domenica 19 giugno 2011

SUD ITALIA DAL 1861 TERRONI - VIDEO ILLUMINANTE FANTASTICO




Pontida, Bossi: “Guida di Berlusconi può finire. Rischio alleanza alle prossime elezioni”.

“Questa la risposta ai coglioni giornalisti: la Lega è rotta? Vi romperemo noi”. Così Umberto Bossi apre il suo comizio a Pontida. E a Silvio Berlusconi, dopo i ringraziamenti per il federalismo fiscale, manda a dire: “La tua leadership può finire”. Così come l’alleanza alle prossime elezioni. Insieme al giuramento dei 52 nuovi sindaci del Carroccio neoeletti, il discorso del Senatùr era il momento più atteso dal pubblico. ”La Lega è una, compatta, per il suo segretario federale – arringa il presentatore dal palco prima dell’intervento -. Facciamolo capire bene chi è il capo della Lega”. Che però parla guardando dal palco un grande striscione non dedicato a lui: “Maroni presidente del Consiglio”, recita. Un anticipo dell’ambiguità notata nel comportamento di Bossi, durante l’intervento, proprio nei confronti del ministro dell’Interno. Al fianco del leader stava il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli. Più defilata la posizione di Maroni, l’unico di tutto lo stato maggiore del Carroccio a indossare un abito anziché la tradizionale camicia verde.

Il primo passaggio del discorso di Bossi è dedicato al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Un seguito delle polemiche di ieri tra i colonnelli del Carroccio e il ministro riguardo all’urgenza di una riforma fiscale. ”Caro Giulio, se vuoi avere ancora i voti della Lega in parlamento ricordati che non puoi più toccare i comuni”. Il Senatùr contesta il patto di stabilità, che blocca diversi “miliardi” delle amministrazioni comunali. “Caro Giulio, va riscritto”, manda a dire Bossi. Perché “le persone sono più importanti del mercato” e “i soldi si possono trovare”. Qualche spunto lo fornisce lo stesso Bossi. Innanzitutto interrompere le missioni di pace all’estero, da cui si potrebbe recuperare “un bel miliardino”. Oppure tagliare i costi della politica, “gli sprechi”, li definisce il Senatùr. “Come le auto blu – dice -, io ho un’Audi, ma l’ho comprata io”. ”Secessione“, urlano intanto i militanti tra il pubblico. ”Se volete la secessione, ci si prepari – risponde Bossi dal palco -. La Lega verrà incontro ai popoli del nord che vogliono una pressione molto forte verso il centralismo, e lo avranno. L’altra volta ci ha fermato la magistratura, questa volta saremo ancora più incazzati”.

Ma se il leader leghista è polemico con Tremonti, dedica al premier parole di apprezzamento, prima dell’avvertimento. I padani, “schiavi del centralismo romano”, ricordano e ringraziano Berlusconi per l’aiuto sul federalismo fiscale che “non sarebbe passato senza i suoi voti”. Appena dopo, l’affondo: “La tua leadership è in discussione”, manda a dire Bossi al Cavaliere. “Può finire a partire dalle prossime elezioni – continua – se non ascolterà attentamente le proposte che facciamo”. E non darà risposte “in tempi certi”, fissati nei prossimi tre mesi. Elezioni, quelle ricordare dal leader del Carroccio, a cui comunque “non è detto” che la Lega sostenga il premier, precisa. “Qualcuno si illude e dice ‘Bossi non può più andare da solo’ – continua -. Invece noi possiamo andare da soli quando vogliamo”. Al momento però, precisa il Senatùr, l’idea non è quella di creare una crisi nella maggioranza. Non adesso almeno. “Questo è un momento favorevole alla sinistra – spiega Bossi – quindi far cadere il governo sarebbe fargli un favore”.

Ma se la leadership del premier può finire, quella di Bossi va dimostrata salda. “Il capo” lo chiama Calderoli durante il suo intervento sulle quote latte. In cui invita a “mangiare padano” e non “prendere gli escherichia coli degli altri”.”Questo sarà un anno in cui l’identità padana ritornerà a pigliare il volo – rassicura Bossi -. Sarà una grande battaglia e non ci saranno magistrati che potranno fermarla”. Né tanto meno la sinistra. “Bersani dice che abbiamo la spada moscia? – ricorda una provocazione del Pd, riferita al simbolo di Alberto da Giussano -. Lo sperano i nostri nemici, così non se lo prendono in quel posto”. Una battaglia che passa anche e soprattutto per ildecentramento dei ministeri. “Ci saremo io e Calderoli – ha spiegato – se viene anche Maroni, tutto di guadagnato”. Una frase non proprio incoraggiante. “Pensaci – ha insistito -, se vuoi venire lì c’è un tavolo anche per te”. Un’espressione che fa apparire il ministro distante dalla coppia Bossi-Calderoli, vicina anche sul palco. “Sui ministeri Berlusconi aveva già firmato il documento – conclude il Senatùr – poi si è cagato sotto”.

