martedì 2 novembre 2021

Così è, se vi pare.

 


Loro blaterano, come afferma la Thunberg, ma fanno i loro porci comodi.

Tanto sappiamo benissimo che le regole che dettano valgono solo per noi.

Loro sono i nostri tutori, hanno tutte le necessità derivanti dal ruolo che noi, fessi incalliti, gli abbiamo assegnato.

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WATCH: Sir David Attenborough gives statement at COP26 climate summit in...



In tutto il mondo è un flop. Da noi è il trionfo di Mario. - Tommaso Rodano

 

Una delusione collettiva ma un trionfo individuale. I media mondiali guardano al G20 sul clima e vedono risultati modesti, impegni deboli e poco ambiziosi, la stampa italiana invece vede un successo senza frontiere di Mario Draghi.

Repubblica ha forgiato un nuovo epiteto per il premier italiano: “Il tessitore Draghi”. Così lo definisce nel titolo di pagina 3, nel quale l’ex presidente della Bce esprime tutta la soddisfazione per il bilancio del meeting: “È stato un successo, teniamo vivi i sogni”. Nessuna delusione, si legge nel testo: “Il presidente del Consiglio pensa altro. Ritiene che si tratti di ‘una vittoria del multilateralismo’”. L’articolo del Corriere della Sera è ancora più enfatico. Titolo: “La tattica dell’empatia. Così Draghi ha ‘smosso’ anche Pechino e Mosca e evitato un fiasco finale”. Certo “è stato un compromesso”, spiega il Corsera, come ha dovuto riconoscere lo stesso Draghi “con professione di modestia e sincerità”. È “per i dietro le quinte che pochi conoscono” che “Mario Draghi si dichiara orgoglioso”. È a lui, musa del giornale di via Solferino, che si deve il conio di una nuova categoria giornalistica, a metà tra la psicanalisi e gli affari esteri: Draghi è promotore di “una sorta di empatia geopolitica”. Il premier è anche modesto: “Tutti gli riconoscono di aver gestito il vertice con ottimi risultati e grande competenza. Lui si schermisce: ‘L’autorevolezza dell’Italia dipende da me? No’. E accenna un sorriso”. Il Corriere infine mette le pagelle ai leder del vertice. Mario Draghi? Voto 9. Il Messaggero è quasi visionario: “Draghi: sostanza non bla bla”. Il bilancio è trionfale: “G20 Roma, nuovo corso mondiale e l’Italia guida la svolta”. La Stampa è scissa. Il vertice è andato malino, ma Draghi no. Così il titolo in prima è diviso a metà: “Successo di Draghi, ma spiccioli per il clima”. Ma il bicchiere è mezzo pieno: “Il premier è il faro del dopo Merkel”, sancisce l’editoriale di Alan Friedman.

Una sbronza collettiva, che rende imbarazzante il ritorno alla sobrietà. La stampa internazionale ha raccontato il meeting con entusiasmo appena diverso. Bbc: “Il G20 promette di agire per il clima ma assume pochi impegni”. Guardian: “I paesi poveri della Cop26 preoccupati per i limitati progressi sul clima del G20”. Sommario: “Ora le possibilità di rimanere al di sotto di 1,5 gradi stanno svanendo”. La Cnn definisce “weak” – debole – l’accordo trovato dai leader del G20, aggiunge che c’è “un gap enorme tra le promesse e le azioni”. El Paìs intervista il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Il titolo è esplicito: “Basta trattare la natura come un gabinetto. Stiamo scavando le nostre tombe”. Per Le Monde “gli impegni su cui si sono accordati domenica a Roma (i leader del G20) potrebbero non essere sufficienti per portare un vero vento di speranza alla Cop26”. Secondo Frankfurter Allgemeine Zeitung “I paesi del G20 non riescono a concordare obiettivi climatici ambiziosi”. Per Japan Times “Il G-20 fallisce nel realizzare un progresso climatico, lasciando in salita la strada della Cop26”. Tutto questo, nonostante Mario Draghi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/02/in-tutto-il-mondo-e-un-flop-da-noi-e-il-trionfo-di-mario/6376120/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3VPVfGBX8nugWBVP-JIASjeaqVenN499nssLvsnWOlj6HFNmKkTIdYKpw#Echobox=1635841763

