mercoledì 9 febbraio 2011

Mora e la droga. “Sono contrario”. Ma nel 1990 fu condannato a tre anni per spaccio.



La storia segreta dell'ex parrucchiere di Bagnolo Po emerge dalla sentenza del tribunale di Verona. Oltre vent'anni fa l'impresario tv fu coinvolto in un giro di cocaina spacciata a cantanti famosi e calciatori.

Lui la droga dice di detestarla. Fa di più e precisa: “Se so che qualcuna delle mie star tocca anche solo una canna, la caccio via. L’ ho già fatto con tre persone. Niente nomi, ma quando ho saputo che facevano certe cose, gli ho detto arrivederci e grazie”. Fa niente poi se una ragazza della sua scuderia ammette: “Ho consumato cocaina all’interno del bagno del privè dell’Hollywood”. Francesca Lodo lo mette a verbale nell’ambito dell’inchiesta milanese di Vallettopoli. Lele Mora però tira dritto. Sull’argomento non transige. “Io sono contrario, l’ho sempre detto, e sempre lo ripeterò”. Oggi, poi, che la cocaina si insinua pericolosamente nel caso Ruby, l’ex parrucchiere di Bagnolo Po e grande amico di Silvio Berlusconi, tiene la linea. “Ad Arcore – racconta – l’unica droga è il divertimento”. Quindi va sereno all’incasso della fiducia illimitata da parte del Cavaliere che addirittura gli presta oltre un milione di euro per far fronte ai debiti della sua Lm Management. Qualcosa, però, non torna. La soubrette Sara Tommasi racconta, infatti, di strane sostanze mixate nei cocktail. “Non sai mai cosa Lele ti mette nel bicchiere”. L’ex partecipante all’Isola dei famosi lo racconta al telefono, aggiungendo particolari a una delle feste organizzate proprio da Mora.

Ombre e sospetti arrivano da ancora più lontano. In questo caso niente bunga bunga o cene ad Arcore. Ma una storia vecchia di oltre vent’anni. Non c’è villa San Martino, ma la Verona di fine anni Ottanta. Quella dei successi calcistici (uno scudetto nel 1984) e dei grandi campioni. Come l’argentino Caniggia. Superstar internazionale alla corte di Osvaldo Bagnoli, mister vecchio stampo, milanese, scorbutico, intransigente. Qualità che producono un’austerità da spogliatoio (Bagnoli diffiderà i suoi calciatori dal frequentare Mora) a cui fa da contraltare una vita mondana spinta all’eccesso. E all’ombra dell’Arena il regista della notte è sempre lui: Dario Mora in arte Lele. Il suo negozio di parruchiere diventa presto il ritrovo di vip, calciatori e belle ragazze. “Un’ attività gaudente – scrivono i giudici - i cui ingredienti tuttavia non erano soltanto le feste e le ragazze facili, ma anche la droga”. Cocaina soprattutto. Un brutto giro sul quale inciampa il futuro impresario televisivo e che gli costerà una condanna a tre anni poi scontata in Appello a un anno e sei mesi. Il tutto riassunto in un capo d’imputazione che pesa come un macigno. Oggi più di ieri. Leggiamo allora la sentenza del tribunale di Verona datata 30 marzo 1990 che Mora condivide con Pietro Bologna, trafficante siciliano (è nato a Capaci il 20 novembre 1953) sposato con Gabriella Mora, sorella di Lele. I due “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso hanno più volte acquistato e detenuto e venduto a terzi non modiche quantità di sostanza stupefacente”. Reato commesso a Verona nel mese di dicembre del 1988 e nei primi giorni del 1989.

Il copione prevede protagonisti e comparse: c’è Lele Mora e il trafficante siciliano, calciatori, belle ragazze, cantanti di successo. Non c’è la politica. Ma è solo questione di tempo. Arriverà qualche anno dopo, quando Mora rimarrà folgorato sulla via di Arcore. Nel frattempo il 18 gennaio 1989 “i Carabinieri di Verona segnalavano che, nel corso di una serie di intercettazioni si evidenziava un ampio quanta consistente giro attinente allo spaccio di stupefacenti”. Nel loro italiano indurito i carabinieri citano tra le varie persone intercettate Pietro Bologna, Dario Mora, sua sorella, e il calciatore Paul Claudio Canniggia.