Maroni, defilato durante l’intervento del leader, parla per ultimo. E, al contrario di Calderoli, si riferisce a Bossi più spesso come “Umberto”. Tranne in apertura del suo discorso: “Il Capo ha già detto tutto, cose molto chiare e molto forti – prende la parola -. Chi ha orecchie per intendere, a Roma, ha già inteso”. Più che al Pdl e all’orgoglio padano, però, le parole del titolare dell’Interno sono rivolte ai risultati della sua attività di governo. Contro la criminalità organizzata e per arginare la crisi immigrazione, pur ostacolati “dalla magistratura che è tutta con i clandestini”, dalla Nato e dall’Unione Europea che non aiutano a bloccare i flussi dal nord Africa. A proposito di mafie, invece, poco prima era arrivata la punzecchiatura di Bossi: “Maroni, sai che la Brianza è piena di mafiosi? Dagli una soppressata”. Un passaggio è dedicato alla guerra in Libia, per cui il ministro chiede “uno stop”.”I missili non sono intelligenti – spiega – per fermare i profughi c’è solo un modo: fermare la guerra”.

Riunita ad ascoltare il Senatùr e i colonnelli c’è la base del partito, compresi i militanti “arrivati in bicicletta attraverso le strade dell’Insubria”. L’appello ai militanti è di andare al gazebo principale per firmare in favore del “decentramento dei ministeri”, una delle sorprese annunciate ieri da Bossi e ripresa nel suo intervento. “E’ un obbligo morale di tutti noi”, rimbomba la voce del presentatore del raduno nelle casse sparse per il prato di Pontida.




La linea del Piave di Tremonti "Subito la manovra da 40 miliardi". - di MASSIMO GIANNINI


La mossa del ministro dell'Economia dopo l'annuncio di Moody's. Fiducia nell'asse con Bossi: "Vedrete, verrà rinsaldato". Stasera vertice delicatissimo.


"Anticipare la manovra". Se mai ci fosse stato ancora un dubbio, sospeso tra i pronunciamenti demagogici del Grande Imbonitore di Arcore e i riposizionamenti strategici del Gran Cerimoniere di Pontida, la sortita di Moody's l'ha spazzato via in un colpo. Giulio Tremonti, adesso, si sente più forte. E ha un'arma in più per difendersi dall'accerchiamento di Berlusconi e Bossi: rilanciare sulla linea del rigore. E varare subito, prima dell'estate, la maxi-manovra da 40 miliardi, che dovrà portare l'Italia al pareggio di bilancio entro il 2014. È l'unica risposta possibile, da offrire all'Europa e ai mercati, per tenere il Paese al riparo dalla "sindrome greca".

Chiuso in casa a Pavia, il ministro del Tesoro si prepara a una domenica di passione. Questa mattina, sul pratone di Pontida, c'è il raduno della Lega, che dovrà decidere le sorti del governo. Maroni e Calderoli alzano i toni, e coprono le pretese di Cisl e Uil, palesemente velleitarie perché colpevolmente tardive. Dopo aver ingoiato senza fiatare ogni tipo di rospo, in tre anni in cui i salari reali del privato sono crollati e gli stipendi del pubblico impiego sono stati congelati, Bonanni e Angeletti si ricordano che famiglie e lavoratori, precari e disoccupati, meritano adesso una "ricompensa" fiscale. Minacciano addirittura uno sciopero, dopo aver boicottato ogni genere di protesta organizzata dalla Cgil. I due ministri leghisti si accodano. Bossi tace. Parlerà solo lui, oggi, al popolo padano. E tutti aspettano di capire se romperà
con Berlusconi (evitando di seguirlo nella deriva sfascista) o se romperà con Tremonti (smettendo di seguirlo sulla linea rigorista). Il ministro è tranquillo: il suo "asse" con il Senatur oggi "verrà anzi rinsaldato". Perché un conto è dire "serve la riforma fiscale subito" (come gridano Maroni e Calderoli), un altro conto è dire "serve una riforma fiscale, ma non ci sono i soldi per farla" (come dirà Bossi).

