venerdì 3 giugno 2011

Diaz, promosso Mortola. - di Lia Quilici



L'ex capo della Digos genovese nei giorni dei pestaggi è stato nominato questore dal ministro Maroni. La Corte d'Appello gli aveva appena inflitto 3 anni e otto mesi per i fatti del 2001.

La Polizia di Stato da oggi può vantare un nuovo questore, fresco di promozione. Si chiama Spartaco Mortola, nato a Camogli e attualmente numero due alla questura di Torino: è uno dei poliziotti condannati in appello per il blitz del 2001 alla scuola Diaz, a Genova, durante il G8.

La notizia è destinata creare non poche polemiche, a quasi dieci anni dalla "macelleria messicana" e a poche settimane dalla pubblicazione della sentenza di secondo grado per quei fatti.

A Mortola è stata inflitta una pena di tre anni e otto mesi perché faceva parte di quel gruppo di uomini delle forze dell'ordine che «preso atto del fallimentare esito della perquisizione, si sono attivamente adoperati per nascondere la vergognosa condotta dei poliziotti violenti concorrendo a predisporre una serie di false rappresentazioni della realtà a costo di arrestare e accusare ingiustamente i presenti nella scuola», come recitano appunto le motivazioni dell'appello. In primo grado Mortola era stato assolto.

All'epoca dei fatti Mortola era il capo della Digos di Genova, quindi il poliziotto a cui facevano riferimento - per conoscenza del territorio - gli altri funzionari spediti nel capoluogo per il G8 da Roma e da Napoli. Fu pertanto a lui che vennero affidate le famose bottiglie molotov portate dalla stessa Digos all'interno della scuola per giustificare il pestaggio che ne segui. Al processo, Mortola ammise che portare quelle bottiglie incendiarie nella scuola fu «una forzatura giuridica». Il Tribunale ha ritenuto che si trattava di qualcosa di un po' più grave.

Insieme a Mortola sono stati condannati in secondo grado altri 24 imputati, tra cui il capo dell'anticrimine Francesco Gratteri (4 anni), l'ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini (5 anni), Giovanni Luperi (4 anni) e Gilberto Caldarozzi (3 anni e 8 mesi).

Nella sentenza, la Corte ha stabilito che la violenta repressione del 21 luglio 2001 (il giorno dopo l'uccisione di Carlo Giuliani) e l'irruzione alla Diaz erano nate da una «richiesta» arrivata dall'allora capo della polizia Gianni De Gennaro, a sua volta promosso capo dei servizi segreti. Una «pressione psicologica» che per la Corte però «non giustifica in nulla la commissione dei reati né l'eventuale malinteso spirito di corpo che ha caratterizzato anche successivamente la scarsa collaborazione con l'ufficio di Procura». Insomma, i poliziotti potrebbero essere poi andati al di là delle intenzioni, con i pestaggi e le violenze.

La notte del 21 luglio 2001 fu in effetti una delle pagine più nere della storia della polizia italiana. Nell'operazione Diaz rimasero vittime decine di persone del tutto estranee agli incidenti che erano avvenuti il giorno precedente.

Il segretario generale del sindacato di polizia Siulp, Roberto Traverso, ha duramente contestato la decisione di promuovere Mortola: «Cosa diranno i genovesi adesso? Oltre al danno, è una beffa per la nostra categoria, che per quei maledetti giorni del 2001 sta ancora pagando mediaticamente un prezzo altissimo. L'amministrazione non ha mosso un dito per la 'truppa' ma promuove i vertici condannati».

Non si sa ancora a quale città italiana verrà destinato il nuovo questore. Nessun commento sulla nomina è arrivato dal ministro degli Interni Roberto Maroni, responsabile della promozione.



Calciopoli, il tariffario della corruzione Ecco quanto costava truccare le partite.


