giovedì 8 luglio 2021

Idrogeno verde: una soluzione energetica sostenibile, ma attenzione al greenwashing. - Francesco Suman

 

La seconda delle sei missioni del Recovery Plan è dedicata a “Rivoluzione verde e Transizione Ecologica”. Questa missione è a sua volta suddivisa in 4 componenti, la seconda delle quali è “Energia rinnovabile, idrogeno e mobilità sostenibile”. A questa componente sono dedicati circa 18 miliardi di euro dei circa 222 del Recovery Plan e 2 miliardi sono allocati specificamente all’idrogeno.

L’idrogeno non è esattamente una fonte di energia, bensì quello che viene chiamato un vettore energetico, cioè un mezzo che consente l’immagazzinamento dell’energia che può poi venire erogata in altre forme, come l’elettricità o la combustione. L’idrogeno in forma di molecola (H2) è però piuttosto raro sul nostro pianeta e quindi va prodotto, a partire dall’acqua con gli elettrolizzatori (che scindono tramite elettrolisi la molecola d’acqua H2O) o a partire da gas o addirittura petrolio. A certe condizioni che dipendono dal modo in cui viene prodotto, l’idrogeno può rappresentare una soluzione energetica sostenibile e può andare ad affiancare o a sostituire fonti energetiche che hanno un maggiore impatto sull’ambiente.

A novembre 2020 il ministero dello sviluppo economico ha pubblicato le linee guida preliminari della Strategia Nazionale Idrogeno, in cui vengono sintetizzati gli obiettivi, e le mosse per raggiungerli, a cui mira questa soluzione energetica nel percorso di decarbonizzazione concordato con l’Europa. Il Recovery Plan o Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha assorbito i contenuti di questo documento e di altri, come il Piano Nazionale di Intesa per l’Energia e il Clima (PNIEC) che a gennaio 2020 è stato trasmesso a Bruxelles.

Gli obiettivi programmatici sono quelli di ottenere il 2% circa della penetrazione dell’idrogeno nella domanda energetica entro il 2030, fino a 5 GigaWatt per una riduzione delle emissioni di 8 Mton di CO2 equivalente, e di far salire questa percentuale al 13 – 14% entro il 2050, arrivando fino al 20%

Sono previsti investimenti fino a 10 miliardi di euro nella filiera dell’idrogeno, tra produzione (5 – 7 miliardi), strutture di distribuzione e consumo (stazioni di rifornimento e mezzi, 2 – 3 miliardi) e ricerca e sviluppo di tecnologie (1 miliardo circa). Un tale contributo potrebbe portare alla creazione di 200.000 posti di lavoro temporanei e 10.000 fissi, per un apporto di 27 miliardi di euro al Pil nazionale.


Fonte: MISE, Strategia Nazionale Idrogeno, Linee Guida Preliminari, novembre 2020.

Con Nicola Armaroli, direttore di ricerca dell’Istituto ISOF (Istituto per la Sintesi Organica e Fotoreattività) del CNR di Bologna e direttore della rivista SapereScienza, abbiamo provato a capire come l’idrogeno possa andare ad inserirsi nel paniere energetico attuale, in quali settori possa dare un contributo decisivo e quali suoi utilizzi sarebbe invece bene evitare.

L’idrogeno è una soluzione promettente per i trasporti pesanti come camion a lungo raggiotreni passeggeri e navi, dove assieme ai biocarburanti potrebbe andare a sostituire progressivamente il diesel. È promettente anche per alcuni settori dell’industria pesante come la siderurgia e il petrolchimico, dove andrebbe a sostituire il carbone attualmente utilizzato. Si tratta dei settori cosiddetti hard-to-abate, ovvero caratterizzati da un’alta intensità energetica e dalla mancanza di soluzioni scalabili di elettrificazione.

Meno promettente invece è l’idrogeno per i trasporti leggeri, dall’automobile in giù fino alla bicicletta, in quanto l’elettrico si sta dimostrando, tra quelle green, la soluzione di gran lunga più competitiva e difficilmente sostituibile. Allo stesso modo non sembrerebbe vantaggioso in termini di impatto ambientale pensare a un utilizzo dell’idrogeno per il riscaldamento degli edifici, nonostante si stia discutendo di un utilizzo della rete del gas come infrastruttura in cui miscelare una percentuale di idrogeno.

Tuttavia il punto chiave è che esistono diversi tipi di idrogeno: verde, prodotto da energie rinnovabili come l’elettricità ottenuta dal fotovoltaico; blu, prodotto partendo dal metano e intrappolando la CO2 di scarto nel sottosuolo; grigio, ottenuto dal petrolio, dal gas naturale o dal carbone senza che la CO2 di scarto venga intrappolata; viola, se ottenuto utilizzando energia nucleare. Di tutte queste tipologie solo alcune sono veramente sostenibili in termini di emissioni di gas climalteranti e impatto ambientale. Altre vengono solo fatte passare per soluzioni green.

“C’è un convitato di pietra che campeggia sulla discussione sull’idrogeno, che è il cosiddetto idrogeno blu” sostiene Armaroli. “Vuol dire partire dal metano, e la CO2 che si ottiene viene stoccata nel sottosuolo. Questa è la prospettiva che le grandi aziende energetiche europee e mondiali propongono dicendo che si può fare. In realtà noi siamo indietrissimo con lo stoccaggio della CO2 e tutti i progetti di stoccaggio della CO2 di grandi dimensioni nel mondo sono andati incontro, nelle ultime settimane uno in Texas e uno in Australia, a grandissimi fallimenti. Quindi la prospettiva dell'idrogeno blu non c'è al momento, non ci sarà per lunghissimo tempo e forse non ci sarà mai. L'unica strada è l'idrogeno verde da fonti rinnovabili”.

Secondo Armaroli l’utilizzo più proficuo che si può fare dell’idrogeno vede un sodalizio tra quest’ultimo ed elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Ma “per produrre idrogeno verde in quantità significativa dovremmo avere un enorme surplus di elettricità rinnovabile che al momento non abbiamo” sottolinea. “Se vogliamo arrivare all'idrogeno nel trasporto pesante ad esempio dobbiamo incrementare enormemente la produzione dell’elettricità rinnovabile, in particolare il fotovoltaico che si presta perfettamente, perché nei picchi giornalieri produco idrogeno, poi lo tengo lì nei grandi centri di produzione e magari la sera quando tornano gli autobus li riempio. Lo stesso vale per l’industria pesante. In Italia le fonti rinnovabili coprono già quasi il 40% della domanda elettrica, ma dovremmo quintuplicarla per fare in modo di avere un eccesso di energia elettrica con cui produrre l’idrogeno di cui abbiamo bisogno e che sarebbe sicuramente una buona prospettiva”.