Questa sera, in Lussemburgo, c'è poi il vertice europeo che dovrà decidere le sorti di Atene. Nuovi aiuti, ristrutturazione del debito, né gli uni né l'altra. Tremonti non fa previsioni: "Tutto è possibile, nulla è scontato". La preoccupazione è altissima. L'effetto domino è dietro l'angolo. Per questo la riunione di stasera è fondamentale, in vista della riapertura dei mercati di domani, e più ancora del Consiglio Europeo di giovedì prossimo, quando la questione greca sarà all'ordine del giorno del vertice dei capi di Stato e di governo, e si tratterà di stringere ancora di più i cordoni della borsa, con buona pace del Cavaliere che si era illuso di convincere Sarkozy a chiedere un allentamento dei vincoli delle leggi di stabilità dei paesi membri nei prossimi due anni. Scorciatoie che solo la disperazione irresponsabile di Berlusconi può considerare ancora possibili, in un'Eurozona tormentata dal dissesto dei debiti sovrani e perciò tornata al centro degli attacchi della speculazione internazionale.

Come uscire da questa congiuntura, che somma in un'algebra impossibile l'urgenza di un forte stimolo interno con la cogenza di un fortissimo vincolo esterno? Tremonti non ha dubbi. E tanto a Pontida, quanto a Lussemburgo, offre la stessa risposta, che rimanda alla Legge di Stabilità e al Piano Nazionale di Riforma: "La politica di rigore fiscale non è un'opzione, non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, ma è invece "la" politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". La linea del governo non può cambiare: non c'è spazio per una riforma fiscale generale, né tanto meno per un calo immediato delle aliquote Irpef. L'Italia deve garantire in tutti i modi "il rispetto dei vincoli sull'indebitamento netto e sul rapporto debito/Pil". Dunque, ancora una volta, Tremonti non si sposta dalla sua linea del Piave: né manovre in deficit, né misure che ci allontanano dal pareggio di bilancio.

L'altolà di Moody's aiuta la resistenza del ministro dell'Economia. Tremonti si aspettava una mossa del genere. La considera "un riflesso generalizzato della crisi greca, più che una critica specifica alla tenuta dei conti italiani". E dunque "investe allo stesso modo tutti i paesi dell'Eurozona", sia pure con un'intensità diversa. "E' una fase critica e delicatissima per tutti". Ma non c'è dubbio che per Paesi come la Spagna e l'Italia (dopo la diffusione della crisi tra Irlanda, Grecia e Portogallo) lo sia ancora di più. L'avvertimento dell'agenzia di rating, secondo la lettura che se ne da a Via XX Settembre, nasce da qui. "La tensione sugli spread di questi giorni riguarda tutta la struttura dei titoli di Eurolandia, non certo solo quelli italiani".

L'Italia, da questo momento, torna ad essere un sorvegliato speciale. Ed è per questo che Tremonti, adesso, è più che mai irremovibile sulla disciplina di bilancio. E punta a lanciare un segnale ancora più netto di rigore. Il segnale è appunto "l'anticipo della manovra da 40 miliardi". Un altro schiaffo alla strategia berlusconiana, che voleva una "scossa" espansiva subito, fatta di sgravi fiscali massicci, e la "stangata" rinviata (semmai) all'autunno. Il ministro inverte l'ordine: prima dell'estate "l'impianto dell'intera manovra che dovrà portarci al pareggio di bilancio nel 2014 dovrà avere una struttura di legge". Dunque entro luglio conosceremo i contenuti della legge delega sulla riforma fiscale e i sacrifici necessari qui ed ora, e poi nell'arco dei prossimi due anni. Questione di giorni. Passata la verifica (sempre ammesso che passi) dalla settimana prossima Tremonti conta di portare i primi provvedimenti in Consiglio dei ministri, per arrivare alla discussione e al via libera del Parlamento prima della pausa di agosto.