Per alterare i risultati delle partire erano state fissate cifre precise: 400mila euro per la seria A, 120mila per la B, 50mila per la C.


di MARCO MENSURATI e MATTEO TONELLI

Calciopoli, il tariffario della corruzione Ecco quanto costava truccare le partite
ROMA - Parlavano al telefono e muovevano denaro. Con tanto di tariffario fatto apposta per decidere il corso delle partite.Insomma, una vera e propria associazione a delinquere dedita alla corruzione. In manette sono finite 16 persone. Compresi Beppe Signori. Tra gli indagati, invece, ci sono Stefano Bettarini e Cristano Doni, capitano dell'Atalanta.

Non solo. Secondo i magistrati era stato definto un vero e proprio tariffario per alterare i risulati delle partite. A deciderlo gli "zingari", uno dei tre gruppi (gli altri sono i "bolognesi" e gli "albanesi") che, scrivono i magistrati nell'ordinanza, erano stabilmente coinvolti nell'organizzazione. E mentre gli "albanesi" cercavano di consegnare direttamente ai giocatori coinvolti il denaro, gli "zingari", guidati da Almir Gegic, cittadino slovacco residente a Chiasso, avevano definito un preciso tariffario: per le partite di serie A venivano stanziati 400mila euro, per quelle di B, 120mila, per la Lega Pro 50mila. I "bolognesi" invece pretendevano titoli bancari a copertura delle giocate.

Se si scorrono le pagine dell'ordinanza e si vede come, a volte, le partite da "gestire" contemporaneamente sono cinque. In particolare nella Lega Pro dove gli stipendi più bassi rendono più facile la manipolazione dei risultati. Un esempio? Nelle intercettezioni si sinte dire che i prezzi sono alti
e che “la B in giro la pagano 120 la C la pagano 60”.

Evidente, inoltre, l’abitudine alla “combine” e il poter disporre di giocatori fissi sui quali contare. Quando parlano del numero dei giocatori corrotti, i componenti del gruppo, li definiscono “nostri”. Facendo intendere la stabilità del rapporto. Che le intercettazioni svelano.

“…i miei stanno ancora chiusi dentro lo spogliatoio non li fanno uscire”
“Ne hanno due o tre dei nostri?”
A proposito di Atalanta Piacenza: “
C’ho dei miei che giocano lì, loro vanno a perdere”
“Dei nostri domani?...quasi tutti”.
“pure quello in porta?”.
“ho chiamato il mio uomo gli ho mandato un messaggio…”

Se il potere non ascolta il popolo di Internet.



Il G8 del web voluto da Sarkozy è stato un grande evento potenzialmente rivoluzionario, ma chiuso da parole vaghe per quanto riguarda i diritti e molto chiare nel campo degli interessi.

di Stefano Rodotà

Si può organizzare un "evento storico" su Internet senza il "popolo" di Internet? Si può esaltare il ruolo di Internet nel rendere possibili cambiamenti democratici e poi essere reticenti o silenziosi sulla effettiva tutela dei diritti fondamentali in rete? Si può definire Internet "un bene comune" e poi affermare l'opposto, la sua sottomissione alla logica della proprietà privata?

Sì, è possibile, per quanto contraddittorio o paradossale ciò possa apparire. È accaduto la settimana scorsa tra Parigi e Deauville, in occasione del G8 che Nicolas Sarkozy ha voluto far precedere da un grande incontro dedicato appunto ai problemi di Internet. Mettere questo tema al centro dell'attenzione mondiale poteva essere un fatto significativo se fosse stato accompagnato da presenze, proposte, conclusioni davvero corrispondenti alle dinamiche innovative, alle opportunità, alle sfide difficili che ogni giorno Internet propone a miliardi di persone. Non è stato così. Le molte parole dedicate a Internet nel comunicato finale del G8 sono vaghe quando si parla di libertà e diritti, e terribilmente precise quando vengono in campo gli interessi. Un esito prevedibile e previsto. Nelle parole di apertura di Sarkozy, infatti, Internet non è il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia conosciuto. È, invece, un continente da "civilizzare", dunque un luogo dove si manifestano in primo luogo fenomeni negativi che devono essere eliminati.

