passato un secolo da quando la guardasigilli rassicurava il Movimento affermando che avrebbe continuato sul solco del suo predecessore perché, secondo quanto trapela dalla proposta della Commissione, tutte le battaglie dei grillini finiscono nel dimenticatoio. Una mossa che farà piacere al centrodestra e a Italia Viva ma che rende il testo assolutamente impossibile da digerire dai 5 Stelle, e già manda in fibrillazione l’intera maggioranza che, come già accaduto in ogni tentativo di riforma, rischia di implodere proprio sul tema della Giustizia.

Nella proposta, infatti, scompare il sorteggio per comporre il Consiglio superiore della magistratura che Bonafede aveva immaginato per bloccare il correntismo all’interno dell’organo di autogoverno che ha portato allo scandalo degli incontri carbonari tra l’ex pm Luca Palamara e alcuni politici per orientare le nomine nei maggiori uffici giudiziari del Paese. Al posto del sorteggio, i tecnici propongono una revisione del sistema elettorale che determini una cesura tra le correnti della magistratura e i consiglieri togati al fine di depotenziare le correnti. Ma c’è di più.

Giustizia è sfatta.

La riforma Bonafede prevedeva anche nuovi criteri in ottica di merito e trasparenza per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, una riorganizzazione delle procure al fine di ridurre la gerarchizzazione al loro interno e l’addio, chiesto a gran voce dagli italiani, delle cosiddette porte girevoli tra consiglieri del Csm ed ex membri del governo o del Parlamento. Nella proposta della Commissione, invece, tutto ciò viene semplicemente cancellato con quello che i 5 Stelle già definiscono un tradimento.

Salta il divieto assoluto per chi si candida a rientrare in magistratura al termine dell’esperienza politica che ora potrà avvenire pur introducendo limiti territoriali, ossia per esercitare funzioni giudiziarie basterà cambiare regione. La Commissione, inoltre, prevede anche una serie di criteri selettivi “più rigorosi” per i magistrati destinati alla Corte di Cassazione come anche vengono mantenuti criteri più oggettivi degli attuali indicatori attitudinali sulle nomine dei magistrati al vertice degli uffici giudiziari per contenere la discrezionalità del Csm.

I quesiti della discordia.

Difficile, allo stato attuale, pensare che il Movimento possa accettare passivamente tali proposte e assistere alla demolizione di tutto il lavoro svolto dal precedente governo. Occorrerà mediare, ammesso ce ne sia la volontà, oppure sarà inevitabile arrivare allo scontro con lo spettro, tutt’altro che remoto, di una possibile rottura nella maggioranza. Del resto sulla Giustizia, su cui pende la spada di Damocle del recovery plan e la necessità di approvare al più presto la riforma della Giustizia per non perdere i fondi Ue, è in corso quello che sembra un attacco incrociato ai 5 Stelle con il Carroccio che insiste sulla campagna referendaria.

Nonostante lo scetticismo dei loro stessi alleati, i sei quesiti che minano uletriormente il già accidentato terreno della riforma, sono stati depositati presso la Corte di Cassazione. Un iter che si preannuncia lungo tanto che gli stessi promotori, alla faccia della celerità che l’Ue ci chiede, sperano di portare gli italiani al voto in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno del 2022.

LaNotiziagiornale.it

CAPITALISMO E DEMOCRAZIA: TASSARE LE RICCHEZZE PER USCIRE DAL NUOVO FEUDALESIMO. - Nadia Urbinati


 
Ci abbiamo mai fatto caso che il discorso sulla crisi ha in questi anni marciato su due binari paralleli? Crisi della democrazia e crisi del capitalismo. Sulla prima si è accumulato materiale che potrebbe riempire alcuni scaffali. Sulla seconda, la produzione è meno abbondante ma non se si include la trattatistica sulla disuguaglianza.

Realismo critico.

Recentemente Carlo Trigilia ha curato un volume per il Mulino, Capitalismi e democrazie, che offre un’analisi comparativa di come le democrazie elettorali hanno risposto alla crisi economica; il bilancio non è necessariamente negativo: i percorsi dei Paesi europei mostrano come la “macchina complessa” della democrazia possa rispondere alla sfida “durissima” che viene dalle relazioni tra lo stato e il mercato.