Nonostante le tecnologie per spingere sull’elettrificazione ci siano, le grandi aziende energetiche dispongono di una quantità di gas naturale e metano a cui non sono disposte a rinunciare facilmente. Pertanto spingono in direzione dell’idrogeno blu, ottenuto dal metano, che in realtà potrebbe essere, secondo Armaroli, idrogeno grigio, perché sono ancora molto limitate le capacità di sequestrate e mettere nel sottosuolo l’anidride carbonica. “C'è una grande spinta da parte delle aziende private – ma è normale, è un lobbysmo normale, io non mi scandalizzo di questo – per fare in modo di continuare a utilizzare metano, consapevoli che non potranno bruciarlo in eterno. Tentano allora di usarlo in un altro modo, e a rivenderlo dandogli una patina verde come materia prima per produrre idrogeno. Ecco secondo me questa è una classica operazione di greenwashing, perché non possiamo pensare di risolvere i problemi che abbiamo creato con le strategie che abbiamo utilizzato finora per creare questi problemi stessi: il metano è una componente del problema che abbiamo adesso, non possiamo continuare a usare metano, bisogna cambiare radicalmente”.

Armaroli ha le idee chiare a riguardo: “Il punto è uno solo: buona parte degli idrocarburi che noi sappiamo già esserci, trovati da qualche parte, devono rimanere dove sono, non devono venire estratti. Bisogna completamente cambiare logica. Vogliamo produrre idrogeno? Dobbiamo farlo unicamente con fonti rinnovabili altrimenti noi non ne usciamo. Abbiamo fretta, abbiamo clamorosamente fretta. Come sottotitolo del mio libro “Emergenza energia” che ho scritto l’anno scorso, ho messo “non abbiamo più tempo”. Dobbiamo fare le cose che sappiamo fare: gli elettrolizzatori sono già a buon punto, andiamo avanti lì. L’elettrificazione la sappiamo fare, andiamo avanti lì. L'efficientamento lo sappiamo fare, andiamo avanti lì”.

Nicola Armaroli, Emergenza energia - non abbiamo più tempo, edizioni Dedalo, 2020

Di seguito proponiamo la trascrizione dell’intervista completa a Nicola Armaroli.

Professor Armaroli, partirei dalle basi: che cos’è l’idrogeno, inteso non come elemento della tavola periodica ma come soluzione energetica? Che caratteristiche ha, come si produce, quali e quante tipologie di idrogeno ci sono e che impatto ambientale hanno?

L’idrogeno di cui si parla quando si parla di energia è l'idrogeno molecolare, la molecola H2. L'idrogeno è l'elemento più abbondante nell'universo però nella sua forma molecolare almeno in questo angolo di universo che si chiama Terra praticamente non esiste. Di idrogeno ce n’è ovunque, attaccato gli idrocarburi, nel nostro corpo, nella materia organica, ma è un elemento molto socievole e tende ad attaccarsi ad altri atomi, al carbonio, all'ossigeno, all’azoto.

Quello che ci serve però è l’idrogeno molecolare, che però non c’è e quindi deve essere fatto. Pertanto l'idrogeno non è una fonte di energia ma è un cosiddetto vettore energetico, cioè qualcosa che io posso fare per immagazzinare l'energia e trasformarla da una forma all'altra. Per esempio se ho degli eccessi e di energia rinnovabile posso pensare di usare questa energia per produrre l'idrogeno scindendo l'acqua, H2O, da cui estraggo l’idrogeno (il processo si chiama elettrolisi, ndr), mentre l’ossigeno lo posso rilasciare in atmosfera o comunque riutilizzare.

Il fatto è che oggi l'idrogeno per lo più non lo facciamo così, purtroppo lo estraiamo tipicamente da un'altra molecola, il CH4, cioè il metano, e così si produce CO2 che viene rilasciata in atmosfera. Più del 95% dell’idrogeno prodotto attualmente viene prodotto in questo modo: principalmente dal metano, ma anche talvolta dal petrolio o dal carbone, con l'utilizzo del vapore acqueo e dei catalizzatori. Processi di questo tipo hanno un enorme impatto sull'ambiente.

Ad esempio la produzione di ammoniaca, una molecola fondamentale per produrre fertilizzanti quindi per farci mangiare tutti quanti, richiede la produzione di idrogeno, che poi viene mescolato all'azoto dell’aria ottenendo ammoniaca. Anche in questo caso la produzione di idrogeno è ottenuta partendo dagli idrocarburi e quindi rilasciando emissioni.

Quindi questa non è la strada, perché noi abbiamo il grande problema che produciamo troppa CO2 e stiamo mandando in pallino la termoregolazione del pianeta. Bisogna cambiare strada. L’idrogeno di cui ho parlato finora, quello ottenuto da metano, viene tipicamente chiamato idrogeno grigio. Poi ci sono altri colori, quello da carbone viene chiamato idrogeno marrone, colori i brutti, che richiamano diciamo non la primavera, come invece l’idrogeno verde, cioè prodotto da fonti rinnovabili e in particolare da elettricità rinnovabile. Per produrre idrogeno verde si utilizzano degli elettrolizzatori, cioè le macchine che prendono energia elettrica prodotta da fotovoltaico, eolico, geotermico, idroelettrico e producono idrogeno dall'acqua, tramite elettrolisi. Non c’è carbonio di mezzo e quindi non c'è produzione di gas climalteranti. Questa è la direzione verso cui andare.

Poi c'è anche l'idrogeno viola che è quello ottenuto con l’energia nucleare: è prodotto sempre a partire dall’acqua solo che l’elettricità utilizzata dagli elettrolizzatori viene da centrali nucleari.

Infine c'è una soluzione ibrida, il convitato di pietra che campeggia sulla discussione sull’idrogeno, che è l’idrogeno cosiddetto blu. Vuol dire utilizzare il metano, quindi non acqua, e la CO2 che si ottiene viene stoccata nel sottosuolo.

Questa è la prospettiva che le grandi aziende energetiche europee e mondiali propongono dicendo che si può fare. In realtà noi siamo indietrissimo con lo stoccaggio della CO2 e tutti i progetti di stoccaggio della CO2 di grandi dimensioni nel mondo sono andati incontro nelle ultime settimane, uno in Texas e uno in Australia, a grandissimi fallimenti.

Quindi la prospettiva dell'idrogeno blu non c'è al momento, non ci sarà per lunghissimo tempo e forse non ci sarà mai. L'unica strada è l'idrogeno verde da fonti rinnovabili.

