sabato 19 febbraio 2022

Il governo di nessuno. - Marco Travaglio

Come volevasi dimostrare, e com’era chiaro fin dall’inizio a tutti fuorché a Mattarella e a Draghi, il “governo di tutti” non esiste. Presto o tardi gli cade la maschera e si rivela per quello che è: il “governo di nessuno”. Mattarella, che un anno fa lo escogitò con la ridicola formula del “governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”, tarda ad accorgersene. Invece il fu SuperMario, liofilizzato dalla débâcle quirinalizia a MiniMario, inizia a capirlo. I giornaloni traboccano dell’“ira di Draghi” che è “furibondo” e “furioso con i partiti” e li “avverte”, anzi li “striglia” con “altolà”, “aut-aut”, “ultimatum” e “linea dura”, dopo le quattro bocciature parlamentari del suo decreto Milleproroghe. E non vuole più “perder tempo”, essendo in partenza per la campagna di Russia, dove gli eserciti di mezzo mondo sono in surplace da un mesetto in attesa di sue notizie. A noi spiace vederlo così nervosetto, ma temiamo non abbia ancora colto la differenza fra una banca e il Consiglio dei ministri di una democrazia parlamentare. Infatti le frasi che ha fatto trapelare dalla cabina di regia dell’altroieri, se portassero un’altra firma, farebbero pensare a un golpista o a un mitomane: “Il governo decide e voi dovete garantire i voti in Parlamento”. I ministri devono essersi guardati e domandati dove stia scritto nella Costituzione che le leggi le fa il governo e il Parlamento le timbra. Ma nella Costituzione c’è pure scritto che è il presidente della Repubblica che nomina il presidente del Consiglio e lui un mese fa tentava di invertire l’ordine dei fattori.

Urge un ripassino della Carta, prima che arrivi il generalissimo Figliuolo a rimettere in riga i ministri e le Camere, armi e siringhe in pugno. Ma urge soprattutto prendere atto di una realtà imbarazzante: se il governo con la maggioranza più ampia della storia repubblicana non riesce neppure a farsi approvare il Milleproroghe, un premier degno di questo nome non minaccia di andarsene perché “posso sempre fare altro”: se ne va subito a fare altro perché ha fallito. E non per colpa dei partiti o del Parlamento, ma per colpa sua: ha umiliato gli alleati (soprattutto uno, il più grande) costringendoli a votare provvedimenti a scatola chiusa, senza neppure farglieli leggere; ha mortificato le Camere con un record di decreti, per giunta convertiti a suon di fiducie (o nemmeno votati perché superati da altri decreti); ha accettato fischiettando che la Lega non votasse misure impopolari (tanto le votavano gli altri); ha indebolito il governo e la premiership candidandosi al Quirinale e uscendone umiliato; e ora finge che il Parlamento ce l’abbia col governo, quando è chiaro che ce l’ha con lui. E lui, fra l’altro, non fa neppure capoluogo.

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venerdì 18 febbraio 2022

Quando eravamo normali. - Marco Travaglio


Che avrebbero dovuto fare 30 anni fa i magistrati sommersi dalle confessioni e dalle chiamate in correità di politici corrotti e imprenditori corruttori? Quello che prevedeva (e prevede) la legge: indagarli, arrestarli e processarli. Che avrebbero dovuto fare i cronisti sommersi dalle notizie sui politici e imprenditori più famosi che si scambiavano mazzette e, presi con le mani nel sacco, le confessavano e restituivano? Quello che era (ed è) il loro mestiere: procurarsi gli avvisi di garanzia, i verbali, le ordinanze di custodia cautelare (tutti atti, fra l’altro, non segreti) e pubblicarli. Che avrebbero dovuto fare i cittadini sommersi dai nomi e cognomi di chi si era mangiato l’Italia a suon di mazzette sugli appalti pubblici e di appalti pubblici fatti apposta per trarne mazzette, depredando le casse dello Stato e le tasche dei contribuenti con opere inutili, gonfiate e inquinanti e lasciando il conto da pagare a noi (manovra finanziaria da 90mila miliardi e prelievo del 6 per mille dai conti correnti nel 1992 a cura del governo Amato)? Maledire i ladri di Stato, smettere di votarli e, se provavano a farla franca col trucchetto dell’impunità parlamentare, contestarli con lanci di insulti, spugne, monetine e banconote (false) e difendere i magistrati che applicavano la legge (finalmente) uguale per tutti.

Quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo, i cittadini con i sudditi. Per due anni gli italiani furono veri cittadini e, informati da veri giornalisti, si schierarono dalla parte delle guardie contro i ladri. Poi, grazie alle sue tv, B. riportò al potere i ladri travestiti da amici delle guardie, li salvò con decine di leggi impunitarie votate o mantenute anche dal centrosinistra e tutto tornò come prima. Ora vogliono farci pentire di essere stati normali e farci credere che non sta bene tifare guardie, anzi è giusto tifare ladri. E l’ex braccio destro del ladrone latitante presiede la Consulta che avalla un referendum per vietare l’arresto dei ladri, uno per riportarli in Parlamento e tre per punire le guardie. Una guardia si porta avanti e, nel trentennale di Mani Pulite, rinvia a giudizio un galantuomo come Davigo. Partecipano alla festa molti giornalisti che per due anni informarono i cittadini sui delitti dei potenti, anche dei loro editori (che, terrorizzati, li lasciavano liberi), e ora, per far carriera e non finire prepensionati, si pentono di aver fatto per pochi mesi il proprio dovere. Li vediamo sfilare in tv a battersi il petto come nelle purghe staliniane, confessando il loro peccato mortale di gioventù: aver chiamato ladri i ladri. Il sistema migliore per non dover spiegare perché hanno smesso.

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Davigo a giudizio: “Segreto violato”. Ma al Csm non c’è. - Antonio Massari

 

LOGGIA UNGHERIA - Il processo a Brescia per i verbali di Amara ricevuti dal pm di Milano Paolo Storari. L’ex consigliere: “So di essere innocente”. 

Persino le date danno il loro contributo nella storia legata alla presunta Loggia Ungheria: nell’anniversario di “Mani Pulite” – a trent’anni esatti dal 17 febbraio 1992, quando fu arrestato l’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa – un uomo simbolo del pool di magistrati che avviò Tangentopoli, Piercamillo Davigo, finisce sotto processo.

Se fisicamente è a Pisa, per un convegno sull’indagine che segnò la fine della Prima Repubblica, Davigo è virtualmente in un’aula del tribunale di Brescia, nelle vesti di imputato. E viene rinviato a giudizio, per concorso in rivelazione d’ufficio, dal gup Francesca Brugnara. Il processo inizierà il prossimo 20 aprile. È così, a trent’anni da Mani Pulite, dopo aver affrontato e spesso vinto processi delicatissimi, dopo aver indagato colossi della politica e dell’economia, quella stessa procura si ritrova spalle al muro. Davigo sotto processo e ben altri quattro magistrati sotto indagine. Dopo il caso Palamara la credibilità dell’intera magistratura è già ai minimi storici. Il crollo arriva con i verbali dell’ex legale esterno di Eni Piero Amara.

Tutto precipita infatti nel dicembre 2019 quando Amara dichiara al pm milanese Paolo Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio di essere membro della presunta loggia coperta Ungheria affollata da magistrati e vertici delle istituzioni. Fino a gennaio fornirà ulteriori dettagli (tutti da verificare e tuttora al vaglio della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone). I verbali di Amara – nell’aprile 2020 secondo le versioni di Davigo e Storari – prendono però un’altra strada. Storari ravvisa un’inerzia della procura nel procedere alle iscrizioni (accusa ritenuta insussistente, nei riguardi dell’ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, che sarà indagato e archiviato). Per tutelarsi denuncia la situazione a Davigo – in qualità di membro del Csm – che lo autorizza a rivelargli le notizie coperte dal segreto. Ad autorizzarlo, secondo Davigo, c’è una norma del 1994: non si può opporre il segreto istruttorio a un membro del Consiglio. In sostanza, secondo Davigo, non ci sarebbe alcuna violazione del segreto. Evidentemente la procura di Brescia la pensa diversamente. Storari consegna a Davigo una copia in formato word dei verbali di Amara. L’avvocato coinvolge due consiglieri del Csm in carica: Sebastiano Ardita, della stessa corrente di Davigo, e Marco Mancinetti. A quel punto – è la versione di Davigo – il consigliere del Csm, nel timore che scegliendo le vie formali possa essere vanificato il segreto istruttorio, come già accaduto nello scandalo legato a Luca Palamara, decide di informare oralmente i membri del comitato di presidenza del Csm. A partire dal vicepresidente David Ermini (e attraverso lui il Quirinale). Davigo informerà dell’indagine – parlando della questione Ardita e “vincolandoli al segreto istruttorio” – anche altri consiglieri del Csm e le sue segretarie. Ed è per questo motivo che Ardita, che si considera danneggiato dalla condotta di Davigo, s’è costituito in giudizio come parte civile. Di lì a poco Davigo lascia il Csm. E al Csm lascia anche una copia dei verbali ricevuti da Storari. Da quel momento in poi, a sua insaputa, il segreto istruttorio va in frantumi: nell’ottobre 2020 copia dei verbali giunge in forma anonima al Fatto Quotidiano che – per non distruggere l’eventuale indagine in corso e temendo una polpetta avvelenata, non avendo prova che fossero autentici – denuncia alla procura di Milano e li deposita nelle mani di Storari e Pedio.