Proviamo a fare un esperimento mentale: che cosa succede se invece di tener distinti i due termini – capitalismo e democrazia, mercato e stato – li trattiamo come parti di un sistema integrato? È questo che si propone di fare nel suo ambizioso e, dice Claus Offe, potenzialmente sovversivo, Capitalism on Edge: How Fighting Precarity Can Achieve Radical Change Without Crisis of Utopia (Columbia University Press, 2020).

L’autrice, docente nell’università del Kent, con una biografia di attivista e dissidente negli anni della caduta del regime comunista in Bulgaria, ha studiato alla New School e ad Harvard e ha una formazione francofortese. Il quadro teorico e concettuale nel quale situa la sua ricerca socio-politica è quello del realismo critico, che potremmo sintetizzare con le parole di Paul Valery: «Il modo migliore per far sì che i sogni diventino realtà è svegliarsi».

Realismo critico significa, in questo caso, evitare di guardare il capitalismo da un punto di vista morale o desiderativo. Per questo, parlare di crisi ha poco senso, perché presume che vi sia una condizione stabile o di buona salute (ma buona per chi?) alla quale riportare il capitalismo. Secondo Azmanova non di crisi si dovrebbe parlare ma di cicli di mutamento delle condizioni di generazione del profitto.

Il capitalismo che molti dipingono in agonia o propongono di rendere “buono” sta benissimo come motore di prosperità selettiva. Ed è l’attenzione al problema “sistemico” che consente di vedere i segni delle trasformazioni epocali: nel nostro tempo, il populismo xenofobo o le rivolte dei disperati segnalano una “pena crescente” di molte persone che la retorica del benessere generalizzato e della crescita aveva per qualche decennio alleviato.

Conservatori e progressisti trattano il capitalismo come un fenomeno morale che può essere piegato alle ragioni della giustizia che stanno prima e sopra di esso. Secondo Azmanova questa lettura non aiuta a capire il nostro tempo e neppure la logica di sistema. I discorsi sulla crisi derivano da una teoria della giustizia che si propone di lenire le grandi sofferenze con i mezzi che il capitalismo offre, muovendo cioè le leve o della liberalizzazione o dell’intervento statale.

Dall’uguaglianza all’oligarchia. 

È possibile uscire da questo circolo chiuso? Secondo Azmanova è possibile se si resta marxianamente all’interno del processo immanente del capitalismo, che non è istigato da menti o volontà perverse o esterne ad esso. Si tratta di una pratica di pensiero radicale. Primo passo: trattare le nostre società come ordini istituzionali che combinano la democrazia come sistema politico al capitalismo come sistema sociale.

La democrazia capitalistica comprende due ordini, economico e politico, che si sostengono a vicenda perché azionati dalla stessa logica, come diceva Schumpeter: generazione competitiva del profitto e generazione competitiva della classe politica. Alcuni anni fa, Francesco Galgano tracciò la storia del principio di maggioranza a partire dalla Compagnia delle Indie, della quale John Locke era un azionista.

L’evoluzione delle democrazie come del capitale azionario è, da allora, andata da soluzioni di uguaglianza orizzontale a soluzioni miste di oligarchia e democrazia. O l’elettore è un uguale in senso aritmetico (una testa/un voto) o invece la sua uguaglianza è proporzionale all’interesse o al potere da rappresentare (peso del voto secondo le quote di capitale).

Democrazia e capitalismo hanno seguito un andamento dall’uguaglianza all’oligarchia, pur restando l’uguaglianza degli individui il principio che giustifica la competizione. Azmanova propone una lettura simile: la democrazia elettorale attuale, dice, è generatrice di oligarchia proprio per le pratiche competitive che la muovono. E offre valvole di sfogo, lasciando aperti spazi di contestazione della disuguaglianza, come con Occupy Wall Street o gli Indignados.

Secondo Azmanova queste sono reazioni innocue, anche perché traducono le afflizioni e le condizioni di assoluta precarietà, in una denuncia fuori tiro, sbagliata – la disuguaglianza – senza mai andare alla radice dell’ordine che la genera. Quindi il capitalismo continua a prosperare a dispetto della insoddisfazione pubblica che genera.

Allenarsi a resistere.