Questo il primo atto che disegna il quadro. Le intercettazioni chiariscono e aggiungono particolari decisivi. Sono decine le telefonate che vengono annotate dai carabinieri. Altrettanti i brogliacci dove viene scritto il nome di Lele Mora. Il 21 dicembre 1988 Lele chiama di mattina presto il cognato trafficante. “Un certo Lele chiede a Bologna se ha niente. Bologna risponde che non ha niente, facendo cosi bestemmiare il Lele che afferma che non si può andare avanti cosi. Bologna spiega che sta attendendo una telefonata e che nonostante non prenda mai niente per telefono sta aspettando quei venti”.

In quel periodo il telefono di Pietro Bologna scotta e non poco. Una settimana prima delle telefonata di Mora, il trafficante parla con Caniggia. “Quest’ultimo si lamenta dicendo di stare male. Bologna attribuisce il malore al fatto che il vino si era alterato stando fuori dal frigo e si offre di portare altre due bottiglie di vino”. Quindi Bologna “ribadisce che non bisogna bere del vino rimasto fuori dal frigo. I due restano d’accordo per vedersi l’indomani, verso mezzogiorno, quando Bologna porterà delle altre bottiglie di vino”. I carabinieri registrano. Scrivono vino, ma sanno che si tratta di droga. Un salto logico ben spiegato dai giudici per i quali “si comprende agevolmente che quel qualcosa di cui i tre sono spesso alla ricerca, non può essere palesato chiaramente”. Da qui parole come dischi, automobili, cioccolatini utilizzate “con assoluta incongruità”.

Le intercettazioni, poi, chiariscono il ruolo di Mora nel traffico di droga. Lui è l’intermediario, ma soprattutto “protagonista di un’intensa attività mondana: si trova in rinomati e lussuosi locali cittadini nelle ore della notte, organizza feste, frequenta famosi personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo”. Conclusione: “Muovendosi in questo ambiente si preoccupa di procurare dei piccoli piaceri ai suoi amici e per questo ricorre all’aiuto del cognato”. Non è un caso, allora, che Caniggia e Bologna, parlando di comparvendita di droga si danno appuntamento “alla festa che Mora ha organizzato al ristorante Cambusa”.

Oggi come ieri, Mora si dà molto da fare. La sua filosofia in fondo è sempre la stessa: “Le persone – ha raccontato pochi giorni fa al giornalista Gianluigi Parragone – che mi stanno vicine devono stare bene ed essere serene”. E così’ la notte dell’ultimo dell’anno del 1988 “Patty Pravo parla con lo stesso Dario Mora, il quale le dice di poter disporre di un po’ di E e un po’ di A”. Quindi “le promette che si darà da fare per trovare dei cioccolatini, perché neanche il Bologna li ha reperiti”. Di nuovo quel linguaggio criptico, sul quale, in questo caso, farà luce lo stesso impresario dei vip ammettendo che quella frase serviva a nascondere una richiesta di hashish, fattagli dalla famosa cantante”. E di fumo, l’ex parrucchiere ne parla anche con Gabriella Mora. Il 2 gennaio 1989 le chiede “se può procurare del fumo per fare uno spinello”. In questa vicenda il rapporto tra i due appare chiaro. Lui “le impartisce precise indicazioni sui luoghi dove il Bologna deve recarsi”. Questo è successo. Ma oggi Lele Mora ribadisce che lui con la droga non c’entra nulla.


sabato 5 febbraio 2011

Federalismo municipale: più tasse per tutti. - di Stefano Feltri


Ecco che cosa accadrà quando sarà legge, tra buchi nei bilanci e sconti ai più ricchi

Adesso potrebbe essere questione di un mese. Se tutto andasse nel modo più favorevole al governo, cioè se non ci fossero ulteriori intoppi, il decreto legislativo sul federalismo municipale potrebbe anche essere approvato in via definitiva dall’esecutivo in poco più di trenta giorni. È questo il tempo previsto dalla legge delega 42 del 2009 per un dibattito parlamentare necessario nel caso in cui il governo voglia comunque approvare un decreto su cui gli organi parlamentari abbiano dato un parere negativo. Che è quello che è successo due giorni fa nella Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale (composta da 15 deputati e 15 senatori).