Cop26, “così andiamo verso il disastro”. Ma i leader arrivano con 400 aerei. - Virginia Della Sala

 

GLASGOW - I 120 big litigano sulla data della “neutralità carbonica”. L’India: “Noi nel 2070”. Pechino attacca gli Stati Uniti.

Al termine della prima giornata della Cop26 di Glasgow, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite durante la quale tradizionalmente i Paesi assumono impegni formali (e a volte vincolanti) sul fronte delle politiche climatiche e ambientali, forse le parole che inquadrano meglio la situazione di partenza sono del segretario generale dell’Onu, António Guterres: “C’è un deficit di credibilità – ha detto quasi ammonendo i partecipanti – e un eccesso di confusione sulla riduzione delle emissioni e sugli obiettivi di zero netto, con significati e metriche diverse”. Sono punti fermi da cui partire per interpretare quello che accadrà nei prossimi undici giorni, fino alla conclusione del 12 novembre, e anche per comprendere la situazione attuale.

Il G20 di Roma, che si è concluso domenica e che aveva sul clima un focus rilevante, ha infatti consegnato un comunicato su un traguardo molto debole perché già previsto nell’accordo di Parigi del 2015, ovvero il riconoscimento da parte di tutti del contenimento del riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi entro la fine del secolo invece degli iniziali 2 gradi con vocazione a fare “ogni sforzo possibile” per arrivare a 1,5. La “neutralità carbonica”, ossia il saldo zero tra le emissioni inquinanti emesse e quelle eliminate, si dovrà invece raggiungere “intorno alla metà del secolo”, senza una data precisa. E così, nel suo discorso di apertura, il premier britannico Boris Johnson si rifà alle parole dell’attivista Greta Thunberg e spiega che dal 2015 il mondo ha fatto troppo “bla bla bla” e che il flop di questo summit potrebbe scatenare la “furia del mondo”. Certo l’inizio non è dei migliori.

I leader radunati a Glasgow sono 120 e sono arrivati portandosi dietro di sicuro 52 jet solo nella giornata di domenica, almeno 400 jet totali secondo le stime della stampa anglosassone che potrebbero generare “13mila tonnellate di emissioni di CO2, l’equivalente di quella prodotta da 1.600 inglesi in un anno” dice il Daily Mail. Anche il rientro di Johnson a Londra è previsto in aereo e il premier si è dovuto giustificare con esigenze istituzionali e il fatto che il suo jet charter utilizza una speciale miscela di carburante per aviazione “sostenibile” ed è uno degli aerei più efficienti in termini di emissioni. Pesano, poi, le assenza rilevanti del presidente cinese Xi Jinping (che a Roma si è collegato in videoconferenza mentre in Scozia ha mandato un messaggio scritto), del presidente brasiliano Jair Bolsonaro e del presidente russo Vladimir Putin. E soprattutto, pesa l’assenza di qualsiasi buona notizia: se la Cina non sembra in alcun modo intenzionata a modificare il percorso stabilito (massime emissioni entro il 2030 e poi zero al 2060) e ha puntato il dito contro gli Stati Uniti accusandoli di avere “minato la fiducia globale in anni recenti nella lotta contro i cambiamenti climatici”, per la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto, e il ritiro dagli accordi di Parigi del 2015 con Donald Trump, l’India è riuscita a sorprendere in negativo. Il primo ministro Narendra Modi, da cui ci si aspettava annunci ambiziosi, ha comunicato un obiettivo di “zero netto” entro il 2070, dieci anni dopo Cina e Russia, venti dopo gli Usa. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha invece sollecitato un’azione più severa sulle emissioni, ma non ha annunciato alcuna nuova mossa rispetto all’impegno d’inizio mandato (taglio del 52% delle emissioni entro il 2030).