Dopo questa tassonomia dell’idrogeno, molto colorata, le chiederei per quali impieghi è pensato l’idrogeno?

L’idrogeno ha tre potenziali impieghi. Il primo, che è il più banale di tutti e che io scarterei a priori, è quello della combustione: noi possiamo bruciare idrogeno esattamente come facciamo col metano. Siccome il metano ce lo troviamo già bello e pronto nel sottosuolo mentre l'idrogeno ce lo dobbiamo fare, utilizzare l'idrogeno per bruciarlo sarebbe una follia dato che viene prodotto con tutta questa fatica e processi di inefficienza intrinseci. La cosa che noi dobbiamo mettere in cima ai piani del Green Deal dell’Unione Europea è smettere di bruciare il più possibile: dobbiamo uscire dalla logica delle combustioni, perché i motori a combustione sono i più inefficienti di tutti. Per fare l’esempio classico di un'automobile, su 100 unità di energia che entrano nel serbatoio 80 mediamente vengono sprecate in calore perché abbiamo un motore inefficiente. Mentre con l’elettrico la situazione è ribaltata: su 100 unità di energia in una batteria, 80 unità di energia vanno alle ruote, solo 20 vengono sprecate complessivamente nel ciclo.

Il secondo possibile impiego è quello di fare elettricità, cioè noi produciamo elettricità da fonti rinnovabili, con questa produciamo idrogeno dall’acqua e l’idrogeno e lo andiamo a mettere ad esempio in una cella a combustibile. Le celle a combustibile sono quei dispositivi che stanno nelle autovetture a idrogeno, poco diffuse, che convertono idrogeno in elettricità, cioè scindono l'idrogeno nel protone (lo ione H+) e nell’elettrone. Quest’ultimo circola esternamente nel circuito esterno e va ad alimentare il dispositivo, che sia automobile o un telefono, mentre il protone va a combinarsi con l’ossigeno e genera acqua. Le fuel cells hanno un’ottima efficienza quindi questa è una soluzione desiderabile.

Poi c’è la terza che sarebbe molto importante, anzi importantissima in prospettiva, che è quella di utilizzare l’idrogeno nell’industria pesante, ad esempio nelle acciaierie che utilizzano attualmente carbone per scindere in qualche modo il ferro dall'ossigeno: bisogna fare la riduzione del ferro, si dice così. Adesso utilizziamo carbone del per ridurre gli ossidi di ferro, ma un domani potremmo utilizzare idrogeno per fare esattamente la stessa cosa dal punto di vista chimico. È possibile dunque un utilizzo massiccio dell’idrogeno verde nell’industria pesante per decarbonizzarla.

Mi soffermerei sui motori a celle a combustibile, che hanno un’applicazione nei trasporti. L’idrogeno in che modo potrebbe inserirsi come carburante nel settore dei trasporti?

Sicuramente non per il trasporto leggero, intendo automobili, moto e biciclette, perché in quel settore c'è già un concorrente formidabile che è la mobilità elettrica. Non è assolutamente pensabile che l’idrogeno possa competere dalle auto in giù verso il monopattino con l'elettrico. Le ragioni sono molteplici. La prima è che l'elettricità ha già una rete di distribuzione presente ovunque. Possiamo caricare un automobile in garage. La rete di distribuzione dell’idrogeno non esiste. Un altro motivo è l’efficienza. Se io prendo 100 unità di elettricità rinnovabile e devo far funzionare un auto elettrica nei vari passaggi io ho un po' di perdite però di 100 unità di energia elettrica prodotta dal pannello fotovoltaico alla fine 77 di queste unità arrivano a muovermi le ruote di un’auto elettrica. Se faccio la stessa operazione con un auto a idrogeno, supponiamo di avere pannello fotovoltaico, elettrolizzatore che me lo produce dopodiché idrogeno va nell'auto dove deve essere compresso a 700 atmosfere, va nella cella combustibile e finalmente produce elettricità che va a muovere le ruote, in quel caso dalle 100 unità iniziali me ne arrivano 30, meno della metà di quelle della batteria. È assolutamente impensabile e irrazionale pensare di utilizzare l’idrogeno per la mobilità leggera.

Quando però passiamo al trasporto pesante la situazione cambia radicalmente. L’idrogeno può essere una prospettiva. Per trasporto pesante intendo camion, autobus, navi perché posso pensare di produrlo in grandi centri localizzati come porti, grandi parcheggi di autobus, In modo tale da produrlo lì con fonti rinnovabili e distribuirlo lì senza bisogno di rete di distribuzione. La cosa importante in questo settore è che gli autobus, i camion, le navi fanno percorsi definiti tipicamente mentre io con l'auto onestamente non so dove andrò fra qualche giorno, probabilmente da nessuna parte perché sono in zona rossa da domani.

Facendo grandi centri produzione, evitando la rete distribuzione per far arrivare l’idrogeno in casa di tutti che è costosissimo, posso pensare di utilizzarlo. Le prospettive che io vedo sul trasporto pesante a lungo termine non domattina possono essere interessanti. Fermo restando che per produrre idrogeno in quantità significativa dovremmo avere un enorme surplus di elettricità rinnovabile che al momento non abbiamo. di un momento non abbiamo. Quindi se vogliamo arrivare all'idrogeno nel trasporto pesante dobbiamo incrementare enormemente la produzione dell’elettricità rinnovabile, in particolare il fotovoltaico che si presta perfettamente perché nei picchi giornalieri produco idrogeno poi lo tengo lì nei grandi centri di produzione e magari la sera quando tornano gli autobus li riempio.

Lo stesso vale per l’industria pesante. In Italia le fonti rinnovabili coprono già quasi il 40% della domanda elettrica, ma dovremmo quintuplicarla per fare in modo di avere un eccesso di energia elettrica con cui produci l’idrogeno di cui abbiamo bisogno e che sarebbe sicuramente una buona prospettiva.

Un aspetto critico che ha evidenziato riguarda la rete di distribuzione dell’idrogeno. Come si pensa verrà strutturata la filiera dell’idrogeno, dalla produzione allo stoccaggio, passando per il trasporto e dunque per la rete di distribuzione?