Anche nell’ipotesi che questo pezzo di federalismo, che riguarda le imposte gestite dai Comuni, diventi operativo, non ci sarà alcuna rivoluzione autonomista, non sarà la svolta promessa dalla Lega Nord ai suoi elettori, o lo strumento per raddrizzare “l’albero storto della finanza pubblica” annunciato dal ministro Giulio Tremonti. Semplicemente un altro po’ del carico fiscale si sposterà dai titolari di rendite (immobiliari) al lavoro dipendente, con grandi incertezze per i conti dello Stato e dei Comuni stessi. Abbiamo chiesto al professor Alberto Zanardi, ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Bologna, di spiegare cosa cambierà in concreto per i contribuenti e per i Comuni con le principali novità del federalismo municipale. Qui sotto le sue risposte.

Cedolare secca: risparmi per privilegiati
Riguarda la tassazione del reddito derivante da un immobile affittato. Per il contribuente il passaggio dall’Irpef alla cedolare secca con aliquota del 19 o 21 è opzionale, si può scegliere la soluzione. Lo sconto potenziale sulle imposte dovute è più rilevante per i contribuenti con un più alto reddito complessivo ed è indifferente per i redditi più bassi, che continueranno a scegliere l’Irpef. I comuni oggi ricevono circa 11 miliardi di trasferimenti. Ora al posto dei trasferimenti ci sono tributi devoluti e compartecipazioni. Tra questi la cedolare. Ma nella valutazione della ragioneria questa garantisce parità di gettito soltanto se emerge molto reddito ora sommerso. C’è quindi un problema di incertezza.

Addizionali Irpef: colpiti sempre i dipendenti
Per i Comuni si ritorna alla normalità: si passa dal blocco della possibilità di variazione delle aliquote Irpef a restituire le leve fiscali ai sindaci per aumentare, se ne hanno bisogno, il gettito. Ma se c’è una riduzione delle dotazioni dello Stato ai Comuni ci sarà una tendenza a usare questa leva, massimo per lo 0,4 per cento (con aumenti massimi dello 0,2 per cento annuo). Per i cittadini c’è il rischio di un aumento del peso di un tributo come l’Irpef che di fatto colpisce quasi solo dipendenti e pensionati. Sarebbe stato meglio riattivare l’Ici, per ripartire il peso tra lavoratori e percettori di rendite.

Scopo e turismo: 5 euro a notte e più infrastrutture
L’imposta di soggiorno e quella di scopo sono un’altra leva data ai Comuni, ma ancora non sono specificati i dettagli sul loro funzionamento. L’imposta di soggiorno attribuita ai Comuni capoluogo e a quelli turistici viene caricata sul prezzo di ogni notte di soggiorno, fino a un massimo di cinque euro. Il gettito che deriva dall’imposta deve essere utilizzato per finanziare spese collegate ai Beni culturali e questo è utile, perché i turisti producono reddito ma comportano costi. La tassa di scopo esisteva già, ma viene ampliata. Si tassano i cittadini spiegando che l’imposta serve per costruire un ponte, un’infrastruttura. Si allarga la tipologia di opere pubbliche finanziabili ma mancano ancora i dettagli.