A marzo 2021 li riceve la cronista di Repubblica Liana Milella che denuncia a Perugia. Una copia giunge infine al consigliere Nino Di Matteo che prima denuncia a Perugia e poi rivela durante un plenum del Csm il “dossieraggio calunnioso” ai danni di Ardita. Inizia così l’inchiesta sulla fuga di notizie. L’invio dei verbali alla stampa e a Di Matteo viene attribuito alla segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, oggi indagata per calunnia a Roma. Storari confessa a Greco di averli consegnati a Davigo. Rinviato a giudizio, Davigo commenta: “Non dirò mai una parola contro la giurisdizione che ho servito per 40 anni. I processi servono per accertare se l’imputato è colpevole o innocente. Io so di essere innocente”. Storari ha scelto il rito abbreviato, la sentenza è prevista il 7 marzo. L’accusa – che ieri ha parlato di “buona fede” dell’imputato, contestata radicalmente dalla parte civile Ardita, sin dall’atto di costituzione – ha chiesto una condanna a 6 mesi per aver consegnato i verbali a Davigo “fuori da ogni procedura formale”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/18/davigo-a-giudizio-segreto-violato-ma-al-csm-non-ce/6498098/

giovedì 17 febbraio 2022

Milleproroghe: governo battuto quattro volte, sul tetto al contante asse Lega-Fi con Fdi.

 

Nelle votazioni in commissione alla Camera esecutivo sotto anche su ex Ilva, graduatorie per l’Istruzione e sperimentazione sugli animali.

Caos nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali alla Camera durante l’esame delle modifiche al dl Milleproroghe. Il governo nella notte è andato sotto quattro volte, secondo quanto si apprende, e in alcuni casi la maggioranza si è spaccata. Contro il parere dell’esecutivo sono passati gli emendamenti che prevedono il dietrofront sull’Ilva e sul tetto al contante così come sono state approvate norme sulle graduatorie della scuola e i test sugli animali. Duro scontro anche sul tema della giustizia fra il Pd e la Lega.

Sul tetto al contante asse Lega-FI con FdI.

La Lega e Forza Italia hanno votato con FdI una retromarcia sul contante: il tetto che dal 1° gennaio 2022 è sceso a mille euro torna ora per un anno a duemila euro. La modifica sposta l’entrata in vigore della soglia più bassa al 1° gennaio 2023. La modifica è passata per un solo voto con il parere contrario del governo.

Esulta Giorgia Meloni: «Vittoria! Grazie a un emendamento di Fratelli d’Italia il tetto all’utilizzo del contante viene riportato da subito a 2mila euro. La maggioranza si è spaccata su un provvedimento importante per famiglie e imprese: siamo riusciti a portare a casa un primo, piccolo, ma significativo risultato per favorire l’economia reale. Questa è la dimostrazione che un’alternativa alla deriva tecnofinanziaria dell’ultimo decennio è possibile, e noi continueremo giorno e notte a lavorare per dare una nuova speranza all’Italia»

Ex Ilva: fondi per le bonifiche.

I lavori delle commissioni sono stati turbolenti e hanno registrato scontri anche all’interno della maggioranza: più volte anche le relatrici (una della Lega, l’altra del M5s) hanno dato pareri contrastanti sugli emendamenti. Durante l’esame delle modifiche il governo aveva dato parere contrario all’emendamento che cancella l’articolo sull’ex Ilva che però è stato approvato ugualmente: la norma originaria cambiava la destinazione di parte dei fondi Riva che ora tornano a poter essere utilizzati per le bonifiche.