Non resta che l’obiettivo minimo dei soldi, i famosi 100 miliardi all’anno che, sempre dal 2015, gli Stati si sono impegnati a destinare alla transizione energetica dei Paesi in via di sviluppo e oggi fermi a 82 miliardi. La proposta del premier Mario Draghi, ieri, è stata di colmare la differenza con i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale (una forma di liquidità garantita dal fondo). Spendere anziché agire: magari su questo si arriverà a una quadra.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/02/cosi-andiamo-verso-il-disastro-ma-i-leader-arrivano-con-400-jet/6376116/

lunedì 1 novembre 2021

Nino Di Matteo: “La legge Cartabia vìola la Costituzione. È buio per noi toghe”. - Marco Lillo

 

Consigliere Antonino Di Matteo il titolo del suo nuovo libro è ‘I nemici della giustizia’. Chi sono?

Sono tanti. Non solo mafiosi corrotti e criminali. Si annidano nelle pieghe delle istituzioni e della politica e anche della magistratura. Non possiamo far finta che questo momento non sia uno dei più bui della storia della magistratura. I mali diffusi come metastasi nel corpo della giustizia sono il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera, la gerarchizzazione degli uffici di procura e il collateralismo con la politica.

Perché ha scritto con Saverio Lodato questo libro in questo momento così poco felice della magistratura?

Non possiamo far finta di stupirci. Dobbiamo indignarci e non nascondere la verità. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità anche sul potere finanziario e politico. C’è una logica di rappresaglia ma anche di prevenzione per il futuro. Vogliono vendicarsi ed evitare che la magistratura possa essere troppo incisiva. Ecco perché ho ritenuto di far sentire la mia voce. Non mi piace questo andazzo. La magistratura sembra rassegnata a subire l’attacco frontale di chi vuole trasformare le procure in organi collaterali e serventi rispetto al potere esecutivo.

C’è un intero capitolo nel libro dedicato alla riforma Cartabia. Quali sono i rischi maggiori?

La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni. L’Europa chiedeva di accelerare i processi ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio o per le violenze nella scuola Diaz di Genova nel 2001, si sarebbero conclusi nel nulla. Questa normativa presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009. Allora però ci fu una forte reazione. Gli organismi rappresentativi della magistratura, i movimenti e partiti che allora insorsero oggi sono silenti o addirittura favorevoli alla riforma Cartabia.

Poi c’è il tema dei criteri di priorità stabiliti dal legislatore. Quali sono i pericoli?

Questo punto mi preoccupa ancor più dell’improcedibilità. Le maggioranze parlamentari del momento dovranno individuare le priorità dell’azione penale. La maggioranza di turno potrà ad esempio in futuro stabilire che bisogna perseguire prima la criminalità da strada e poi, solo se resta tempo, i reati di corruzione o tipici dell’abuso di autorità. Così si mina l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia e indipendenza della magistratura. Non è solo un problema della casta della magistratura. Intravedo un grave pericolo per i cittadini e le minoranze che si oppongono alla maggioranza di turno.

Nel libro dedica un capitolo intero ai referendum sulla giustizia. Ci spiega perché è contrario?

Premetto che la Costituzione prevede lo strumento referendario anche per cambiare le norme della giustizia. Nulla da dire quindi sul metodo. Nel merito invece sono contrario a cinque dei sei quesiti. Il sesto, quello sulle firme necessarie per presentare le candidature al CSM, per me è inutile perché non serve a evitare lo strapotere delle correnti.

Lei è contrario soprattutto alla separazione delle carriere. Perché?

Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria. Poi è diventata una bandiera di Forza Italia e del centrodestra nella seconda repubblica. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico. Basta vedere le statistiche: i giudici disattendono spesso le richieste dei pm. Inoltre sul passaggio da una funzione all’altra i paletti sono già alti. Negli ultimi 15 anni poco più del 2 per cento dei pm è diventato poi giudice e meno dello 0,5 dei giudici ha compiuto il passaggio inverso. La separazione delle carriere porterebbe, se non immediatamente in maniera inevitabile, alla sottoposizione del pm all’esecutivo e comunque consacrerebbe una figura del pm estranea alla cultura della giurisdizione.

Perché non sarebbe giusta la riforma della responsabilità civile?

Si dice che i magistrati che sbagliano devono pagare. Messaggio suggestivo ma che si basa su presupposti sbagliati. Esiste già la responsabilità penale con decine di magistrati sotto processo. Poi c’è la responsabilità disciplinare che viene fatta valere più frequentemente per noi magistrati che per altre categorie. Anche la responsabilità civile già c’è. Anche se solo per dolo e colpa grave. La normativa attuale prevede l’azione del cittadino che si ritiene leso contro il Governo per chiedere i danni. In caso di accertamento del dolo o della colpa grave, è il Governo a potersi rivalere sul magistrato. Con il sì al referendum si consentirebbe al cittadino l’azione diretta contro il magistrato. Vedo alcuni rischi: innanzitutto si determinerebbe un’incompatibilità in capo al magistrato chiamato in causa. Inoltre i magistrati che devono giudicare una controversia, civile o penale potrebbero essere indotti a favorire la parte più forte, che ha i mezzi per rivalersi sul magistrato. Tra una multinazionale e un lavoratore il giudice sarà sereno nel giudizio?

Nel libro c’è un riferimento alla sentenza Trattativa. L’appello ha ribaltato il primo grado assolvendo Marcello Dell’Utri e i Carabinieri. Cosa ha pensato?

Bisognerà attendere le motivazioni. Però alcune cose si possono già dire. Intanto non siamo stati solo noi pm a valutare certe condotte. Il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto giuridicamente corretta l’impostazione accusatoria. E poi la Corte di Assise – dopo 5 anni di processo e centinaia di udienze – ha scritto 5.500 pagine per motivare la condanna. Non voglio scendere nel merito delle responsabilità penali degli imputati. Però una cosa voglio dirla: sono a posto con la coscienza e sono orgoglioso di aver contribuito con i miei colleghi, pm e giudici, a far emergere fatti oggi incontestabili che solo la nostra tenacia ha fatto riemergere da archivi nascosti e polverosi. L’opinione pubblica aveva il diritto e forse anche il dovere di sapere che nel periodo delle stragi Cosa Nostra ha agito nell’ottica di un dialogo a suon di bombe con lo Stato. Nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/01/nino-di-matteo-la-legge-cartabia-viola-la-costituzione-e-buio-per-noi-toghe/6375387/

Quirinale, Conte apre a Draghi e allontana Berlusconi dal sogno proibito del Colle. E ora i voti di Renzi possono diventare inutili. - Giuseppe Pipitone

 Quirinale, Conte apre a Draghi e allontana Berlusconi dal sogno proibito del Colle. E ora i voti di Renzi possono diventare inutili

I tempi non sono ancora maturi, ma l'ultima mossa del leader dei 5 stelle fa tornare d'attualità un'ipotesi che sembrava ormai impossibile da percorrere: far traslocare il premier da Palazzo Chigi al Colle. I numeri infatti non mentono. I 43 voti che ha Italia viva saranno fondamentali per scegliere il nuovo presidente della Repubblica in tutti gli scenari, tranne uno: quello che prevede l'elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza.