Questo rovesciamento di prospettive non sorprende. Sarkozy è il governante che più ha sostenuto la necessità di affrontare i problemi del diritto d'autore unicamente con norme repressive, riproponendo in ogni occasione la sua legge Hadopi come modello, e che ha subordinato il rispetto della stessa libertà di espressione alle esigenze di forme generalizzate di controllo (è appena uscita in Francia una raccolta di analisi critiche delle sue politiche dal titolo Sarkozysme et droits fondamentaux de la personne humaine). È il politico che affida la "grandeur" francese ad una agenzia pubblicitaria, che ha organizzato l'incontro di Parigi, e la fa puntellare dalla presenza di quei padroni del mondo digitale che si chiamano Google, Microsoft, Facebook, che tuttavia hanno profittato dell'occasione per rivendicare un intoccabile potere.

Il comunicato finale del G8 rispecchia largamente questo spirito. Si parla del ruolo fondamentale di Internet nel favorire i processi democratici, ma non compare neppure un pallido accenno alle persecuzioni contro chi adopera la rete come strumento di libertà, alle decine di bloggers in galera in diversi paesi totalitari, alle forme indirette di censura in paesi democratici. Si subordina così il rispetto dei diritti fondamentali, della libertà di manifestazione del pensiero in primo luogo, alle logiche della sicurezza e del mercato, con un evidente passo indietro rispetto a quanto è da tempo stabilito, ad esempio, dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali dell'Onu. Si inneggia alla presenza di tutti gli "stakeholders", dunque di tutti gli attori dei processi messi in moto da Internet, ma poi si opera una drastica riduzione di queste presenze a qualche ministro francese (assenti i politici di altri paesi, in particolare gli americani notoriamente assai critici) e ai rappresentanti delle grandi imprese.

Una scelta così clamorosa e spudorata, che ha portato persino alla esclusione dei rappresentanti delle istituzioni che assicurano il funzionamento di Internet (Icann, Isoc), ha provocato una reazione dei pochi rappresentanti della società civile lì presenti, che hanno improvvisato una dura conferenza stampa, dove hanno preso la parola personalità rappresentative e tutt'altro che estremiste, come Lawrence Lessig e Yochai Benkler.

Siamo in presenza di una preoccupante regressione politica e culturale. L'esclusione degli altri attori, del popolo di Internet, ha determinato la cancellazione delle più interessanti elaborazioni e proposte di questi anni su modalità e principi ai quali riferirsi per il funzionamento di Internet.

Siamo tornati alla contrapposizione frontale tra regolatori, identificati con chi vuole imporre alla rete controlli autoritari, e difensori di una libertà in rete identificata con la libertà d'impresa. è stata ignorata la dimensione "costituzionale", quella che mette al primo posto una serie di principi fondamentali che tutti, legislatori e imprese, devono rispettare. Così stando le cose, sono ben fondate le critiche di chi ha parlato di un "takeover" dei governi su Internet, di una dichiarata volontà politica di mettere le mani sulla rete. E si è svelato pure il significato del richiamo al diritto di accesso da parte delle imprese.

Quando Eric Schimdt, parlando per Google, ha detto che l'unico compito dei governi deve essere quello di assicurare a tutti l'accesso ad Internet, certamente ha colto un punto essenziale, come dimostrano le molte costituzioni e leggi che in tutto il mondo stanno affrontando questo tema. Ma la sua indicazione si concreta poi in una richiesta volta soprattutto a rendere possibile la fornitura di servizi capaci di generare crescenti risorse pubblicitarie (ultimo Google Wallet), dunque di immergere sempre più profondamente le persone nella logica del consumo, mentre altra cosa è il libero accesso alla conoscenza in rete.