Attualmente la filiera dell’idrogeno è molto semplice: quasi tutto l’idrogeno prodotto nel mondo viene utilizzato in loco, proprio perché il trasporto dell'idrogeno è un problema. Dove sta il problema? L’idrogeno è la molecola più piccola dell'universo, ha una capacità molto spiccata di andarsi a intrufolare negli interstizi delle strutture metalliche delle condotte attraverso i quali passa. Il materiale con cui si devono fare questi condotti è un acciaio molto particolare. Il costo di quest’acciaio con gli standard di sicurezza e di produzione attuale sarebbe assolutamente proibitivo. Se noi dovessimo pensare di fare una rete dell'idrogeno distribuita quanto la rete del metano, che va dai giacimenti in Siberia o in Algeria a casa nostra, avremo un costo ripeto proibitivo.

Sento dire in giro che per il trasporto dell’idrogeno si pensa a utilizzare la rete esistente del gas. Qui bisogna essere molto chiari e onesti. Finché io penso di utilizzare un mix del 10%-20% può darsi che i metanodotti più nuovi e più controllati possano reggere. Però in questa operazione l’idrogeno lo userei per bruciarlo, che è la cosa più stupida, l'ho già detto prima: non posso fare tutta questa fatica per andare a bruciare l’idrogeno. il futuro del riscaldamento non sono le caldaie che bruciano metano o idrogeno, sono le pompe di calore elettriche, l’elettrificazione del riscaldamento, ed è questo che dobbiamo fare in ottica Recovery Plan, ed è questo che la classe politica si deve mettere in testa. Basta metano, è una strada senza fine, nel senso che non ci porta da nessuna parte. Anche perché il metano ha questo problema ignorato largamente che nel suo cammino dalla Siberia a casa nostra ha varie fasi di perdita e queste perdite non sono minimamente considerate. Sono stati fatti recentemente degli studi negli Stati Uniti, in alcune città Boston, dove si vede che le perdite della rete del gas sono molto più elevate di quello che si pensava. E il problema è che il metano è un gas serra decine di volte più climalterante della CO2 e quindi alla fine il guadagno che io ho a bruciare metano al posto del carbone me lo gioco completamente nel metano che perdo in atmosfera e va a creare effetto serra da solo, di per sé, incombusto.

Quando puoi sento dire che arriveremo a mescolare idrogeno al 50% con il gas, questa è una cosa che non si può ascoltare. Addirittura qualcuno dice utilizzare i metanodotti ad esempio il Transmed che è stato posato 45 anni fa e pensare di utilizzare 100% idrogeno con un’infrastruttura vecchia di decenni è una cosa che francamente non si può ascoltare. Vuol dire non conoscere o far finta di non conoscere gli standard di sicurezza delle condotte. Il problema è che nessuno vuole pagare e allora ci raccontiamo che possiamo usare una rete esistente. Questa è una prospettiva che non ci porta da nessuna parte.

Chi sta investendo sull’idrogeno?

Ci sono delle coalizioni, chiamiamole così, di idrogeno che coinvolgono grandi aziende di produzione e distribuzione europea. C’è n’è una di cui fa parte anche la Snam che ha prodotto anche dei report per l'Unione Europea, perché è importante che il cittadino sappia che il rapporto che parla delle prospettive dell’idrogeno in Europa è stato prodotto da aziende di consulenza private, una delle quali è diretta emanazione di Engie, la più grande azienda energetica francese. Questi report della Commissione Europea non è che sono asettici, la Commissione Europea chiama degli esperti, capita anche a me, in questo caso il report è stato fatto da aziende private. Quindi c'è una grande spinta da parte delle aziende private, ma è normale, è un lobbysmo normale, io non mi scandalizzo di questo, per fare in modo di continuare a utilizzare metano consapevoli che non potranno bruciarlo in eterno tentano di usarlo in un altro modo, ovvero rivenderlo dandogli una patina verde come materia prima per produrre idrogeno. Ecco secondo me questa è una classica operazione di greenwashing, perché non possiamo pensare di risolvere i problemi che abbiamo creato con le strategie che abbiamo utilizzato finora per creare questi problemi stessi: il metano è una componente del problema che abbiamo adesso, non possiamo continuare a usare metano, bisogna cambiare radicalmente. A un certo punto quando i problemi diventano insormontabili bisogna cambiare radicalmente logica. È difficile, è costoso, è uno sfinimento, ma bisogna farlo. Non fossilizziamoci sull’idrogeno blu perché tecnicamente non si può fare.

Tipicamente quello che si fa oggi, che è una follia, è di utilizzare la CO2 per fare il cosiddetto recupero secondario del petrolio. La CO2 va nel sottosuolo, dove ho un gas che non mi serve niente, lo nascondo sotto il tappeto. È chiaro che dal punto di vista del business questa cosa non può stare in piedi, lo capisce anche un bambino di 5 anni. Allora le aziende, con i pochi impianti che ci sono, lo spingono nel sottosuolo dentro delle rocce porose che ospitavano inizialmente petrolio o gas per far uscire più petrolio e gas: si chiama inhanced recovery degli idrocarburi. Ecco io faccio tutta questa fatica, mi costa energia, attenzione, mettere CO2 nel sottosuolo a 2500 metri di profondità come fanno a Gorgon in Australia nell'impianto che è stato chiuso 3 settimane fa.

Quindi io faccio tutta questa operazione per andare a tirar fuori del petrolio e del gas per bruciarli e produrre altra CO2, è una follia. Poi ci sono altri problemi nel mettere la CO2 nel sottosuolo: nessuno può garantire la tenuta del tappo geologico, se me ne esce anche l’1% all’anno in 100 ani l’ho rimessa tutta in atmosfera. Il problema della CO2 è già su scala secolare, prima che il ciclo del carbonio se la mangi passeranno secoli e secoli.

Inoltre quando si va a iniettare CO2 nel sottosuolo è in forma fluida supercritica e quindi ha le caratteristiche per andare, semplifico, a lubrificare delle faglie. Bisogna fare attente considerazioni dal punto di vista sismico. E quando mi vengono a parlare di iniettare la CO2 nel sottosuolo dell'Emilia-Romagna e dell'Adriatico che sono zone notoriamente sismiche mi si gela il sangue.

Il punto è uno solo ed è stato detto e ridetto. Buona parte degli idrocarburi che noi sappiamo già esserci, trovati da qualche parte, devono rimanere dove sono. È inutile spendere energie mentali economiche, e energia vera e propria, per continuare a incaponirci sulla CO2. Bisogna completamente cambiare logica. Vogliamo produrre idrogeno? Dobbiamo farlo unicamente con fonti rinnovabili altrimenti noi non ne usciamo mai da questo problema.

La soluzione che lei caldeggia è l’idrogeno verde, ottenuto con elettrolizzatori a partire dall’acqua. A che punto è la ricerca e lo sviluppo degli elettrolizzatori?