Fermi tutti, si torna al piano originario: Mario Draghi al Quirinale. Potrebbero pure chiamarla “operazione Carlo Azeglio“, nel senso di Ciampi, già maestro del premier in Bankitalia, poi a capo di un governo tecnico citato più volte come termine di paragone dell’attuale esecutivo, infine presidente della Repubblica eletto al primo scrutinio. I tempi non sono ancora maturi, ma l’ultima mossa di Giuseppe Conte, maturata dopo la sconfitta dell’asse con il Pd nel voto al Senato sul Ddl Zan, fa tornare d’attualità un’ipotesi che sembrava ormai impossibile da percorrere: far traslocare il premier da Palazzo Chigi al Colle. “Non possiamo escluderlo, serve una figura di altissima caratura morale e Draghi rientra in questa descrizione, ma devono realizzarsi varie condizioni”, ha detto il presidente dei 5 stelle. Tracciando una strategia difficile da attuare ma che potrebbe portare a tre obiettivi: risolvere il rompicapo del Quirinale a vantaggio dell’asse M5s-Pd, sbarrare la strada del Colle a Silvio Berlusconi o figure a lui vicine e neutralizzare le mire di Matteo Renzi. Ma andiamo con ordine.

Il tramonto di un’ipotesi – Dodici mesi fa il nome dell’ex presidente della Bce era quello del candidato naturale per raccogliere la successione di Sergio Mattarella. In un anno, però, il quadro politico è stato profondamente stravolto. L’agguato di Renzi ha portato alla caduta del governo Conte, che è stato sostituito alla guida dell’esecutivo proprio da mister Whatever it takes. Con l’entrata di Draghi a Palazzo Chigi, però, è andata via via tramontando l’ipotesi di un’elezione al Colle. Non perché il diretto interessato si sia dichiarato indisponibile: anzi fino a oggi Draghi ha sempre dribblato ogni domanda diretta sul tema. Semmai a escludere la sua elezione a capo dello Stato sono stati, per motivi diversi, i leader dei partiti che sostengono il suo governo: da una parte si producono in entusiastiche lodi per il premier, dall’altra sperano di portare al Colle qualcun altro e allontanare così lo spettro del voto anticipato.

Quelli che non vogliono Draghi (per ora) Mentre Berlusconi continua a coltivare per se stesso il sogno proibito di un’elezione che solo fino qualche mese fa sarebbe sembrata impossibile, gran parte dei parlamentari di Forza Italia non avrebbe alcun interesse a eleggere un capo dello Stato per poi tornare subito alle urne: perderebbero, infatti, il seggio con un anno d’anticipo. Simile la posizione di Matteo Salvini, impegnato in una sfida all’ultimo sondaggio con la rivale Giorgia Meloni che lo vede al momento sconfitto: in caso di voto anticipato, il capo della Lega sarebbe subalterno alla leader di Fratelli d’Italia. Secondo Enrico Letta, invece, mandare Draghi al Quirinale per poi andare al voto “non è l’interesse dell’Italia“. Una posizione dettata dall’evidente rischio urne, ma forse anche dal fatto che dentro al Pd sono in parecchi quelli che si considerano legittimi aspiranti al Colle: da Dario Franceschini a Paolo Gentiloni.