Il Partito democratico rivendica l’intervento in contrasto con le indicazioni del Governo. «Non avremmo potuto accettare che le risorse destinate alle bonifiche delle aree contaminate dello stabilimento ex-Ilva di Taranto venissero dirottate su altri fini. Grazie ad un emendamento del Pd abbiamo» restituito «quei 575 milioni di euro agli interventi di ambientalizzazione» dichiara Ubaldo Pagano, capogruppo democratico in commissione Bilancio a Montecitorio. «Abbiamo riaffermato un principio e che è alla base delle nostre battaglie: la decarbonizzazione è un obiettivo imprescindibile» ma «non può essere perseguito a detrimento di altri doveri dello Stato, come il ripristino di un ambiente salubre dove l’acciaieria ha inquinato».

Istruzione e sperimentazione degli animali gli altri due casi.

Sulle graduatorie per l’Istruzione il governo al contrario ha dato parere favorevole a una riformulazione che però è stata bocciata dalle commissioni. Altro emendamento su cui il governo è stato battuto e su cui la maggioranza si è divisa la sperimentazione degli animali.

https://www.ilsole24ore.com/art/milleproroghe-governo-battutto-quattro-volte-tetto-contante-asse-lega-fi-fdi-AEz2uVEB

Pressing per azienda vicina ai clan: salvato Giovanardi da FI&Iv. - Ilaria Proietti

 

IMPUNITÀ - Gli è stato accordato lo scudo dell’immunità contro i magistrati di Modena che lo avevano trascinato a processo per rivelazione e utilizzazione di segreti d’uffici, violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e oltraggio. La casta “assolve” anche Siri.

Lui giura di aver fatto solo il suo dovere di parlamentare. E che importa se, per ottenere che una ditta amica in odore di ’ndrangheta potesse partecipare alla ricostruzione dopo il terremoto dell’Emilia-Romagna, ha minacciato e fatto pressioni di ogni sorta spendendo il suo ruolo e le sue amicizie a Roma. L’ex senatore Carlo Giovanardi aveva ragione da vendere: strapazzare funzionari di Prefettura per ottenere ciò che si vuole, minacciarne la carriera e ottenere informazioni riservate abusando dello status di parlamentare, si può fare e impunemente. Lo ha confermato il voto di ieri del Senato dove grazie ai voti del centrodestra e Italia Viva gli è stato accordato lo scudo dell’immunità contro i magistrati di Modena che lo avevano trascinato a processo per rivelazione e utilizzazione di segreti d’uffici, violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e oltraggio.

Bum! Per l’aula del Senato non ci sono reati: le condotte di Giovanardi sono al più l’espressione di opinioni magari un po’ forti, ma pur sempre insindacabili perché espresse nel suo ruolo di parlamentare, come sostenuto dal leghista Simone Pillon nella relazione approvata a maggioranza: “Nel caso di specie, il senatore Giovanardi riteneva con tutta evidenza che l’esclusione dalla white list della ditta Bianchini fosse un’ingiustizia e che tale misura fosse del tutto infondata sulla base di una propria opinione, fortemente critica rispetto all’operato dei pubblici ufficiali coinvolti”.

E tanto deve bastare, a prescindere dal merito delle condotte tenute all’epoca dei fatti da Giovanardi, che può tirare un sospiro di sollievo, anzi di più: “È un voto importante per la democrazia perché riguarda la libertà del Parlamento in un sistema democratico” ha detto sempre più convinto che “l’unico atteggiamento di un parlamentare di fronte a macroscopici errori della Pubblica amministrazione non può essere quello di un omertoso silenzio”.

E pace se in questo caso non c’erano affatto errori macroscopici. E se qualcuno si ostina a ritenere che i reati contestati a Giovanardi restino tali e davvero poco hanno a che fare con le opinioni, come ha sottolineato Pietro Grasso di LeU, per il quale “la violazione del segreto d’ufficio o le minacce, non hanno alcun legame funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare”.