Imposta municipale: più tasse per i commercianti
L’Imu (Imposta municipale unica) scatta dal 2014. Per i Comuni c’è l’incertezza che la nuova imposta garantisca lo stesso gettito delle imposte che accorpa. Cioè, all’85 per cento, l’Ici sulle seconde case e gli immobili commerciali. Cambia l’aliquota, stabilita allo 0,76 per cento, al di sopra del livello attuale che in media è lo 0,5 per cento. La ragione per cui aumenta è che su una parte dei redditi immobiliari gravano delle imposte dirette come l’Irpef. Si trasforma un’imposta sui redditi in una patrimoniale. Questa aliquota, secondo la relazione tecnica, dovrebbe generare parità di gettito. Per i Comuni comporta un limite all’intervento sulle aliquote, quindi minore autonomia. Per le imprese non si realizza la cancellazione dell’Irpef: continuano a pagarlo per gli immobili che usano per il loro lavoro. C’è quindi uno spostamento del carico fiscale a sfavore dei lavoratori autonomi, delle imprese e delle società di capitale che percepiscono redditi fondiari.

Fondo perequazione: chi ha avuto, ha avuto
È il vero elemento mancante del sistema. Dovrebbe sopperire alla diversa distribuzione delle imposte tra i diversi comuni, in modo da garantire ai Comuni di finanziare i fabbisogni standard delle loro funzioni. Cioè per i servizi fondamentali come gli asili nido, i trasporti pubblici locali, l’assistenza agli anziani. Ci saranno Comuni molto dotati perché hanno molte seconde case immobili commerciali, altri che non hanno questa fortuna. I Comuni dove ci sono tante prime case, sulle quali non si paga alcuna imposta, avranno relativamente poche entrate. Ci si aspettava un decreto legislativo che specificasse le fonti di finanziamento e le modalità di riparto di questo fondo a cominciare dalle direttive della legge delega. Invece non è specificato come si finanzia e come usa le risorse. Il problema è stato semplicemente rimandato, pericolosamente, visto che siamo vicini alla scadenza della delega (a maggio). Quindi non si sa quali saranno le risorse complessive a disposizione dei Comuni.




Quella bimba non resterà più senza mensa.


Tanta solidarietà tra i cittadini: un ex consigliere di Fossalta di Piave azzera l'affitto per la famiglia della bambina. Ma il sindaco va avanti e dà dell'integralista al padre

Le maestre le avevano offerto il loro pasto, il sindaco aveva accusato le maestre di danno erarialee la preside aveva minacciato le insegnanti di provvedimenti disciplinari spiegando di essere “obbligata dalla legge”. Ieri mattina – per fortuna – i genitori degli altri bambini della scuola hanno rimesso le cose a posto, con un bellissimo gesto di solidarietà. Sul palcoscenico di un asilo del basso Piave, si sono alternati l’alfabeto della ferocia e quello della gentilezza, il gesto di chi ha pagato per la piccola Speranza (anche se questo non è il suo vero nome) e la straordinaria scelta di un pensionato che oggi ospita gratuitamente la famiglia della bambina. Ma anche le parole di un sindaco che si è giustificato con queste incredibili argomentazioni: “La bambina è figlia di un noto estremista islamico”. Forse, nella sua visione tribale e integralista, l’idea di una rappresaglia legittimava lo sproposito della sua circolare.

Ma anche questa accusa ieri non trovava alcun riscontro: “Kabir (anche se questo non è il suo vero nome) – ci ha spiegato Giuseppe Dalcin, l’ex consigliere comunale del Pci che ha messo a disposizione della sua famiglia la propria casa – è andato in Belgio a cercare un impiego onesto perché aveva perso il lavoro. Ha lavorato otto anni come metalmeccanico, non l’ho mai visto lamentarsi. Quando è finito in cassa integrazione, un giorno mi ha detto: ‘Devo trovare un modo per sfamare la mia famiglia’”. Integralista islamico? “Un religioso islamico, direi. Qualcuno deve spiegare al sindaco la differenza”.