La mossa di Conte – Nomi, questi ultimi, che secondo vari retroscena avrebbero lasciato freddo Conte. Il leader dei 5 stelle, cioè il partito di maggioranza relativa in Parlamento, ha dunque deciso di provare a giocare le sue carte: la prima che ha messo sul tavolo ha la faccia di Draghi. Conte, però, si è subito affrettato subito a spiegare che tale ipotesi non significherebbe un automatico ritorno alle urne. “Dobbiamo spingere al 6% di Pil, dobbiamo continuare ad attuare il Pnrr e l’avvio iniziale è fondamentale: in tutto questo, pensare di eleggere un presidente e un attimo dopo andare a votare, chiunque sia, non è nell’ordine delle cose”, è il ragionamento dell’ex presidente del consiglio. Un messaggio che ha due destinatari: da una parte i peones dei vari partiti e gruppi parlamentari che temono il ritorno alle urne, dall’altra l’alleato Letta. In effetti a pochi giorni dall’affossamento col voto segreto del ddl Zan al Senato, il segretario del Pd potrebbe aver già cambiato la sua opinione sul Colle. Sicuramente avrà ascoltato le dichiarazioni di Pier Luigi Bersani: “Temo che quella di Palazzo Madama sia una prova generale per il quarto scrutinio per il Quirinale“, sono state le parole dell’ex segretario che nel 2013 ha perso la guida del Pd a causa dei franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi nella corsa al Colle. All’epoca i sospetti caddero tutti o quasi su Renzi, lo stesso che oggi i dem indicano come il regista occulto dell’azzoppamento della legge contro l’omotransfobia. E che secondo i maligni avrebbe già l’accordo col centrodestra per eleggere il nuovo capo dello Stato. È proprio per bruciare Renzi e il suo dialogo con Salvini e Berlusconi che Conte ha tirato fuori il nome di Draghi, spiegando che “bisogna avviare un percorso di confronto con tutte le forze politiche”. Anche col centrodestra? “Sì, anche col centrodestra“.

Il pallottoliere dei Grandi elettori – I numeri infatti non mentono. I 43 voti a disposizione di Italia viva sono fondamentali per scegliere il nuovo presidente della Repubblica in tutti gli scenari, tranne uno: quello che prevede l’elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza. Un nome che trovi il consenso di tutti o quasi è fino a oggi una ipotesi considerata molto improbabile. I tempi sono ancora poco maturi, ma di sicuro c’è solo che alla fine di gennaio del 2022 a Montecitorio si riuniranno i 1008 Grandi elettori chiamati ad eleggere il tredicesimo presidente della Repubblica: ai 630 deputati e 320 senatori si aggiungeranno 58 delegati locali: ogni Regione sceglierà due esponenti per la maggioranza e uno per la minoranza, tranne la Valle d’Aosta che invierà a Roma solo un rappresentante. I delegati regionali non sono ancora stati eletti ma, stando a chi governa le Regioni, dovrebbero essere 33 del centrodestra e 24 del centrosinistra. Come è noto nelle prime 3 votazioni, a scrutinio segreto, serviranno i 2/3 dei voti dell’assemblea, pari a 673 voti. Dopo il terzo scrutinio, invece, è sufficiente la maggioranza assoluta, pari a 505. È a quel punto che, senza un accordo, si farebbero i giochi. Ed è per provare a evitare quel quarto scrutinio che Conte ha aperto a Draghi.

Il centrodestra parte da 451 voti – La coalizione formata da Fratelli d’ItaliaForza Italia e Lega può contare su 451 grandi elettori che fanno riferimento ai partiti dentro la coalizione: 197 sono della Lega, 127 dei berlusconiani, 58 del partito di Giorgia Meloni, 31 di Coraggio Italia-Cambiamo-Idea, 5 di Noi con l’Italia, ai quali si aggiungono i 33 delegati regionali. Se a questi si sommano i 43 voti di Italia viva ecco che il totale fa 494: ne mancherebbero solo 11 per arrivare alla soglia magica di 505, utile per eleggere un presidente al quarto scrutinio. E undici voti, considerata la trasversalità dei gruppo Misto pià alcuni battitori liberi (i parlamentari di + Europa, quelli del Maie, cioè gli italiani all’Estero), non sono difficile da ottenere: tutt’altro. Ecco perché Berlusconi continua a sognare l’elezione.