Il solco è già tracciato, secondo il ministro dell'Economia. "E' il Piano Nazionale per la Riforma. Quello è il nostro "palinsesto". Nelle prime cinque pagine c'è scritto cosa dobbiamo fare per arrivare al pareggio di bilancio. E a pagina 6 c'è scritto cosa dobbiamo fare per portare a regime una seria riforma fiscale e assistenziale, basata sulla progressività, sulla solidarietà, sulla semplicità. Tarata sulla riduzione del numero sterminato di regimi fiscali di favore, almeno 400, e sul modello tedesco, che non è quello dello Stato costruttivista, che predetermina a tavolino le detrazioni e le deduzioni. Questo è il documento che abbiamo firmato in Europa. Questo è il patto che dobbiamo onorare. Non ci sono alternative". Il messaggio al Cavaliere, ancora una volta, è più chiaro che mai. Resta un'ultima questione, che tuttavia è cruciale sul piano del giudizio politico. Se adesso anche l'Italia rischia la tragedia greca, come dimostra l'allarme di Moody's, allora è un'intera politica economica che in questi tre anni è clamorosamente fallita. E di questo tutti, nello sgangherato "dream team" berlusconiano, portano allo stesso modo la loro quota di responsabilità. Questo governo ha tamponato il deficit, ma ha fatto riesplodere il debito, e ha dilapidato il tesoretto dell'avanzo primario. Il Paese non ha conosciuto vero né rigore contabile, né meno che mai vera crescita economica. Accorgersene, oggi, è una colpa etica imperdonabile. E rimediare, ormai, è una scommessa politica non più credibile.




Anche Roma indaga sulla P4 trasferito il filone sugli appalti. - di DARIO DEL PORTO e FRANCESCO VIVIANO


Anche Roma indaga sulla P4 trasferito il filone sugli appalti

NAPOLI -
Nuove intercettazioni, ministri chiamati come testi che alla fine "identificano" i verbalizzanti. Avvocati della Rai che si consultano con Bisignani sul contenzioso con Anno Zero. E un filone che arriva a Roma. Si sdoppia l'inchiesta che da mercoledì mattina tiene agli arresti domiciliari Luigi Bisignani, il grande "triangolatore" del potere italiano. Da intercettazioni, interrogatori e audizioni testimoniali disposti dai pm Francesco Curcio e Henry John Woodcock sono emersi spunti su alcune vicende delle quali si occuperanno i magistrati di Piazzale Clodio, a cominciare dall'appalto per l'informatizzazione della Presidenza del Consiglio affidato alla Italgo.

Ma negli atti compaiono riferimenti a molti altri affari, consulenze e incarichi conclusi a Roma. Come la compravendita di un immobile con la presidenza del Consiglio dei ministri, per un importo indicato in circa 100 milioni di euro, saltata proprio quando si è sparsa la voce dell'inchiesta napoletana. Sono emersi inoltre spunti riguardanti appalti delle Ferrovie dello Stato e della Ib Italian Brakers (il cui socio di maggioranza è Trenitalia) e di società del comparto Finmeccanica. Altri elementi che potrebbero rientrare nella competenza della Procura di Roma sono i collegamenti fra Bisignani, il deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale i magistrati napoletani chiedono il carcere, e alcuni protagonisti dell'indagine sul caso P3. A Roma potrebbe finire poi il capitolo dell'inchiesta sui rapporti tra Bisignani e l'ex direttore generale della Rai Mauro Masi.
Bisignani aveva contatti anche un avvocato della Rai con il quale aveva discusso del contenzioso tra l'azienda e Michele Santoro per la trasmissione Annozero, chiodo fisso di Berlusconi. In una intercettazione telefonica Bisignani avrebbe commentato che Masi (non indagato) non sarebbe stato adatto a fare il direttore generale della Rai. Circostanze che comunque non sono state contestate nei numerosi interrogatori ai quali Bisignani è stato sottoposto dal 9 marzo fino a lunedì scorso. Il legale della Rai non è indagato né figura fra gli oltre 100 testimoni sentiti in questi mesi dai pm Woodcock e Curcio. L'elenco comprende invece politici, magistrati e il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, ascoltata per chiarire i passaggi di un'intercettazione nello studio di Bisignani risultata incomprensibile. Alla fine dell'audizione si è verificato un fuoriprogramma che ha sorpreso i presenti: il ministro ha chiesto nome e cognome ai quattro ufficiali di polizia giudiziaria che avevano raccolto il verbale.