Per l’ex procuratore antimafia, insomma, si tratta di un precedente pericoloso attraverso il quale è stata ingiustificatamente estesa la prerogativa dell’insindacabilità. Attraverso un barbatrucco già evidenziato da Anna Rossomando del Pd quando la questione era stata trattata in Giunta. “L’aspetto più problematico della motivazione fornita dal senatore Pillon è quello che finisce per estendere la prerogativa a qualsiasi condotta purché persegua un fine in qualche modo ricollegabile ad una pregressa attività parlamentare intra moenia”. Tradotto: per ottenere lo scudo basterà presentare un’interrogazione per poi avere la licenza di compiere impunemente fuori dal Palazzo qualunque tipo di reato sul fatto oggetto di quella attività parlamentare. Ma ormai l’andazzo è questo. Ieri la stessa Giunta delle immunità ha scudato il meloniano Andrea Augello, per un post su Fb ritenuto offensivo dall’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino (che lo ha portato in Tribunale) nonostante non sia da tempo più parlamentare. Ma l’immunità gli è stata accordata lo stesso col pretesto che da senatore nel 2015 aveva presentato alcune interrogazioni sull’amministrazione capitolina.

E non è tutto. Sempre l’asse centrodestra-Italia Viva ieri ha detto no ai magistrati di Roma: non potranno usare nessuna delle intercettazioni che rischiavano di inguaiare Armando Siri, l’ex sottosegretario leghista a processo con l’accusa di essersi dato da fare, in cambio della promessa di una mazzetta, per favorire Paolo Arata, imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori di Matteo Messina Denaro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/17/pressing-per-azienda-vicina-ai-clan-salvato-giovanardi-da-fiiv/6496820/

Referendum, responsabilità diretta dei giudici e cannabis: affondati altri 2 quesiti. - Antonella Mascali

 

VIA AL VOTO - La Corte costituzionale ha finito l’esame: in tutto ha detto sì a cinque richieste sulla Giustizia. Tre i bocciati. Il presidente Amato ha spiegato la formulazione errata su eutanasia e droghe: sono stati scritti male.

Quando si dice è una beffa del destino. A trent’anni esatti da Mani Pulite, a presiedere la Corte costituzionale che ha dato il via libera ai referendum sulla Giustizia, a eccezione di quello sulla responsabilità civile diretta del magistrato, è Giuliano Amato, tra i protagonisti politici della Prima Repubblica al fianco di Bettino Craxi.

Aspirante senatore a vita, Amato forse ancora pensa di essere presidente del Consiglio, dato che ieri ha indetto una conferenza stampa in cui non si tiene neppure alcune critiche ricevute dalla Corte per l’inammissibilità del referendum sull’omicidio del consenziente (decisa martedì). “Sentire che non sappiamo cosa significhi soffrire mi ha ferito, ha ferito tutti noi. L’omicidio del consenziente sarebbe stato lecito in casi ben più numerosi e diversi da quelli dell’eutanasia”. Quanto all’inammissibilità del referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati che, ci risulta, lui, invece, avrebbe voluto, spiega: “Essendo sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, diversamente da altri funzionari pubblici, l’introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo”.

È lo Stato, aggiungiamo noi, che risarcisce il cittadino che abbia subito un ingiusto danno, per poi rivalersi sul magistrato. Ovvio la ratio della legge: se ci fosse la responsabilità diretta, ogni indagato-imputato, potente, potrebbe intimidire così il magistrato.

Dunque, ieri, la Corte ha dato il via libera ai referendum che chiedono la separazione delle carriere dei magistrati; l’abolizione della legge Severino; lo svuotamento della carcerazione preventiva; la valutazione professionale dei magistrati da parte degli avvocati presenti nei consigli giudiziari; la possibilità per i magistrati di candidarsi al Csm anche senza una raccolta di firme. La Corte con un comunicato spiega il via libera: “Le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario”. Sarà, ma se si va a leggere il quesito che chiede la separazione delle carriere, viene il mal di testa, tante sono le leggi cui fanno riferimento i promotori, altro che quesito chiaro, lineare per gli elettori. Inoltre, come la Corte sa, c’è già la riforma Bonafede, sul punto non modificata dalla ministra Marta Cartabia, che propone di diminuire i possibili passaggi da pm a giudice e viceversa, da 4 a 2, ma non di separare le carriere, di fatto, come vorrebbe, invece, Forza Italia. Se vince il sì non sarà permesso alcun cambio di funzione con buona pace del principio costituzionale dell’unicità dell’ordinamento giudiziario e con un possibile destino per il pm di essere dipendente dal governo.