Del resto, nonostante le dichiarazioni di crisi del capitalismo c’è generale consenso sulle strategie di intervento (alternanza di deregolamentazione e liberalizzazione e di cicli di intervento pubblico in momenti di instabilità). Fino a ora, tutti i governi democratici, di destra o di sinistra, hanno perseguito l’obiettivo di salvare il capitale finanziario e il “big business” implementando programmi di austerità, con il risultato di generare più povertà e più precarietà.

E le rivolte, a tratti anche violente, come quella dei gilets jaunes francesi o le reazione populiste, non cambiano questa situazione: sono allenamenti alla resistenza al peggio, cioè resilienza. Incanalare la frustrazione contro i poveri non nostri e contro i super-ricchi del mondo: xenofobia e invidia sociale. Due strade che non portano a nulla se non a restare dove si è.

Ha scritto Harry Frankfurt in Inequality (2015) che siamo fuori tiro quando lamentiamo la disuguaglianza. Dovremmo in effetti preoccuparci della povertà: il povero soffre perché non ha abbastanza di che vivere. Dargli di che vivere è l’obiettivo materiale, anche a costo di togliere a chi ha di più. L’obbligo morale sarebbe quindi non quello di conquistare più uguaglianza, ma di eliminare la povertà.

L’oscena accumulazione della ricchezza è offensiva non rispetto all’uguaglianza (di che cosa? In relazione a che cosa? Tra chi?) ma alla povertà, al fatto empirico ed evidente della miseria che non consente sofismi. Eppure tutti parlano della disuguaglianza, dai presidenti delle banche e degli organismi economici internazionali ai riformatori liberal.

Perché la disuguaglianza, che è una caratteristica delle società di mercato da sempre, all’improvviso è tanto discussa da tutti? Perché siamo disturbati più da chi è ricco che da chi è povero? Se insistessimo sulla povertà saremmo meno inconcludenti e daremmo più spazio ai discorsi materiali; se cessassimo di parlare di crisi del capitalismo vedremmo meglio che questo sistema è basato sulla produzione di povertà, di ingiustizie e di dominio.

Nella Favola delle api (1723) di Bernard de Mandeville, si legge che la ricchezza nasce dalla povertà, la prosperità dal lavoro salariato; il benessere delle nazioni è misurato dalla massa dei poveri laboriosi che faticano senza aspirare ad investire in bellezza e cultura, merci di lusso non a buon mercato.

La religione della sopportazione e il mito della condizione umana sempre uguale a sé stessa sono serviti per secoli a lenire il senso disperante di non aver altro che la propria miseria. Nel nostro tempo che sembra aver eternizzato il capitalismo, quale risposta si può dare a Mandeville per il quale la storia è storia di sfruttamento e di ricchezza che si ripete sempre uguale perché l’antropologia non cambia?

Si può in effetti rispondere che questa storia non si ripete mai sempre uguale perché gli esseri umani, dopo tutto, non sanno rinunciare, diceva Jean-Jacques Rousseau, a perfezionarsi e, così facendo, scompaginano la loro stessa antropologia e il corso delle cose, creano senza premeditazione crepe nel sistema. Cambiare le gerarchie Non c’è nessuna regia della storia, sono gli umani a non poter essere addomesticati.

Pertanto, pur senza un disegno che determina il corso delle cose, vale il detto che il diavolo si annida nei dettagli. E la libertà è il dettaglio sovversivo. Qualche scintilla qui è là, manifestazioni di scontento sempre meno sporadiche valgono a mettere in circolo l’idea che si può interrompere la legge ferrea della povertà e della perversa ideologia della precarietà come condizione che meritiamo.

Il movimento del Sessantotto fu un assaggio della possibilità sempre aperta di scompaginare l’ordine della gerarchia. Oggi l’insoddisfazione per la massiccia ed espansa precarietà può aprire una nuova possibilità. Segni ne sono anche le reazioni xenofobe e protezionistiche, risposte alla precarietà e alla povertà inadeguate e capaci di mettere la democrazia a rischio.

Tassare le ricchezze è invece il punto da cui partire, scrive Azmanova, non per invidia di chi ha molto o per rendere tutti ugualmente ricchi, ma perché esse sono disfunzionali in quanto rappresentano un feudalesimo di ritorno e un’oligarchia auto-protetta, condizioni che stridono con le premesse competitive del sistema capitalismo e della democrazia.