L'Anm intanto fa quadrato attorno ai pm: "Assistiamo al solito metodo. Si tenta di delegittimare i magistrati in indagini che possono in qualche modo investire la politica", afferma il presidente nazionale Luca Palamara. E Marcello Matera, segretario della corrente di Unicost, avverte il rischio della "delegittimazione e del turbamento dei magistrati". Domani Bisignani sarà interrogato dal giudice. Mercoledì la giunta della Camera dovrà discutere la richiesta d'arresto per Papa. Il vicepresidente della commissione Antimafia Fabio Granata chiede al gruppo parlamentare di Fli di non ostacolare le richieste dei magistrati e sollecita sul caso di Papa "coerenza senza se e senza ma". La posizione di Papa, magistrato in aspettativa, è anche all'esame del Csm.



L’attesa. - di Tommaso Labate

FUOCO AMICO. Il Cavaliere affronterà la gimkana della prossima settimana con un tarlo. Che la vagonata di carte sulla P4 sia riconducibile allo scontro col ministero dell’Economia. «Gianni è un galantuomo», dice di Letta. «Sono preoccupato per la sentenza milionaria», aggiunge. Appello di Napolitano alla politica: «Le divisioni non impediscano di operare insieme».

Niente «poteri forti», nessuna «toga rossa», nemmeno un piccolo accenno alle vecchie inchieste di Henry John Woodcock. Stavolta, il solito “campionario” a cui Silvio Berlusconi attinge quando le indagini della magistratura sfiorano il suo governo è rimasto nel cassetto. Perché? Semplice. Il Cavaliere è convinto che «stavolta si tratta di fuoco amico».

L'ostinazione del Cavaliere è nota. Quando si convince di una teoria, come nella sua cerchia ristretta sanno perfettamente, «poi è difficile fargli cambiare idea». Stavolta s’è convinto che la vagonata di carte che arrivano da Napoli su Bisignani e compagnia - «tra l’altro a pochi giorni dalla sconfitta delle amministrative e dal referendum» - abbia a che fare con le dinamiche interne all’esecutivo. Ed è un pensiero, questo, che lo accompagnerà durante tutti i gironi infernali che sarà costretto ad affrontare da domani alle prossime settimane. Dalla manifestazione leghista di Pontida, su cui continua a ostentare sicurezza («Non sono affatto preoccupato, perché l’asse con Bossi è forte ed assolutamente saldo», è il pensiero consegnato alla deputata Micaela Biancofiore). Alla sentenza del tribunale sul Lodo Mondadori, da cui dipende l’esborso di centinaia di milioni di euro da restituire a Carlo De Benedetti e al fisco, che invece continua a rendergli insonni le notti («Dove li prendo tutti quei soldi?»). Passando, ovviamente, per la verifica sulla nuova maggioranza dopo l’ingresso dei Responsabili.
Sull’inchiesta di Napoli, però, ogni singolo passo mediatico viene calibrato mille volte. E non solo perché il coinvolgimento di una persona con la prudenza istituzionale di Gianni Letta mal si sposa con il solito fuoco di fila dei falchi. Né perché, stavolta, un ruolo da prim’attore sembra svolgerlo un ex magistrato, il deputato pidiellino Alfonso Papa. Quanto perché il Cavaliere, come nella sua cerchia ristretta sostengono da quarantott’ore, è convinto che siano «colpi che arrivano dal fuoco amico».
Nel suo giro di spin doctor, infatti, c’è chi lega l’uscita delle “carte” su Bisignani alla sfida in corso tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti. Sembra una teoria oltre il limite della “follia” politico-mediatica, ma tant’è. Un berlusconiano di rango parte dalla notizia di una lite (ufficialmente smentita) tra «Silvio» e «Giulietto», raccontata più di una settimana fa da Franco Bechis di Libero.
Stando al racconto di Bechis, durante l’incontro di Arcore con Tremonti e lo stato maggiore leghista, il Cavaliere e il ministro dell’Economia sarebbero arrivati oltre il limite dei canonici “ferri corti”. «Tu mi hai fatto spiare! Hai messo i servizi segreti alle mie calcagna», è l’accusa che - secondo il giornalista di Libero - l’ultimo successore di Quintino Sella avrebbe rivolto al Cavaliere. Che, rispondendogli, non sarebbe andato oltre un cauto «ma che stai dicendo, Giulio?».
Pochi giorni dopo quelle accuse (poi smentite) di «spionaggio», Bisignani sarebbe finito in galera e il nome di Letta su tutte le pagine dei quotidiani. Con accuse, per il primo, che spaziano dall’associazione a delinquere alla violazione di segreto istruttorio. «Tutto per mano della Guardia di Finanza», sibilano alcuni spin doctor del Cavaliere dando voce ai pensieri del Capo.
Sembrano cronache da Marte. Pensieri sconnessi di chi sente di trovarsi, al di là delle carte dell’inchiesta di Napoli, sul punto di imboccare un vicolo cieco.
«Sull’inchiesta P4 sono serenissimo. È un’indagine sul nulla. Letta è un galantuomo, un servitore delle istituzioni», ha detto Berlusconi alla Biancofiore. «Per me, una delle cose più tristi e umilianti è dover andare in tribunale da imputato», ha riferito - sempre stando alla medesima fonte - il premier, che prepara il suo ritorno in Aula al processo Mills.
Nell’attesa di una domenica che darà il «la» a una settimana incandescente, il Cavaliere ha passato una giornata al telefono. Ha parlato col primo ministro greco George Papandreu, a cui ha garantito l’impegno dell’Italia sulla stabilità dell’euro. Ha parlato con presidente francese Nicolas Sarkozy, con cui s’è soffermato sulla Bce. E ha parlato inoltre, sempre al telefono, con una sala ormai vuota. Quella che a Campora San Giovanni aveva appena finito di ospitare un convegno della Fondazione John Motta. Il Tg3 ha mostrato le immagini di pochi tecnici e organizzatori dell’evento, unici “ascoltatori” di un collegamento telefonico stabilito «quando i ragazzi erano già al buffet» (lo ha spiegato il leader dei Repubblicani Francesco Nucara all’agenzia Tm-news).
Tutto questo mentre il presidente della Repubblica ha lanciato un altro appello alla politica. «L’essenziale è che la divisione non ci impedisca di operare insieme per costruire insieme e di fare dell’Italia una protagonista anche del secolo così difficile che si è aperto».