Noi eravamo coinvolti come gruppo di ricerca in un consorzio che c'è ancora e che si chiamava Sunrise e adesso si chiama Sunergy, dove c’erano tante aziende tra cui ad esempio la Siemens. La tecnologia è già abbastanza avanzata. Uno dei problemi della tecnologia è che l’elettrolizzatore non ama molto il fatto dell'intermittenza, uno dei fattori da considerare quello. Però certamente la tecnologia degli elettrolizzatori è enormemente più avanti della tecnologia che non porta nessuna parte del sequestro di CO2. Sicuramente entro i prossimi 10 anni possiamo avere un dispiegamento di elettrolizzatori molto interessante in Europa anche e soprattutto di produzione europea perché l’Europa è molto avanti con questa tecnologia, in modo tale che si riesca a gestire la produzione intermittente e si riesce a gestire in grandi centri produttivi l’idrogeno e fare idrogeno verde. Questa è un'ottima soluzione.

Aggiungo una cosa importante: abbiamo poco tempo per agire. L'Unione Europea dice che al 2030 vuole abbattere le emissioni del 55% rispetto al 1990, cioè nei prossimi 10 anni dovremo fare meglio, per abbattimento di CO2, di quanto non abbiamo fatto negli ultimi 30 anni. E nel 2050 la neutralità climatica. Abbiamo fretta, abbiamo clamorosamente fretta. Come sottotitolo del mio libro “Emergenza energia” che ho scritto l’anno scorso, ho messo “non abbiamo più tempo”. Dobbiamo fare le cose che sappiamo fare: gli elettrolizzatori sono già a buon punto, andiamo avanti lì. L’elettrificazione la sappiamo fare, andiamo avanti lì. L'efficientamento lo sappiamo fare, andiamo avanti lì. Facciamo in fretta e tantissimo le cose che sappiamo fare e finanziamo la ricerca su quelle che non sappiamo ancora fare, ad esempio le varie tecnologie di sequestro della CO2 ce ne sono di più intelligenti rispetto a iniettare la CO2 nel sottosuolo.

ilbolive.unipd.it

Armaroli: l'idrogeno verde è una soluzione energetica sostenibile, ma attenzione al greenwashing.



Nel Recovery Plan si dà importanza all’idrogeno come soluzione energetica, ma il suo impatto ambientale varia molto a seconda di come viene prodotto. Secondo Nicola Armaroli, l’unico idrogeno sostenibile è quello verde ottenuto da fonti rinnovabili, mentre grandi aziende energetiche sembrano puntare a soluzioni solo apparentemente sostenibili. Servizio di Francesco Suman Montaggio di Elisa Speronello Leggi l'articolo sul sito de Il Bo Live: https://ilbolive.unipd.it/it/news/idr...

La Sicilia devastata dagli incendi dolosi nel silenzio generale: così la transizione ecologica è a rischio. - Stephanie Brancaforte

 

Oltre 400 incendi in Sicilia nelle ultime due settimane. Domenica 4 luglio 2021 l’area industriale di Melilli è stata distrutta dalle fiamme, che hanno rischiato di raggiungere anche un oleodotto e che hanno portato su Siracusa un pesante fumo nero e una pioggia di cenere.

Nella Sicilia sud-orientale, aree residenziali, uliveti e agrumeti sono stati incendiati. Alcuni tratti autostradali si sono trasformati in muri di fuoco. Grandi distese di grano sono state date alle fiamme.

Le città e i territori della Sicilia sono sotto aggressione continua, con attacchi che, per la frequenza e i luoghi, sembrano guidati da strategie criminali che stanno impoverendo sempre più il territorio.

Nel 2021 la situazione è notevolmente peggiorata, e gli incendi sono stati appiccati intenzionalmente in tutta l’isola. Ma ciò che è stato preso di mira più intensamente è stata la rete di riserve, parchi e oasi naturali.

Lunedì 5 luglio sono stati incendiati i preziosi pantani Granelli, all’estremità meridionale della Sicilia, gettando nel panico e nella confusione fenicotteri e uccelli migratori. Chissà quanti nidi di uccelli protetti sono andati in fumo con la distruzione del loro habitat. E assieme a loro migliaia di ore di impegno di chi ha voluto proteggere queste specie ed ecosistemi.

La riserva naturale della Valle dell’Anapo, che ospita le necropoli di Pantalica (risalente all’età del bronzo), patrimonio dell’umanità designato dall’Unesco, è bruciata per giorni: una notizia che avrebbe dovuto avere risonanza internazionale.

Le riserve naturali di Cava Grande del Cassibile e della Valle dell’Anapo sono annoverate tra i principali gioielli del costituendo Parco Nazionale degli Iblei, un progetto inviato a dicembre 2020 al Ministero dell’Ambiente e non ancora finalizzato e approvato. Oltre 12mila persone chiedono l’istituzione immediata del Parco Nazionale degli Iblei, per permettere maggiori tutele e la valorizzazione di queste zone importanti.

Ad oggi l’unico parco nazionale in Sicilia è il Parco Nazionale di Pantelleria, istituito proprio dopo una lunga serie di roghi.

È difficile esprimere a parole la sensazione di disperazione e panico che attanaglia molte parti della Sicilia. Sembra come se tutto fosse in fiamme o a rischio di incendio doloso.

Con il Movimento Antincendio Ibleo, che aiuto a coordinare, ci rendiamo conto che qualcuno sta cercando di terrorizzarci, letteralmente. Infatti, una petizione chiede proprio di definire gli incendi dolosi come atti terroristici.

Non sappiamo dove colpiranno i piromani, oppure lo possiamo intuire, ma mancano le forze per sorvegliare e proteggere le riserve a rischio. In molti casi non sappiamo chi siano o quale sia il loro movente, ma sentiamo di essere nelle mani di una grande conspiracy, una cospirazione della terra bruciata.

Le nostre istituzioni sono state assenti e incompetenti – forse complici – mentre gli incendi infuriavano. Un vero e proprio ecocidio delle zone con più biodiversità d’Europa, che mette a rischio la sopravvivenza di specie animali e vegetali, alcune delle quali uniche in queste zone.

A Pantalica la terra stessa bruciava, consumando le radici. C’è qualcosa nel sottosuolo che non possiamo vedere, che consuma quest’isola e mette in pericolo il suo presente e il futuro.

Gli incendi che attraversano la Sicilia sono più frequenti e più gravi di quanto non abbiamo mai visto prima, e come attivisti ci chiediamo quale mano malvagia potrebbe causare questa devastazione. Chi li sta appiccando, e perché?

Ci sono diverse teorie, e fino a quando le varie autorità giudiziarie non investiranno nelle inchieste approfondite, non si potrà dare una risposta certa.