Certo, le imprese fanno il loro mestiere. Ma la loro capacità di produrre innovazione non può tradursi nella legittimazione ad essere gli unici regolatori di Internet. Perché è proprio così, dal momento che dispongono delle informazioni sui loro utenti, che sono i decisori unici e finali di molte controversie su che cosa deve entrare o rimanere in rete, che troppe volte hanno accettato le imposizioni di governi con l'argomento che stare sul mercato significa rispettare le regole nazionali, che esercitano un enorme potere economico.

I pallidi e retorici accenni alla privacy nel comunicato del G8, l'assenza di riferimenti alle posizioni dominanti di molte imprese, rivelano l'intento di una politica che vuole salvaguardare i propri poteri autoritari riconoscendo alle imprese un potere altrettanto autoritario. Inquieta, poi, la mancata analisi del tema della neutralità della rete, essenziale presidio per libertà e eguaglianza.

Ma questo disegno, questa nuova distribuzione del potere planetario non sono una via regia che potrà essere percorsa senza resistenze. Si potrà far leva sulle stesse contraddizioni del comunicato, cercando di rovesciarne le gerarchie e mettendo così al primo posto i riferimenti a libertà e diritti, alla pluralità degli attori.

Alla povertà e all'autoritarismo di quel comunicato si potrà opporre la ricchezza del rapporto dell'Onu sulla libertà di espressione che sarà presentato nei prossimi giorni a Ginevra. Peraltro, non sembra che tutti i governi siano pronti ad identificarsi con quella linea, come già mostrano alcune indirette riserve americane e le interessanti dichiarazioni del ministro degli Esteri tedesco. E soprattutto i soggetti e i progetti cancellati dal G8 con una mossa autoritaria rimangono vitalissimi e con essi, con la forza propria di Internet, bisognerà pure fare i conti.

La grande partita politica di Internet rimane aperta.



Io sono io.



Il Caro Sconfitto palpeggia il Re di Spagna, commettendo la ennesima gaffe della sua carriera di capo del governo italiano. Si autonomina un segretario politico del Partito con la stessa impudente noncuranza con la quale avrebbe scelto un cameriere o una guardia del corpo, ignorando i poveri illusi o i fessi che vorrebbero “democrazia” interna in un partito da Corea del Nord. Lascia al loro posto tre coordinatori che non hanno coordinato proprio nulla viste le trombature a tappeto. Si prepara a nominare ministro della Giustizia un altro dei suoi cagnolini da presa che continuerà a ringhiare contro la magistratura e proporree leggi improponibili. Si lancia nel solito numero contro il “micidiale” Santoro e AnnoZero, che quindi incasseranno altra pubbllcità, e conferma dunque il valore politico nazionale della stangata, e contro il TG3, che ha un numero limitatissimo di ascolti. Rispedisce Feltri al suo Giornale da Libero, del quale ci avevano raccontato che lui era diventato addirittura “comproprietario” con Belpietro, dopo il disastro della coppia Sallusti-Santanchè, roba comica da Zamparini con gli allenatore del Palermo. E ricomincia con le frottole dei sondaggi che “ci danno davanti”, quei sondaggi che tanto bene lo avevano servito nella campagna elettorale di Milano e Napoli. Insomma, buone notizie per gli amici e i fan del Caro Molestatore di Capi di Stato e soprattutto per i suoi avversari: non è cambiato niente. Berlusconi non può cambiare Berlusconi.



Si riparte verso la svolta.




L’auspicata ripartenza del Panico della Libertà, il Pdl, annunciata trionfalmente dal TG è avviata ed è già avvenuta “la svolta”, wicker-sidecar_yale-mcycledice Tele Salò, non si capisce bene per andare dove, ma comunque “ha svoltato”. Ecco qui il nuovo equipaggio democraticamente deciso dopo una riunione di Silvio con Berlusconi e ripreso alla partenza verso nuovi e gloriosi destini: Alfano, che ha buttato i sigilli che guardava fino a ieri, al manubrio, Silvio nel carrozzino del sidecar perchè alla sua età è meglio non portare le moto. “The three stooges”, ‘gnazio “Guaddro Gaccia” LaRussa, Bancomat Verdini e “Midimetto” Bondi sono ovviamente fuori dalla foto. Pronti? Vroooom vroooom, via!