Pd e 5 stelle: 420 voti – Dall’altra parte l’asse che si fonda sul centrosinistra più i Cinque stelle può contare su 420 voti. Il Pd ha 133 grandi elettori (Roberto Gualtieri, neo sindaco di Roma, dovrà optare e quindi forse il suo seggio sarà vacante al momento dell’elezione del Colle), il M5s può contare su 233 preferenze, Leu 18Azione-+Europa 5, Centro democratico di Bruno Tabacci invece ha 6 deputati. Questo blocco, ai quali si aggiungono i 24 delegati regionali più Gianclaudio Bressa, iscritto al gruppo per le Autonomie ma eletto con il Pd, arriva a quota 420. Ma ci sono anche molti ex 5 stelle che dal 2018 a oggi hanno perso più di cento parlamentari: tra quelli che fanno parte del gruppo l’Alternativa c’è (19) e quelli nel Misto (24), si può arrivare a 463 voti. A questo punto, dunque, i 43 Grandi elettori del partito di Renzi diventerebbero fondamentali per superare la soglia dei 505 pure per il centrosinistra.

L’operazione “Carlo Azeglio” – Ecco su cosa si basa la strategia di Renzi: spingere i due schieramenti a un muro contro muro che farebbe diventare i suoi 43 parlamentari fondamentali per decidere il prossimo presidente della Repubblica. Il quadro, però, cambierebbe completamente con Draghi in campo. Se il premier dovesse ufficializzare la sua disponibilità al Quirinale come farebbero i big del Pd – a partire da Letta – a motivare il loro mancato appoggio? E i colonnelli di Forza Italia, che tanto si sono vantati di aver spinto sul nome dell’ex presidente della Bce, come farebbero a votare per qualcun altro? Soprattutto se dovessero davvero materializzarsi le condizioni di un nuovo esecutivo, probabilmente guidato da un tecnico, che porti avanti la spesa dei fondi del Recovery fino alla scadenza naturale della legislatura. In questo caso si creerebbe una larga maggioranza, capace di eleggere il nuovo capo dello Stato magari già al primo scrutinio: nella storia repubblicana è successo solo tre volte, l’ultima nel 1999 proprio con Ciampi. Ecco perché l’elezione di Draghi sarebbe “l’operazione Carlo Azeglio“. Che dal punto di vista di Conte avrebbe un duplice vantaggio: sbarrare la strada a Berlusconi e trasformare i voti dei renziani da fondamentali a inutili.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/01/quirinale-conte-apre-a-draghi-e-allontana-berlusconi-dal-colle-e-ora-i-voti-di-renzi-possono-diventare-inutili/6372403/

Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio

 

Sovranità limitata. “Il pressing Usa su Giorgetti: ‘Draghi rimanga a Palazzo Chigi’” (Stampa, 25.10). Hanno già deciso anche chi mandare al Quirinale o ci lasciano ancora nell’incertezza?

Autopompe. “Draghi e Biden: la democrazia funziona” (Stampa, 30.10). Oste, è buono il vino?

I soliti sospetti/1. “Miccichè: ‘A cena con Renzi, sarà presto nel centrodestra’” (Repubblica-cronaca Palermo, 19.10). Presto?

I soliti sospetti/2. “Letta rompe di nuovo con Renzi: ‘Ormai quanto vale la sua parola?’” (Domani, 29.10). “Che parabola, Renzi: ormai ammicca alla destra” (Francesco Boccia, deputato Pd, Repubblica, 31.10). Ormai?

I soliti sospetti/3. “Ddl Zan, Letta: ‘Con Renzi ora è rottura’” (Repubblica, 29.10). Ora?

Centralità. “Renzi si gode la sua centralità” (Foglio, 28.10). Quella del dito medio.

Quisquilie. “L’infinita caccia al Cav. La procura di Firenze cerca (ancora) il legame tra Berlusconi e la stagione degli attentati” (Foglio, 28.10). Paura, eh?

Amici. “Colle, pranzo per lanciare Berlusconi. Salvini: ‘Puntiamo su un amico…’” (Repubblica, 29.10). Degli amici.