Così, quella di oggi è la seconda puntata di un dramma padano, la storia di una bambina di quattro anni che tre giorni fa si era addormentata, ritrovandosi suo malgrado in un incubo, e che adesso potrebbe risvegliarsi in una meravigliosa fiaba solidale. Ieri, da tutta Italia, migliaia di persone hanno chiamato e scritto per raccontarci i loro timori, la loro solidarietà e la loro rabbia. Un grande vento che ha iniziato a soffiare quando un lettore che si offriva di pagare la retta della mensa a mezzanotte e cinque di ieri, subito dopo aver letto il nostro giornale nell’edizione online. E che di prima mattina si è abbattuto come una tempesta sui centralini della scuola “Il flauto magico” e su quelli del Comune (di fatto inagibili per tutto il giorno). Non c’è molto da aggiungere: grazie. Ieri un frammento di Italia ha detto: “Se serve, pago io”.

Ma è anche la storia del cuore profondo del Veneto, dei tanti che a Fossalta di Piave, leghisti, non leghisti, di destra o di sinistra, facoltosi o indigenti, hanno considerato inaccettabile la decisione della preside della scuola, Simonetta Murri, che su queste pagine aveva difeso la decisione di riprendere le maestre per il loro digiuno a rotazione: “Quella scelta era grave e dannosa”. Ieri la preside è stata più prudente (e silente), mentre i rappresentanti dei genitori hanno provveduto a consegnare i buoni alla madre di Speranza: “La scena della bambina che piangeva perché veniva separata dai suoi amichetti – ha raccontato una di loro – ci ha devastato il cuore. Non avevamo e non abbiamo nulla contro l’amministrazione, non facciamo politica! Abbiamo fatto quello che qualsiasi genitore di buonsenso vorrebbe fare”.

Vuole restare anonima questa madre (come tutti gli altri che abbiamo sentito): “Non vogliamo medaglie. Non vogliamo che questa diventi una guerra sulle teste dei bambini. Vogliamo e volevamo, ‘solo’, risolvere un problema che non si poteva ignorare”. Un altro padre aggiunge: “Avevamo chiesto un colloquio con la preside. Le abbiamo parlato. E lei, ancora ieri, ci ha detto che non poteva fare nulla. Alcuni di noi hanno scelto di intervenire in forma privata. Le polemiche non servono a nessuno”.

Quella che stiamo scrivendo è una storia italiana. La storia di un paese sempre in bilico fra la cialtroneria e la generosità. Ieri il sindaco Massimo Sensini, leghista puro e duro, si è difeso come ha potuto: “Il buono pasto non può essere ceduto. E soprattutto non può essere istituzionalizzato il regalo a chi si vuole. È inammissibile”. Speranza è di origine africana, mulatta. Padre del Senegal e madre del Ciad, in Italia da dieci anni. La bimba ha quattro fratellini. Da quando il padre è partito per il Belgio la famiglia si trova in gravi difficoltà: la madre non parla l’italiano, ha chiesto aiuto ai servizi sociali. E qui il sindaco si impunta: “Sono già aiutati dal Comune che ha tagliato il costo del buono pasto da 4 euro e 45 centesimi a 2”. Una infanzia a rischio per 50 euro. A un passo dalla scuola, la famiglia viveva nella casa di Dalcin. Per un comodato di 300 euro, finché il papà ha lavorato. Poi gratis. L’ex consigliere parla con una voce calda, un lessico curato: “Usavo quei soldi per ammortizzare i costi, solo di riscaldamento: solo di quello, per il mio piano ed il mio spendo 700 euro al mese”.

Già, perché Dalcin vive da solo, con una pensione da mille euro. Ma adesso dice: “Io cinque bambini per strada non li metterò m-a-i. Piuttosto ci vado io, al freddo e al gelo”. Dalcin racconta che a fare la spesa è il fratello di Kabir: “Ha vent’anni. Si è diplomato brillantemente. Ha un lavoro, una famiglia da mantenere, ma si cura anche dei nipoti”. La Speranza questa sera è uscita dall’incubo, ha trovato un nome, una casa. E – pensate un po’ – persino un buono pasto.


STRAPPI E MIMOSE - di Ida Dominijanni


Per quanto tecnica sia la formula, l'aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch'esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l'ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.

Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c'è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l'unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall'altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all'ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com'è possibile?

È possibile, perché c'è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant'altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell'azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent'anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l'8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficace.


Da "il Manifesto del 5 febbraio 2010.