Libertàgiustizia

Tennis, gare truccate al Roland Garros: arrestata Yana Sizikova. - Paolo Rossi

 

La russa, numero 765 del mondo in singolare, è stata fermata al termine del suo match di doppio. È coinvolta in un'inchiesta della Procura di Parigi per truffa e corruzione, partita nell'ottobre 2020.

PARIGI -  La mattina dopo il fattaccio il Roland Garros apparentemente fa finta di nulla, nel senso che sta ancora metabolizzando l’accaduto: la 26enne tennista russa Yana Sizikova è stata arrestata giovedì sera, come rivelato da Le Parisien, subito dopo aver perso il doppio (6-1, 6-1) giocato insieme alla connazionale Ekaterina Alexandrova, contro le australiane Storm Sanders e Ajla Tomljanovic. Sizikova risulta coinvolta in un'inchiesta su un giro di scommesse truccate.

Il giorno dopo si gioca sui campi, ognuno continua la vita di routine. In realtà sono gli sguardi che dicono tutti: non c'è il relax di questi primi giorni, ma una nota di sospetto, di diffidenza. L'uno contro l'altro. Un atteggiamento che riguarda tutti: atleti, organizzatori, sicurezza. Perfino tra i tennisti stessi, che chiedono l’un l’altro informazioni. Ma nessuno ha certezze.

L'arresto dopo i massaggi.

L’arresto nel torneo mancava, negli annali di questo Grande Slam. E poi è successo in tarda serata.  L'intervento di polizia non è stato effettuato in campo, ma al chiuso – tra gli spogliatoi e l’uscita, sembra alla fine del massaggio fisioterapico – ed è stato sfiorato anche l’incidente diplomatico, diciamo così, perché le guardie di sicurezza si sono opposte all’inizio alla gendarmerie, ma, viene spiegato, semplicemente per una incomprensione iniziale. 

L'inchiesta sulle scommesse truccate nel tennis.

L’accusa non è doping, ma scommesse. Partite truccate. In realtà di questa giocatrice, n. 765 del mondo in singolare, e 101 in doppio, quindi non proprio una giocatrice di primo piano, si era già parlato lo scorso autunno, quando Die Welt riferì di un’inchiesta, peraltro aperta sempre dalla procura di Parigi, su "frodi tra bande organizzate" e "corruzione sportiva attiva e passiva”. Nel mirino, insomma, c’era l’ultimo Roland Garros disputato a ottobre. Gli investigatori erano particolarmente interessati a una partita del primo turno che ha giocato l'anno scorso che aveva alzato le antenne delle agenzie di scommesse, con flussi sospetti: le avversarie di Sizikova, in quel frangente, furono le romene Andreea Mitu e Patricia Maria. Una serie di doppi falli di Sizikova, decisivi nello spostare le sorti dell’incontro a vantaggio delle avversarie, aveva fatto allarmare gli investigatori che avevano riscontrato anche un flusso anomalo di puntate in concomitanza col match, soprattutto nel quinto set quando in battuta c’era proprio la russa.

Il tenore di vita di Sizikova.

Mentre il Roland Garros prende tempo, anche solo per avere delle informazioni più dettagliate, ovviamente gli appassionati si sono scatenati sui social, e c’è chi - smanettando sul profilo Instagram della russa – ha notato uno stile di vita lussuoso (attraverso le foto postate dalla stessa tennista), a fronte di un montepremi di carriera modesto. 

Intanto gli inquirenti hanno interrogato l'atleta e perquisito anche la sua stanza d’albergo.

la Repubblica

“Lega, i soldi ai commercialisti ricompensa per rischiosi servizi”. - Davide Milosa

 

Il partito e le “casse”.

Otre due anni dopo l’inizio dell’inchiesta e a dieci mesi dagli arresti, ieri il giudice milanese Guido Salvini ha condannato i contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, rispettivamente a cinque anni e a quattro anni e otto mesi per il caso della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Per la Procura, rappresentata dall’aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, è certamente una grande vittoria, dopo un’indagine condotta con professionalità e ostinazione. Il giudice ha aumentato la pena per entrambi di quattro mesi, rispetto alle richieste formulate dai magistrati.