Quando l'amico è un tesoro la rete realizza i tuoi progetti.


Grazie al finanziamento dal basso, chi propone sul web una buona idea può vederla concretizzare mobilitando amici e contatti. All'estero funziona e qualcosa si muove anche in Italia.


di ALESSIA MANFREDI

C'ERA una volta chi aveva una grande idea, il sogno di una vita, un progetto su cui avrebbe scommesso anche la mamma, ma nessun mezzo a disposizione per realizzarlo. Oggi c'è Internet e ci sono i social network. E una cosa che si chiama crowdfunding, ovvero finanziamento dal basso, di massa, che punta sull'enorme potenziale di amici e contatti in rete e sfrutta Internet come bacino per la raccolta di fondi. Idea amatoriale? Mica tanto: col crowdfunding il Louvre ha comprato un quadro di Cranach, Le Tre Grazie 1: a forza di singoli contributi, da un minimo di un euro a donazioni ben più consistenti, il museo parigino è riuscito a mettere insieme in un mese un milione di euro, la cifra che mancava per poter aggiungere alla sua collezione la preziosa tela. Tous mécènes, tutti mecenati: questo il nome della campagna che ha permesso di raggiungere l'obiettivo grazie alla massa critica della rete e che distilla perfettamente l'essenza del fenomeno. Con le microdonazioni, poi, Barack Obama, molto attento al web 2.0, su internet ha raccolto 500 milioni di dollari per la sua campagna elettorale, un caso che ha fatto scuola.

L'idea del crowdfunding è semplice: l'unione fa la forza e il mezzo è la rete. Si propone un progetto e chi lo trova interessante può sostenerlo ovunque si trovi, dando un contributo. Donazione dopo donazione, clic dopo clic, si contribuisce a realizzare il budget richiesto per dare vita all'idea. Se lo si raggiunge, nel tempo che ci si è prefissato, si incassano i fondi e, via, si parte.

I big all'estero. Kickstarter 2, la "più grande piattaforma per promuovere progetti creativi nel mondo", come si presenta, da New York, è stato il precursore, scommettendo sul fatto che una buona idea, se presentata nel modo giusto, viaggia veloce. E che un gruppo allargato di persone può diventare una strepitosa miniera di fondi ed incoraggiamento. Su Kickstarter, ad esempio, ha visto la luce Diaspora 3, social network open source, che fa della difesa della privacy la propria bandiera. Una sorta di anti-Facebook che sulla piattaforma ha raccolto 200mila dollari, ben oltre i 10mila richiesti per la partenza.

All'estero il canale è ben testato e ha dato risultati a diverse cifre, soprattutto in ambito artistico e creativo. Colossi come Indiegogo 4 o la vetrina francese di Ulele 5, coinvolgendo la comunità del web, sono riusciti a presentare migliaia di progetti, bizzarri o meno: dall'idea di ripristinare la connessione internet a Misurata, in Libia, al lancio del primo cd per l'esordiente Melissa Simonson. Altri siti vanno più sullo specifico: Spot us 6- che ha anche un equivalente italiano 7 - ad esempio è una start-up che fa incontrare freelance e lettori, che possono decidere di finanziare inchieste o reportage specifici, ricevendo poi aggiornamenti sullo stato di avanzamento del progetto. O emphas.is, 8 per il crowdfunding applicato al fotogiornalismo, mentreSellaband 9 cerca finanziamenti esclusivamente per promuovere la musica.

Il crowdfunding si è rivelato prezioso anche nel sociale e per la gestione di emergenze: basta pensare aCauses 10, una applicazione su Facebook che permette di far cassa per diverse campagne - e una delle ultime è stata quella per il terremoto in Giappone - che, dal 2004 ha finanziato 300mila progetti, raccogliendo 16 milioni di dollari.