Stando a una prima teoria, in certe zone della regione la mafia dei pascoli sta cercando di impossessarsi di aree per sfamare le mucche. Fanno uso sistematico degli incendi ai fini di pascolo, senza alcun rispetto per i suoli, soggetti così ad erosione e conseguente depauperamento della Macchia mediterranea e a quello – estremo – della gariga, ultima difesa dalla desertificazione. Operano sotto gli occhi di tutti ma non sono ancora stati fermati. E terrorizzano la gente, nonostante le innumerevoli denunce. Si può ipotizzare che solo la presenza dell’esercito possa essere l’unica, valida, estrema soluzione.

Secondo altre ricostruzioni, i campi di grano vengono dati a fuoco in certi territori quando i proprietari non pagano il pizzo. Terza teoria sull’origine dei roghi: i mezzi aerei di spegnimento (inclusi i famosi Canadair) sono gestiti da privati, una situazione che favorirebbe incentivi perversi e sprechi di denaro pubblico. Si dovrebbe passare alla gestione pubblica, come chiesto da 8mila persone.

C’è poi una quarta ipotesi che potrebbe spiegare l’aggressione sistemica alle riserve naturali. Da vari anni si vocifera della privatizzazione della gestione di parchi, riserve, oasi ecc… Insomma, della gestione del demanio pubblico a favore degli appalti ai privati.

Nulla vieta che questo disegno implichi anche la diffusione di fuochi, a fronte dei quali la Forestale si trova in difficoltà. Ma, invece di potenziare, ammodernare e riqualificare il pubblico, si pensa alla privatizzazione totale del bene comune, cosa che sicuramente aggraverebbe la gestione della situazione in materia di prevenzione e spegnimento degli incendi. I soldi del Pnrr sarebbero poi richiesti per potenziare questa forza privata.

Una quinta teoria attribuisce l’origine degli incendi ad alcuni dipendenti precari stagionali della Forestale, addetti alle pulizie e alle opere boschive e strutturali dei terreni demaniali, nonché addetti allo spegnimento (in realtà la Forestale in Sicilia è nata anni Sessanta per motivi occupazionali). Gli incendi precoci (marzo-giugno), infatti, potrebbero spingere la Regione ad anticipare le assunzioni, che avvengono di norma dopo l’approvazione – sempre tardiva – del bilancio regionale. Alcuni anni fa ci sono state condanne per flagranza di reato in merito.

In certi casi, l’incendio “scappa” a chi brucia frasche per “pulire” il terreno, anche se ci sarebbero modi per valorizzare invece di bruciare i resti agricoli. Chiaramente l’incuria del territorio e la mancanza di prevenzione tempestiva, come la non assunzione regolare dei forestali, ha favorito e continua a favorire gli incendi.

Non c’è dubbio che gran parte di questi roghi siano dolosi. Non a caso, spesso divampano in zone molto difficili da raggiungere per i Vigili del fuoco. Sono pianificati ed eseguiti per causare il massimo danno.

È difficile descrivere la profonda tragedia del perdere una valle con biodiversità unica e alberi maturi. L’ecocidio su vasta scala in Sicilia non solo continua senza sosta, ma prosegue nel silenzio quasi generale.

Sappiamo tutti che, se non ci uniamo adesso per agire, presto vivremo in un deserto che sarà economicamente assai meno vivibile, avrà meno biodiversità, attirerà meno i turisti e sarà meno ospitale per noi stessi e per le future generazioni.

Noi del Movimento Antincendio Ibleo siamo oltre 170 persone che vigilano sul territorio, alcune delle quali sono attive anche personalmente nello spegnimento degli incendi, me compresa. Nel nostro movimento affermiamo che “spegnere gli incendi è già un fallimento”. Dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla prevenzione, sullo sviluppo della cultura del rispetto e sulla crescita del nostro ecosistema comune.

I movimenti in Sicilia sono stati estremamente attivi quest’anno – scrivendo esposti e lettere, facendo comunicati e flash mob. Ma il governo regionale ancora non ha risposto alle numerose sollecitazioni della cittadinanza.

Può sembrare strano che in Europa nel 2021 le persone imparino a combattere gli incendi con mezzi rudimentali come il battifuoco. E in effetti è davvero strano, ma siamo in una situazione straordinaria, che richiede una mobilitazione fisica più organizzata.

Nelle ultime settimane i volontari sono intervenuti dozzine di volte, aiutando a spegnere fino a cinque o sei grossi incendi in un giorno. Spesso hanno controllato le fiamme fino a quando i mezzi di spegnimento ufficiali potevano arrivare sulla scena.

Non si può pensare a una transizione ecologica in una terra bruciata. Abbiamo bisogno di un servizio forestale gestito bene, che possa proteggere i beni pubblici con le attrezzature necessarie. Il Parco Nazionale degli Iblei andrebbe costituito al più presto: sarebbe un risultato concreto per il governo nazionale.

La gente esige che questo sia l’ultimo anno in cui accadano simili devastazioni. Vogliamo dedicare i nostri sforzi al rimboschimento e alla rinascita della nostra terra con la cooperazione di tutti gli abitanti di questa isola.

TPI

La destra dei 2 Matteo fa muro. E il Pd di Letta va a schiantarsi. - Wanda Marra e Giacomo Salvini

 

Non è ancora arrivato in aula a Palazzo Madama il ddl Zan ed è già iniziata la corsa a trovare i colpevoli per il suo fallimento. Sì, perché nella maggioranza non c’è accordo e non c’è neanche davvero la volontà di trovarlo. Ieri il Senato ha votato per la calendarizzazione il 13 luglio, dopo che ogni tentativo di mediazione è fallito.

Matteo Renzi si è intestato il dialogo con la Lega per le modifiche, sostenendo di lavorare per salvarlo, lo Zan: ma questo vuol dire rimandare la legge alla Camera, con ottime possibilità che venga affossata definitivamente lì. D’altra parte, senza Iv, i numeri per approvarla non ci sono. Il sospetto è che – davanti a moltissimi voti segreti – non ci sarebbero stati nemmeno prima. Tanto che la convinzione di molti è che anche per i dem sia più importante individuare un responsabile per il suo fallimento, che approvarla.