Il tribunale, è scritto nel dispositivo della sentenza letta ieri poco prima delle 13 a porte chiuse (il processo si è celebrato con rito abbreviato), ha disposto il sequestro di due villette all’interno del Green Residence Sirmione a Desenzano del Garda per un valore complessivo di oltre 300mila euro. Secondo la ricostruzione dell’accusa, quelle ville furono comprate con parte del denaro pubblico pagato da Lfc per acquistare un capannone a Cormano. Di Rubba Manzoni, interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e sospesi dalla loro attività di commercialisti per i prossimi quattro anni, erano imputati a vario titolo per turbata libertà nella scelta del contraente, per peculato e concorso in peculato. Prima di loro hanno patteggiato il prestanome Luca Sostegni a 4 anni e 10 mesi e il commercialista milanese Michele Scillieri a 3 anni e 8 mesi, che dopo l’arresto ha iniziato a collaborare con i pm. Con rito ordinario si sta svolgendo il processo a carico dell’imprenditore bergamasco Francesco Barachetti, anche lui imputato per concorso in peculato e destinatario di parte del denaro frutto del peculato.

Secondo il procuratore aggiunto Eugenio Fusco, “l’intero progetto criminoso – come si legge nelle sue note depositate in aula – viene realizzato grazie a strettissimi rapporti personali, professionali e di comune militanza politica, in parte occultati, in parte coperti dai controllori”. La vicenda Lfc è legata all’acquisito di un capannone a Cormano da adibire a nuova sede. Valore: 800mila euro. Prima dell’acquisto, il capannone stava in pancia alla società Paloschi che nel 2016 correva verso il fallimento. Entrano così in gioco Scillieri e il cognato. Paloschi venderà l’immobile alla società Andromeda sempre riferibile alla cerchia dei commercialisti leghisti che poi venderà a Lfc. Tutta la vicenda sarà costruita a tavolino dal 2016 e cioè oltre un anno prima del preliminare di vendita. Il tesoretto, che comprende la prima vendita da Paloschi ad Andromeda (dove non è contestato il peculato) e la seconda a Lfc, hanno dimostrato le indagini della Finanza coordinate dal maggiore Felice Salsano, sarà poi frazionato: una parte finirà in Svizzera e un’altra andrà a Manzoni, Di Rubba e Barachetti attraverso un risiko societario.

L’intera vicenda dunque si è giocata sotto l’ombrello della Lega. Scrive Fusco: “L’asse, per sé penalmente irrilevante ai fini di questa porzione di indagine, è ben ricostruito dallo stesso Manzoni: Matteo Salvini posiziona Giulio Centemero nella carica di tesoriere del partito e Centemero si avvale della collaborazione dello stimato amico e collega Manzoni, che a sua volta gli introduce Di Rubba”.

L’indagine Lfc dove “nulla è come sembra” resta solo un capitolo di un romanzo ancora da scrivere. Altre indagini sono in corso sul fronte dei soldi al partito. Tra queste, una per bancarotta dove è indagato Manzoni. Per l’accusa l’intera vicenda si è snodata “attraverso un’accorta apparecchiatura di mezzi, istanze, atti pubblici, fatture, contratti, consulenze, perizie”. Il tutto per uno scopo: “Impossessarsi di danaro pubblico (…) quasi inteso come ricompensa dovuta di più complessi e rischiosi servizi”. Quali che siano questi altri “rischiosi servizi” lo sta verificando la Procura. Per la quale “una cosa è certa: la molteplicità di legami, leciti e illeciti che accomunano Centemero, Manzoni, Di Rubba e Scillieri: dal servizio di domiciliazione per la nuova Lega (nello studio di Scillieri) al sistematico ritorno economico a Di Rubba e Manzoni degli emolumenti relativi agli incarichi ricevuti da Scillieri nella Lega”.

IlFQ

Giustizia & C.: Le affinità elettive Lega-pd. - Wanda Marra

 

Nuova offensiva pseudo-garantista.

Non c’è pace sotto al cielo del Partito democratico. E così, mentre Enrico Letta cerca di mettere in campo una strategia dialogante anche con la Lega di Matteo Salvini, dopo i primi mesi passati ad attaccare all’arma bianca il leader del Carroccio, tocca a Goffredo Bettini fare la mossa che spiazza tutti. In una lettera al Foglio (come aveva già fatto Luigi Di Maio una settimana fa, chiedendo scusa all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, dopo l’assoluzione), nel nome del fatto che la giustizia va radicalmente trasformata, si schiera a favore dei referendum dei Radicali e della Lega. Che prevedono la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, la custodia cautelare, l’abrogazione della legge Severino (in modo che non ci sia nessun automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali), l’abolizione della raccolta firme per la lista dei magistrati che vogliano candidarsi al Csm, l’abrogazione della norma sui consigli giudiziari.