L’uomo-calcolatrice. “In 112 giorni di campagna elettorale ho subìto 93 attacchi: uno al giorno!” (Enrico Michetti, candidato sindaco di Roma per il centrodestra, 15.10). Le notti non contano.

Inattaccabile. “Berlusconi mesi fa mi disse che aveva contato e ricontato i voti ed era l’unico che poteva farcela a fare il presidente della Repubblica… perché su una cosa Berlusconi è inattaccabile: il fatto di essere uno statista” (Alessandro Sallusti, direttore di Libero, Dimartedì, La7, 26.10). Figurarsi sulle altre cose.

Slurp. “I complimenti e le strette di mano. Così Draghi ‘accorcia le distanze’. Lo stile del premier che incontra i ragazzi in Puglia” (Corriere della sera, 27.10). Quindi possiamo stringere mani anche noi, o vale solo per lui e per il suo stile?

La mosca cocchiera. “Il ‘partito’ di Draghi vale più del 20%, per Conte non c’è posto” (Ettore Rosato, coordinatore nazionale Iv, Riformista, 26.10). Il solito culo di Conte.

Ora si può dire. “Roma, la ripartenza del turismo. Impennata di prenotazioni: per ottobre camere e hotel romani riempiti al 100%. Nel settore il trend è in costante crescita a partire dall’inizio dell’estate” (Messaggero-cronaca Roma, 26.10). È già merito di Gualtieri o è ancora colpa della Raggi?

Dubbi. “Letta e Conte, prima mossa sul Colle. I dubbi del M5S su Gentiloni” (Repubblica, 26.10). Strano, una personcina così leale e affidabile.

Truppe marcenarie. “Tre milioni e mezzo di euri da Maduro. E mancherebbero i soldi per procurare a Travaglio una svedese?” (Andrea Marcenaro, Foglio, 28.10). E niente, nessuno che gli levi il fiasco.

La vera sinistra. “La sinistra guarisca dalla pensionite” (Irene Tinagli, vicesegretaria Pd, Foglio, 30.10). Giusto: i pensionati sono tutti di destra.

Senti chi parla/1. “I dubbi di Cottarelli su Quota 102: ‘Un compromesso’” (Stampa, 29.10). Infatti lui è andato in pensione a 59 anni.

Senti chi parla/2. “Paghiamo il fallimento del Pd” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Giornale, 29.10). Vuoi mettere l’1% contro il 20%?

Riconoscenze. “Il mio pensiero in questo triste anniversario va a Stefano Cucchi, a sua sorella e alla sua famiglia. E a tutti coloro che nelle forze dell’ordine hanno aiutato ad arrivare alla verità. Perché non succeda mai più” (Enrico Letta, segretario Pd, Twitter, 22.10). E grazie anche a tutti coloro che in Egitto stanno aiutando ad arrivare alla verità sull’omicidio Regeni.

Vasto programma. “Richetti: ‘Un partito riformista da Gori a Mara Carfagna’” (Riformista, 27.10). Gnammm!

Il titolo della settimana/1. “L’Unione deve evitare di perdere la Polonia” (Corriere della sera, 29.10). Sennò tocca invadere di nuovo la Polonia.

Il titolo della settimana/2. “Il Reddito non crea lavoro” (Messaggero, 25.10). Ma va? Se il Reddito creasse lavoro, nessuno avrebbe bisogno del Reddito.

Il titolo della settimana/3. “Gualtieri: basta coi soliti rattoppi. Buche, nuovi fondi per rifarle” (Messaggero-cronaca Roma, 25.10). Perchè, non bastavano quelle vecchie?

Il titolo della settimana/4. “Remuzzi: ‘La svolta alla pandemia l’ha data Figliuolo’” (Libero, 25.10). Che sia un untore in alta uniforme?

Il titolo della settimana/5. “Le città del Pd hanno il record di reati” (Libero, 26.10). In effetti, il Pd governa anche ad Arcore.


https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/01/ma-mi-faccia-il-piacere-244/6375379/