Il panorama italiano. E in Italia? Qualcosa si muove ma l'idea fatica a decollare, un po' per diffidenza, un po' per la difficoltà a far capire esattamente di cosa si tratta. Uno dei primi siti è stato YouCapital 11 - legato all'associazione no profit Pulitzer - pensato per giornalisti, freelance o blogger che hanno un'inchiesta da realizzare e cercano fondi, che oggi ha oltre 21mila sottoscrittori. Eppela 12, piattaforma di crowdfunding made in Italy, è l'ultimo arrivo, nata da poche settimane per finanziare dal basso idee e progetti, come costola dell'agenzia di comunicazione anteprimaADV. Si rivolge a talenti europei, appassionati o professionisti, privati o istituzioni, dando loro una vetrina dove poter presentare le proprie idee, divise in categorie: Public e no profit, art e entertainment, Life e technology.

"E' un progetto aperto e indipendente", ci tiene a spiegare Nicola Lencioni, amministratore delegato, "cui tutti possono partecipare". L'importante è che l'idea sia buona. "Eppela è pensata come uno spazio a 360 gradi, dove si possono avere informazioni ed interagire su diversi livelli, in un'ottica di acquisto e non di charity". Cioè? Si donano, ad esempio, due euro per un progetto in ambito musicale ma in cambio si ha qualcosa di esclusivo, che può andare da un incontro con l'artista che si sceglie di sostenere, al cd autografato che si ha contribuito a far realizzare. Chi dona riceve cioè un plus personalizzato. "Ci sono tantissimi progetti che potrebbero diventare fiori all'occhiello, ma rischiano di non vedere mai la luce se non si hanno le possibilità o gli agganci giusti. Perché i canali tradizionali di finanziamento preferiscono investire sul sicuro e non correre rischi. Eppela vuole dare a loro una chance", dice ancora Lencioni, "che si tratti di singoli o istituzioni", sfruttando le potenzialità della rete e la sua capacità di aggregazione.

Come funziona. Il modello che segue Eppela è quello di Kickstarter: dopo aver superato uno screening di qualità e specifiche di eticità, il progetto può essere presentato sulla piattaforma. Si fissa un budget minimo da raggiungere entro una precisa scadenza e una serie di "ricompense" di crescente importanza a secondo dell'importo donato. Si cerca poi di pubblicizzare il più possibile fra amici e contatti l'idea. Se il budget si raggiunge, la raccolta fondi può continuare, senza limiti, fino alla scadenza prevista. In quella data, all'autore si verrà versata l'intera somma realizzata e il 5 per cento andrà a Eppela. Se il budget non si raggiunge, il progetto viene chiuso e nessuno ci rimette o guadagna nulla.

Un canale ormai rodato all'estero. In Italia però ci si scontra ancora con il pregiudizio legato all'online e alla sicurezza. "Siamo ancora indietro rispetto agli altri", ammette Lencioni, eppure 7 persone su 10 hanno una connessione internet e siamo i secondi in Europa per uso di social network". Il primo progetto di Eppela è Eppela stesso: budget fissato 12mila euro, deadline a 30 giorni. "E' una pura provocazione, per metterci in discussione", dice Lencioni. A una settimana dalla scadenza, rimane da coprire circa un terzo del del budget prefissato.