Via libera anche al referendum che chiede l’abolizione della legge Severino, che vieta l’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza dei parlamentari, membri del governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali in caso di condanna definitiva per reati gravi come mafia, terrorismo e corruzione. Se vince il sì, viene abolito anche l’articolo 11 della stessa legge sulla sospensione per 18 mesi degli amministratori e rappresentanti locali condannati in primo grado per determinati reati. E pensare che la Severino ha retto a tutti i vagli della Consulta.

C’è poi il referendum che si potrebbe ribattezzare “liberi tutti”: si chiede la cancellazione della possibilità di arresto per un reato a “caso”, il finanziamento illecito ai partiti, ma anche per altri reati che prevedono la reclusione “non inferiore nel massimo a cinque anni”, a meno che non ricorra il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Sparisce quindi il pericolo di reiterazione del reato. “C’è da rimettersi solo alla saggezza dei cittadini”, osserva Nello Rossi, ex avvocato generale della Cassazione, “sperando che, se voteranno sì all’abrogazione, non imprechino poi contro giudici e pm se i truffatori seriali, gli hacker e i bancarottieri resteranno liberi e in azione sino alle condanne definitive”. Infine, dichiarato inammissibile il referendum sulle droghe perché, ha spiegato Amato “non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti. Si faceva riferimento a sostanze con papavero, coca, le cosiddette droghe pesanti. E questo era sufficiente a farci violare obblighi internazionali”.

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Balle Pulite. - Marco Travaglio

 

Breve antologia delle migliori scemenze sui 30 anni di Mani Pulite.

“Mani Pulite svelò la corruzione, ma non la risolse” (Francesco Merlo, Repubblica). È il lodo Merlo-Senaldi: i giudici non devono processare i reati già commessi, ma quelli che verranno.

“Una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppi accanimenti” (Merlo, ibidem). E quale sarebbe il numero perfetto dei reati e degli arresti, per evitare l’accanimento?

“Troppa complicità tra Pm e giornalisti. Ci portiamo dietro un finto giornalismo che spaccia per scoop i verbali di questura” (Merlo, ibidem). Si chiama cronaca giudiziaria, su cui campò per 30 anni Repubblica prima di mettersi in casa i Merlo.

“Cagliari, presidente Eni, si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo 30 anni, in Italia si continua ad abusare” (Merlo, ibidem). Poi la vedova andò in Svizzera, svuotò il conto del martire, tornò con 13 miliardi di lire e li restituì all’Eni, ma questo è meglio non dirlo.

“Produsse negli indagati paura di essere arrestati e messi alla gogna, con la confessione come unica via d’uscita” (Marco Imarisio, Corriere). Quindi confessavano reati mai commessi e restituivano miliardi mai rubati. Furbi, loro.

“Tra i patteggiamenti si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva” (Filippo Facci, Libero). Che volpi: concordavano anni di carcere senz’aver fatto nulla per uscire dalla galera preventiva ed entrare in quella definitiva. O forse erano innocenti, ma non lo sapevano: l’hanno scoperto da Facci.

“30 anni fa il golpe dei pm. Ora comandano loro. La politica si è arresa senza condizioni” (Piero Sansonetti, Riformista). Ora ci sono persino dei politici che non rubano: vergogna.

“Mani Pulite ha indebolito la Giustizia… Il bilancio di questi 30 anni è fallimentare” (Carlo Nordio, Messaggero). In effetti c’era pure un pm a Venezia che non ne azzeccava una.

“Ripristinare l’art. 68 della Costituzione come fu pensato nel 1947” (rag. Claudio Cerasa, Foglio). Cioè com’è adesso: uno scudo contro eventuali processi ai parlamentari per le loro idee, non per i loro furti.

“Azione politica per defenestrare cinque partiti, tutti di centrodestra. Poi arrivò mio fratello” (Paolo Berlusconi, Giornale). E lui, l’altro fratello, già arrestato (e poi tre volte condannato) per gravi reati, cominciò a finir dentro pure al posto suo.

“Ora i partiti smettano di candidare magistrati” (Luciano Violante, magistrato eletto deputato nel Pci, Pds, Ds dal 1979 al 2008, Giornale). A saperlo prima, ci risparmiavamo pure Violante.

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