A farne le spese è Enrico Letta che l’ha scelta come bandiera identitaria e che ancora ieri twittava: “Calendarizzato il DdlZan. Quindi vuol dire che #iVotiCiSono. Allora, in trasparenza e assumendosi ognuno le sue responsabilità, andiamo avanti e approviamolo”. “O così o niente”, è la linea. Che evidentemente mette in conto il fallimento. Perché poi il tema è politico: al Nazareno di consegnare a Renzi l’atout della mediazione non ci pensano proprio. Un po’ per mancanza endemica di fiducia nei suoi confronti, un po’ per evitare di ridargli centralità, con l’elezione del Quirinale all’orizzonte.

Il film della giornata si dipana dentro questo macro-film. In mattinata, il presidente della Commissione Giustizia della Camera, Andrea Ostellari presenta una serie di modifiche che ruotano intorno all’eliminazione delle parole “identità di genere”. Dall’articolo 4, quello con la cosiddetta clausola salva idee (“sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”), Ostellari elimina l’ultimo periodo, quello che comunque vieta espressioni che “determinano il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Profonde modifiche anche all’articolo 7: la giornata nazionale contro “l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, diventa la giornata contro “ogni discriminazione”. E mentre Davide Faraone di Iv si esprime a favore, il Pd fa le barricate. Per dirla con il vice capogruppo, Franco Mirabelli, “non c’è accordo. Si va in aula per votare il calendario”. Sulla stessa linea Monica Cirinnà, che tiene i contatti con le associazioni Lgbt, per condividere anche con loro le scelte. Ma in realtà dentro il Pd serpeggiano i dubbi, sia di chi pensa che si dovrebbe lavorare a una mediazione, sia di chi teme i giochi di Renzi. “Non possiamo lasciarlo a Salvini, in vista del Colle”, si è sentito dire Luigi Zanda.

Nel frattempo, però, si intensificano anche i contatti tra Andrea Marcucci, il capogruppo renziano Davide Faraone e i leghisti Roberto Calderoli e Massimiliano Romeo per arrivare a modifiche condivise. Puntano a un risultato “win-win”: se la legge sarà messa da parte alla Camera Salvini potrà rivendicare di averla affossata, se si arriverà a un accordo, i due Matteo potranno metterci il cappello. Un senatore del centrodestra gongola: “Questa settimana Letta dovrà fare un passo indietro perché senza un accordo la legge va a sbattere”. Tant’è che, inusualmente, interviene anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati: “I gruppi riflettano se prendersi una settimana in più”.

In questo clima, ieri, si è votato il calendario: Lega e Forza Italia chiedono che la legge vada in aula il 20; Pd, M5S e Leu votano contro. Alla fine si va in aula il 13. Martedì prossimo si comincia, risultato a rischio.

ILFQ

mercoledì 7 luglio 2021

Zig-Zag-Zan. - Marco Travaglio

 

Fra i misteri gaudiosi del nostro tempo, uno svetta su tutti: che altro devono fare i due Matteo perché si smetta di prenderli sul serio? Gli elettori, coi loro tempi, sono quasi guariti: il Cazzaro Verde due anni fa era al 40% e ora è sotto il 20 e l’Innominabile sette anni fa era al 40% e ora è al 2 (soglia minima sotto cui è difficile scendere anche volendo, a causa degli effetti indesiderati della legge Basaglia). Ma il problema non sono gli elettori: sono i politici e i giornali che sanno tutto dei due Matteo, ma devono fingere di trattarli come politici normali per consentirne l’uso da parte dei padroni. E continuano a giudicarli con i criteri della logica e della politica anche se sono estranei all’una e all’altra. Prendete la legge Zan. Il Matteo maior, omofobo ma non quanto il suo partito, non la vuole: e, fin qui, nulla di strano. Il Matteo minor, notoriamente refrattario a qualsiasi valore non monetizzabile (per 80mila dollari fa pure la cheerleader del Rinascimento Saudita), finge di volere il dl Zan, che il suo partitucolo ha contribuito a scrivere e ad approvare alla Camera. Siccome però è da tempo passato a destra, ma non osa dirlo perché lì ci sono ancor meno elettori che a sinistra disposti a votarlo, tresca con Salvini per affossare la legge. E si serve dei soliti scudi umani, tipo Scalfarotto (è gay, quindi vale doppio), per stravolgerla a 7 giorni dal voto.

Così, sia che venga bocciata sia che passi stravolta, perde il centrosinistra e vince Salvini (e lui magari fa un altro libercolo per dire che ha vinto lui). Ma, non potendolo confessare, finge di difenderla: “In Senato così com’è non ha i voti: per approvarla bisogna emendarla”. Già, ma se in Senato non ha i voti è solo perché lui ha deciso di far mancare i suoi (anzi quelli dei 18 eletti nel Pd che han voltato gabbana passando a Iv). L’alibi ricorda quello dell’Anonima Sequestri che rapisce un bambino e poi fa sapere ai genitori che, senza riscatto, il piccolo potrebbe non sopravvivere. Ma, come diceva Petrolini al disturbatore in piccionaia, “io non ce l’ho con te: ce l’ho col tuo vicino che non t’ha ancora buttato di sotto”. Il Pd continua a riunirsi con Iv. E da mesi Repubblica ci fa due palle così sul dl Zan e ora, nell’editoriale di Stefano Folli, confessa che non gliene frega nulla: ciò che conta davvero è l’Innominabile, guai se il Pd lo “tiene fuori dalla porta”; urge un “compromesso” con Salvini per evitare “massimalismi” e scongiurare “un rafforzamento del rapporto Pd-M5S”, che va superato in vista di “nuovi scenari”. Tipo una “contaminazione” col “centrodestra con cui peraltro si governa insieme”, cioè una gaia fusione Lega-FI-Pd-Iv. Il tutto sulla prima di Repubblica, unico caso al mondo di giornale di centrodestra letto da gente di centrosinistra che non se n’è ancora accorta.

ILFQ

I “contiani” fanno saltare il blitz del Clan dei Vitalizi. - Ilaria Proietti


Il blitz, o colpo gobbo, che dir si voglia, è fallito. Per il momento. Perché dopo le polemiche deflagrate per la convocazione dell’organismo del Senato chiamato a decidere sulla legittimità del taglio dei vitalizi proprio la sera della semifinale Italia-Spagna, è stato tutto rinviato al prossimo 13 luglio. “I lavori d’aula si sono protratti oltre il previsto”, minimizza il presidente del collegio dei “giudici” interni di Palazzo Madama, il forzista Luigi Vitali. A cui per tutto il giorno sono fischiate le orecchie data la gragnuola di critiche che gli è piovuta addosso. “La verità è che è scoppiato un casino, altro che aula” spiega un papavero del Pd che sceglie di non esporsi.

Ma l’attesa decisione ha fatto scoppiare una grana soprattutto in casa 5 Stelle dove per tutta la mattinata di ieri si è litigato eccome sul che fare in attesa della sentenza, poi slittata all’ultimo momento.