Dice Bettini: “Non credo affatto sia giusto che questo tema sia un po’ pelosamente impugnato solo da quella destra populista, come la Lega, che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari”. La mossa di uno degli uomini che è stato centrale nell’esperienza del governo giallorosso ha più livelli di lettura. Il primo si può raccontare attraverso le reazioni a questa uscita, all’insaputa di tutti, anche quelli a lui più vicini. Si arrabbia Letta, si arrabbiano parlamentari, membri delle Commissioni Giustizia soprattutto. Perché stanno lavorando sulla riforma Cartabia, che, per inciso, va fatta con la Lega. E dunque, quella di Bettini viene vista come l’azione di uno che non conta più come prima e dunque agita le acque, complica giochi già complessi di loro. Lo dicono tutti tra i dem, da Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione Giustizia al Senato a Alfredo Bazoli, capogruppo alla Camera a Anna Rossomando, responsabile Giustizia dem, che le proposte della Cartabia sono più radicali. E soprattutto che arriveranno prima dei referendum. E dunque, quello di Bettini pare un assist alla propaganda di Salvini, al leader di lotta e di governo, che cerca un suo spazio, con Giorgia Meloni che glielo toglie, un giorno dopo l’altro.

“Qual è la vera posizione di Salvini? Quella di chi dice sì alla custodia cautelare o quella di chi voleva far marcire i detenuti in carcere, buttando la chiave?”, si chiedono non a caso al Nazareno.

C’è però un secondo livello di lettura. Ed è quello che alla fine Bettini apre la strada a una revisione di un certo tipo del dibattito sulla giustizia di questi ultimi 20 anni. Andando a toccare non solo il cosiddetto giustizialismo, che non è mai stato nelle corde dei dem, ma anche andando ad abbattere qualche tabù. Come, ad esempio, la revisione della legge Severino, che aveva portato alla incandidabilità di Silvio Berlusconi. D’altra parte, in una giornata densa per le tematiche della giustizia, non si sentono particolari voci di attacco verso i contabili della Lega condannati.

Si legge nella premessa alle proposte sulla giustizia del Pd: “Sotto il profilo della giustizia, la presenza di un presidente del Consiglio e di una ministra della Giustizia dalla preparazione e dalla autorevolezza inattaccabili può consentire al Paese di voltare pagina. Possiamo davvero chiudere per sempre la stagione delle contrapposizioni politiche sulla giustizia, e consegnare all’Italia un sistema più efficiente, che garantisca il rispetto della legalità insieme alla certezza del diritto e dei diritti dei cittadini, anzitutto quello di ottenere giustizia in tempi rapidi”. Eccola qui, scritta nero su bianco, la volontà di Letta di mediare con tutti, anche con la Lega. Inevitabile, d’altronde, visto che le riforme del Pnrr sono necessarie per avere i fondi europei. E poi, se si parla di ritorno della prescrizione, è più facile pensare che si possa fare asse con il Carroccio che con i Cinque Stelle.

Di certo, negli ultimi giorni, qualcosa è cambiato. Salvini ha dato ragione al Pd sulla proroga del blocco dei licenziamenti. Il Nazareno ha consegnato una replica secca al vice segretario, Peppe Provenzano, che evidenziava la giravolta, ma è un fatto che Letta ultimamente abbia ammorbidito i toni. “Dobbiamo fare le riforme con la Lega, a partire da quelle della giustizia e del Fisco”, ha detto e ridetto. Che cosa è successo?

