Come volevasi dimostrare, e com’era chiaro fin dall’inizio a tutti fuorché a Mattarella e a Draghi, il “governo di tutti” non esiste. Presto o tardi gli cade la maschera e si rivela per quello che è: il “governo di nessuno”. Mattarella, che un anno fa lo escogitò con la ridicola formula del “governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, tarda ad accorgersene. Invece il fu SuperMario, liofilizzato dalla débâcle quirinalizia a MiniMario, inizia a capirlo. I giornaloni traboccano dell’“ira di Draghi” che è “furibondo” e “furioso con i partiti” e li “avverte”, anzi li “striglia” con “altolà”, “aut-aut”, “ultimatum” e “linea dura”, dopo le quattro bocciature parlamentari del suo decreto Milleproroghe. E non vuole più “perder tempo”, essendo in partenza per la campagna di Russia, dove gli eserciti di mezzo mondo sono in surplace da un mesetto in attesa di sue notizie. A noi spiace vederlo così nervosetto, ma temiamo non abbia ancora colto la differenza fra una banca e il Consiglio dei ministri di una democrazia parlamentare. Infatti le frasi che ha fatto trapelare dalla cabina di regia dell’altroieri, se portassero un’altra firma, farebbero pensare a un golpista o a un mitomane: “Il governo decide e voi dovete garantire i voti in Parlamento”. I ministri devono essersi guardati e domandati dove stia scritto nella Costituzione che le leggi le fa il governo e il Parlamento le timbra. Ma nella Costituzione c’è pure scritto che è il presidente della Repubblica che nomina il presidente del Consiglio e lui un mese fa tentava di invertire l’ordine dei fattori.
Urge un ripassino della Carta, prima che arrivi il generalissimo Figliuolo a rimettere in riga i ministri e le Camere, armi e siringhe in pugno. Ma urge soprattutto prendere atto di una realtà imbarazzante: se il governo con la maggioranza più ampia della storia repubblicana non riesce neppure a farsi approvare il Milleproroghe, un premier degno di questo nome non minaccia di andarsene perché “posso sempre fare altro”: se ne va subito a fare altro perché ha fallito. E non per colpa dei partiti o del Parlamento, ma per colpa sua: ha umiliato gli alleati (soprattutto uno, il più grande) costringendoli a votare provvedimenti a scatola chiusa, senza neppure farglieli leggere; ha mortificato le Camere con un record di decreti, per giunta convertiti a suon di fiducie (o nemmeno votati perché superati da altri decreti); ha accettato fischiettando che la Lega non votasse misure impopolari (tanto le votavano gli altri); ha indebolito il governo e la premiership candidandosi al Quirinale e uscendone umiliato; e ora finge che il Parlamento ce l’abbia col governo, quando è chiaro che ce l’ha con lui. E lui, fra l’altro, non fa neppure capoluogo.
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