Parola chiave: trasparenza. Il segreto del successo sta tutto nella trasparenza, per Creative Swarm 13, piattaforma open source creata da un team di italiani per far incontrare progetti creativi con potenziali supporter. "Cerchiamo di differenziarci in diversi modi", racconta Sebastiano Amato, ingegnere, informatico e presidente e cofondatore di Creative Swarm, ora in fase di ridefinizione. "Vogliamo essere completamente cristallini", spiega, "e per questo ci siamo costituiti come associazione no profit. E ci sembra importante tutelare le idee messe on line, certificandone la data di immissione, per mettere al riparo gli autori da eventuali plagi, cosa che purtroppo, a volte, succede", spiega. Su Creative Swarm, sciame creativo, i progetti vengono valutati in base al gradimento del pubblico, al valore dell'idea stessa e in base ad un rating anche etico sulle informazioni che l'autore da di sé stesso. Per i tempi di raccolta dei fondi "non c'è una slot fissa", dice Amato, ma in funzione del rating del progetto e della cifra che si vuole raggiungere, si decide un tempo massimo. E non è detto che il contributo debba essere strettamente finanziario: "sulla piattaforma un progetto si potrà sostenere anche in altro modo, come un libero professionista che decide di aiutare una start-up mettendosi a disposizione gratuitamente come consulente, o un'azienda che decide di concedere uno spazio fisico per un progetto in fase di nascita", chiarisce Amato, che conta di essere pienamente operativo con la piattaforma il prossimo anno.

Amici e contatti? Un capitale. "With a little help from my friend", cantava Joe Cocker. E gli amici in genere sono bendisposti a dare una mano anche mettendo mano al portafogli, ma si devono fidare. Capire dove va esattamente il loro contributo, essere informati dei progressi, sentirsi coinvolti. Ne è convinto Alberto Falossi, consulente informatico e professore all'università di Pisa, dove insegna come sfruttare l'informatica in azienda e nel business. E' lui la mente dietro Kapipal 14, sito italiano di crowdfunding - anche se tutto in inglese - partito nel 2009 il cui mantra è i "tuoi amici sono il tuo tesoro". Sono loro che ti fanno realizzare i tuoi sogni, si legge nel manifesto sul sito. Che continua così: il tuo capitale dipende dal numero di amici, e dalla fiducia e in ultimo cresce a forza di passaparola.

Quello della fiducia è un aspetto chiave, dice Falossi, ricordando che almeno la metà dei progetti in cerca di crowdfunding non trova contributi, sia su Kapipal come sul gigante Kickstarter, perché gli utenti non donano agli sconosciuti oppure perché la comunicazione non ha funzionato.

Kapipal - un gioco di parole su capital e pal, amico - a differenza degli altri punta soprattutto su progetti personali. A colpi di mouse si può donare, attraverso Paypal, per la causa che si trova più degna, accattivante, originale o semplicemente simpatica. Si può scegliere, ad esempio, di sostenere Katie Bradley, una ragazza di 14 anni inglese con tanto di occhioni blu imploranti, che vuole andare ai campionati mondiali junior di taekwondo in Gran Bretagna, ma ha bisogno di tirare su 250 sterline. Aiutare una scuola del Perù che deve comprare una lavagna o dare una mano ad Ayana a comprare il regalo di compleanno ideale per il suo Curtis, qualcosa di davvero speciale ma un po' fuori budget per lei.

"Finora abbiamo raccolto circa 280mila dollari, ma il grosso del traffico viene da fuori, dalle Americhe soprattutto", dice Falossi. "In Italia la percentuale è ancora modesta, anche se qualcosa sta cambiando". Scontiamo un problema culturale, di diffidenza verso carte di credito e pagamenti on line. "Ma se si riescono a coinvolgere amici e familiari, allora va decisamente meglio. Per questo preferisco i progetti piccoli, dalla lista di nozze al cellulare nuovo", racconta.

Il papà di Kapipal crede in questa forma di mecenatismo moderno digitale e scommette che prima o poi crescerà anche da noi. "Il potenziale è enorme" dice, "è la potenza della folla". Non sarà la soluzione a tutti i problemi, anche in tempi di crisi, ma "se nel tuo piccolo hai già investito fra i tuoi amici, qualcosa ti ritorna, anche in termini economici", conclude. E' il capipalismo, stupido.



Cina senz’acqua: la siccità mette a rischio la crescita economica.