Prima di tutto, c’è stato l’ennesimo confronto con il premier, Mario Draghi. E il segretario del Pd ha voluto smettere di offrire il fianco a chi lo cominciava a dipingere come il picconatore del governo. “Se non ora, quando?”, ha ribadito ieri sera, da Bruno Vespa, a proposito delle riforme. Senza la Lega, le riforme non si fanno. E il Pd parte da una debolezza prima di tutto numerica, nelle truppe parlamentari. Dunque, Letta non può che cercare dei punti di convergenza, una volta che ha visto fallire il tentativo di spingere Salvini a uscire dal governo e dar vita alla maggioranza Ursula. In questa fase magmatica della vita politica italiana, poi, si assiste a una convergenza di fragilità: i partiti contano sempre meno, rispetto alla forza personale del premier e dei suoi tecnici, ai moniti di Sergio Mattarella, persino alle raccomandazioni europee, rispetto a specifici provvedimenti. Così gli estremi, pur rimanendo estremi, si toccano.

Senza contare che nelle Commissioni parlamentari leghisti e dem si parlano di continuo, senza problemi di comunicazione. Dato di realtà che fa dire alla Rossomando: “Salvini si fidi di più dei suoi parlamentari, invece di fare azioni propagandistiche”. Ma in questa confusione di ruolo e di obiettivi, va anche detto che i dem aspettano con ansia di vedere gli emendamenti leghisti alla riforma Cartabia. La scommessa che si possa lavorare insieme la fanno, si aspetta la controprova della realtà. A proposito di rapporti di forza.

IlFQ

Il silenzio è d’oro. - Marco Travaglio

 

Nel dibattito dadaista sulla scarcerazione di Giovanni Brusca dopo 25 anni di galera, si dice che è uno scandalo liberare chi ha ucciso Falcone e altre cento persone, tra cui un bambino sciolto nell’acido: peccato che a liberarlo sia una legge voluta da Falcone, senza la quale non sapremmo che Brusca ha ucciso Falcone e altre cento persone, fra cui un bimbo sciolto nell’acido. In un Paese serio, anziché di Brusca, tutti si preoccuperebbero delle sentenze della Cedu e della Consulta contro l’ergastolo “ostativo” (che poi è l’ergastolo vero, ma nel Paese della giustizia finta occorre specificare), che stanno per liberare non i mafiosi che hanno parlato, ma quelli che stanno zitti. I quali non avranno più alcun motivo per parlare. Ora però i garantisti alla vaccinara si sono inventati un nuovo mantra: “Brusca non ha detto tutto”. Possibile. Ma che hanno in mente per fargli dire tutto: la tortura? Un modo civile ci sarebbe: imitare gli Usa. Lì, se un criminale collabora, non ottiene sconti di pena: non viene proprio processato. E può parlare quando gli pare.

Invece noi, furbi, grazie a una legge criminogena del 2000 voluta dal centrosinistra, diamo ai pentiti sei mesi per dire tutto. Se si ricordano qualcosa dopo, non vale. Il che rende ridicola l’accusa a Brusca di “non aver detto tutto”: anche se avesse altro da dire, essendo i suoi sei mesi scaduti da 24 anni e mezzo, non potrebbe più dirlo. E, se lo dicesse dimostrerebbe di non aver detto tutto e rischierebbe di perdere i benefici e tornare dentro. Qualcuno vuole che dica il resto? Cancelli la regola dei sei mesi. Poi però il rischio è che Brusca abbia davvero altro da dire. E lo dica. Per esempio sui mandanti esterni delle stragi, sulla trattativa Stato-mafia (che svelò un anno prima che la confermassero Mori e De Donno), sul ruolo di B. e Dell’Utri che l’ha visto sempre reticente. Perché un mafioso pentito, soprattutto all’inizio, non dice tutto? Per due motivi: il desiderio di proteggere i suoi amici o parenti; e il timore di inimicarsi qualche rappresentante dello Stato che lo protegge e firma con lui il contratto di collaborazione. Gaspare Spatuzza smontò il depistaggio su via D’Amelio, scagionò il falso pentito reo confesso Scarantino, dimostrò di essere l’autore della strage: e fin lì applausi scroscianti. Poi però fece i nomi di B. e Dell’Utri sui rapporti del boss Graviano durante le stragi. Napolitano tuonò contro le “rivelazioni più o meno sensazionalistiche di soggetti, diciamo così, piuttosto discutibili”. Il governo B. gli levò la protezione. E Spatuzza non disse più una parola. Se davvero qualcuno vuole scucirgli la bocca, rimuova la regola dei sei mesi dalla legge sui pentiti e Forza Italia dal governo. Secondo voi, così a naso, lo faranno?

IlFQ