Perché i senatori che si iscrivono tra i contiani sono arrivati a minacciare l’arma di fine mondo: per loro il Movimento 5 Stelle deve esser pronto a uscire dalla maggioranza nel caso in cui al Senato venga confermato il ripristino dei vitalizi e per questo in giornata hanno spinto per dare alle stampe una nota ufficiale in cui si mettessero in chiaro le cose, già prima della sentenza. Per tutta risposta i grillisti hanno accolto la proposta degli emissari dell’ex premier con sospetto per usare un eufemismo: l’accusa è più o meno quella di voler usare la battaglia contro il privilegio della casta, come grimaldello per lasciar intendere che nel Movimento già comanda Giuseppe Conte e che le sue truppe sono pronte a mettere in discussione anche l’appoggio a Mario Draghi. Benvenuti al Senato, un martedì da leoni.

La guerra in corso tra Giuseppe Conte e l’Elevato fondatore manda in fibrillazione gli eletti pentastellati spaccati giusto a metà e non solo sulla faccenda dei vitalizi, ma pure sulla Rai. Una dramma familiare dove ci si guarda in cagnesco che neppure in Kramer contro Kramer, ma non è un film. Un grande macello che inizia di buon mattino a suon di messaggi whatsapp sulla chat del gruppo dove spirano venti di divorzio e intanto volano i calci negli stinchi tra veleni e sospetti reciproci. Sicché anche il che fare rispetto alla imminente sentenza sui vitalizi attesa a Palazzo Madama diventa una questione più grande.

S’ode a destra uno squillo di tromba, con i contiani che la mettono più o meno così: “Mandiamo un avviso ai naviganti forte e chiaro: non si può stare in una maggioranza che spazza via il taglio degli assegni”. A sinistra risponde uno squillo dei beppegrillisti: “Ma che c’entra la maggioranza e Draghi? Questa è una decisione che verrà assunta da un organismo giurisdizionale del Senato. Se usiamo questa minaccia preventiva finiamo per regalare ai giudici della Lega un’arma micidiale: cancelleranno il taglio invocando qualche codicillo e potranno ben dire di non essersi fatti condizionare neppure dalle nostre minacce. E così Salvini ne esce pulito pulito, al massimo tirerà le orecchie ai suoi che gli hanno disobbedito”.

Ma non è tutto perché poi affondano pure il fendente, bersaglio principale Paola Taverna. “Invece di minacciare di far saltare il governo, perché invece non si dimette chi tra noi ha poltrone nell’organo politico di Palazzo Madama ossia il Consiglio di presidenza?”. Un messaggio in bottiglia nemmeno tanto oscuro all’indirizzo della vicepresidente del Senato accusata dai fedelissimi di Beppe Mao di intelligenza con il nemico che poi sarebbe Conte.

La mattinata scivola così: dopo essersela data di santa ragione, i due fronti si sterilizzano a vicenda. Alla fine, intorno all’ora di pranzo, esce una nota comune che non scioglie il vero nodo politico. Chi decide cosa farà il Movimento nel caso in cui il Senato dovesse cancellare il taglio degli odiati vitalizi?

La questione è rinviata di una settimana. Il big bang è il 13 luglio, la stessa data in cui a Palazzo Madama ci sarà la battaglia sul ddl Zan, la legge sui diritti civili. Una giornata campale.

ILFQ

"I biocarburanti dell'Ue hanno causato la deforestazione di un'area grande come l'Olanda".

 

La stessa Commissione europea ha ammesso che il biodiesel derivato dagli oli vegetali di palma e soia inquina dalle due alle tre volte di più rispetto al diesel fossile.

Negli ultimi dieci anni, i biocarburanti voluti dall’Ue per rimpiazzare i combustibili fossili hanno causato la scomparsa di un’area totale di foresta pari alla superficie dell’Olanda e hanno emesso fino a tre volte più CO2 rispetto al diesel che hanno sostituito. Queste le conclusioni poco incoraggianti dello studio condotto da Transport & Environment (T&E), un’organizzazione attiva sui temi della mobilità sostenibile. Il documento mette in evidenza, oltre alle scelte discutibili fatte da Bruxelles, quali sono i Paesi che hanno scommesso di più sui carburanti di nuova generazione. Nel 2020, l’Italia è stata la terza produttrice europea di biodiesel, alle spalle di Spagna e Paesi Bassi, e la quarta per consumi. 

“Nel 2009 - si ricorda nello studio - è stata introdotta la direttiva Ue sulle energie rinnovabili (Red) per promuovere l’uso” delle fonti alternative a quelle fossili “nel settore dei trasporti”. La norma ha obbligato “gli Stati membri, entro il 2020, a rispettare una quota del 10% di energia rinnovabile nel consumo finale di energia dei trasporti”. Tuttavia, tali regole “hanno trascurato le salvaguardie della sostenibilità e non hanno tenuto conto dell'intero ciclo di vita delle emissioni legate alla catena di approvvigionamento del carburante e all'uso del suolo”. In altre parole, “il consumo della gran parte di biocarburanti” ha portato ad “emissioni complessive di gas serra superiori rispetto ai combustibili fossili”. 

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Ad esempio, la domanda di biodiesel dell’Ue ha richiesto la coltivazione di 1,1 milioni di ettari di palme nel sud-est asiatico e di 2,9 milioni di ettari di semi di soia in Sud America. Superfici strappate ai preziosi milioni di ettari di foresta, riconvertita alle monocolture necessarie per le produzione dei carburanti. Il documento di T&E ricorda che nel 2012 e nel 2016 la Commissione europea ha pubblicato due studi che hanno quantificato le emissioni di biocarburanti legate all'uso del suolo. In entrambe le occasioni, l’esecutivo Ue ha ammesso “che quando si prendono in considerazione le emissioni previste per il cambiamento indiretto della destinazione del suolo, tutti i biodiesel a base di olio vegetale comportano più emissioni del diesel fossile”. “Il rapporto più recente - si precisa - ha mostrato che le emissioni sono particolarmente elevate per l'olio di palma e di soia, che causano rispettivamente tre e due volte le emissioni del diesel fossile”.

“Una politica che avrebbe dovuto salvare il pianeta in realtà lo sta distruggendo”, è il commento di Laura Buffet, direttrice energetica di T&E. “Gli sforzi per sostituire i combustibili inquinanti come il diesel con i biocarburanti stanno paradossalmente aumentando le emissioni di anidride carbonica che riscaldano il pianeta”, ha concluso Buffet.

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