La Cina rischia di rimanere completamente a secco. Quanto meno nelle province bagnate dallo Yangtze, dove le autorità stanno cercanto di trovare un modo per contrastare quella che sta per trasformarsi nellapeggiore siccità da più di cinquant’anni. Persino il lago Poyang, uno dei più grandi bacini d’acqua dolce della Repubblica popolare, si è quasiprosciugato, rendendo impossibile il transito delle navi da carico. Dal 2000 ad oggi Pechino ha visto scomparire 35 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, un crollo che ha avuto un impatto devastante non solo sulla pesca, sull’agricoltura -oltre un milione di ettari di terreno in sette province della Cina centrale sono rimaste a secco- e sulla vita quotidiana dei cinesi, ma anche sull’industria, che soffre il calo della produzione dienergia elettrica. Persino la Diga delle Tre Gole, per colpa della siccità, ha visto il proprio output energetico ridursi del 20%. E c’è chi è convito che presto diventeranno necessari i razionamenti.

Ad attenuare le devastanti conseguenze del riscaldamento globale e di una crescita esagerata dell’economia, sommate a una condizione pregressa di scarsità d’acqua cronica, non sono bastati i 4.000 razzi a ioduro d’argento che Pechino ha deciso di sparare per favorire la formazione di nubi capaci di produrre pioggia lungo il corso dello Yangtze. E ora il grande fiume cinese è diventato impraticabile in moltissimi punti, rendendo molto più complicata la distribuzione di merci e carburante nel paese, visto che su questa arteria sono sempre state trasportate almeno cento miliardi di tonnellate di merci all’anno.

Per evitare di perdere del tutto il controllo della situazione, il governo ha deciso di provare a far salire il livello del fiume rilasciando enormi quantità d’acqua proprio dalla Diga delle Tre Gole, ma più passa il tempo più risulta evidente che non basteranno interventi di emergenza a risolvere un problema fin troppo complesso. E’ infatti difficile trascurare che sullo Yangtze sono state costruite più di cento dighe, i cui serbatoi devono essere riempiti togliendo acqua al fiume. Contemporaneamente, sembra poco realistico immaginare che la Cina riesca a limitare l’uso dell’acqua puntando su fonti energetiche alternative e migliorando l’efficienza della rete di distribuzione delle risorse idriche nei centri urbani. Anche se, lamentano gli abitanti dei villaggi che circondano il lago Poyang, una buona parte dell’acqua cinese viene sprecata a causa della scarsa manutenzione degli impianti che alimentano le dighe o portano l’acqua ai villaggi più che alle città.

Chi ha perso i raccolti ormai non sa più che fare, anche perché da febbraio ad oggi ha piovuto solo una volta e secondo le previsioni per nuovi rovesci bisognerà aspettare la fine dell’anno. Il governo la settimana scorsa ha ammesso che il completamento della Diga delle Tre Gole ha compromesso l’equilibrio idrico e ambientale della zona, ma il punto è che gli effetti di questo disastro ecologico senza precedenti iniziano a farsi sentire anche nelle metropoli. A Shanghai, ad esempio, nei due serbatoi di acqua dolce più importanti è entrata acqua salata, un fenomeno che, in genere, si verifica nella stagione secca, in invernno o primavera, mai all’inizio dell’estate. E anche in virtù di una riduzione delle precipitazioni del 50% da gennaio a maggio le Nazioni Unite hanno deciso di inserire la metropoli tra le sei città al mondo più a corto di acqua.

Le infiltrazioni di acqua salata sono costose da gestire più che pericolose perché rendono necessario un doppio trattamento dell’acqua per farla tornare potabile, e la Cina non può certo permettersi di vedere salire alle stelle i costi di gestione delle riserve idriche in un momento in cui camion carichi di rifornimenti straordinari continuano a spostarsi da un punto all’altro del paese per rimediare a una situazione che si fa ogni giorno più preoccupante. Senza dimenticare che razionamenti e difficoltà nei trasporti potrebbero comportare una pericolosa battuta d’arresto per l’economia del gigante asiatico.