Caso Mills, B. alla sbarra in un’aula semivuota. Disertano anche i suoi sostenitori. - di Gianni Barbacetto



Il Cavaliere è rimasto in silenzio, sprofondato nella sua sedia. Nessuna parola con i giornalisti. Insomma, il premier appare sempre più solo sia sul fronte giudiziario sia su quello politico con la Lega che lancia segnali di guerra

Nessun sostenitore ad aspettare Silvio Berlusconi fuori dal palazzo di giustizia di Milano. All’interno, quasi nessuno ad assistere al processo nello spazio riservato al pubblico. Nessun contestatore, né dentro né fuori. Molti poliziotti e carabinieri, molti giornalisti, fotografi, videoperatori. Il presidente del Consiglio è arrivato per tempo, è entrato nella grande aula con le gabbie per gli imputati pudicamente ricoperte di teli bianchi e si è seduto in prima fila, acconto ai suoi avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo. È un’udienza del processo Mills, in cui Berlusconi è accusato di corruzione in atti giudiziari, per aver fatto un “regalo” di 600 mila dollari all’avvocato inglese David Mills affinché rendesse testimonianze false o reticenti in un paio di processi milanesi con imputato Berlusconi.

L’udienza era programmata per sentire un testimone-chiave di questo processo, l’armatore napoletano Diego Attanasio. Mills gestiva anche i suoi soldi, e la difesa sostiene che i 600 mila dollari passati nei conti dell’avvocato d’affari inglese non sono di Berlusconi, ma dell’armatore.

Ghedini e Longo presentano un’eccezione preliminare: vogliono che il teste sia ascoltato come imputato in procedimento connesso, perché è stato arrestato e processato a Salerno. La richiesta non è senza un motivo: il testimone-imputato in procedimento connesso ha il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Il pubblico ministero Fabio De Pasquale si oppone alla richiesta della difesa: i fatti per cui Attanasio è processato a Salerno sono tutt’altro rispetto alla vicenda del processo milanese; e si svolgono in un arco di tempo che va dal 1990 al 1996, mentre David Mills entra nelle vicende giudiziarie milanesi, per il suo rapporto con Berlusconi, soltanto dopo il 1997.

Il tribunale, dopo un’ora di camera di consiglio, respinge la richiesta della difesa. E finalmente Attanasio entra in aula. Capelli bianchi, accento partenopeo, nato a Procida, residente a Malta, abitante in Namibia, l’armatore risponde candido. No, non ha mai fatto un regalo o un pagamento di 600 mila dollari a Mills, che gli gestiva una parte del patrimonio. Sì, ha firmato il documento che il pm gli fa vedere, ma lo ha firmato in bianco, come delega al gestore di cui si fidava, senza sapere che cosa Mills ci avrebbe poi scritto. Attanasio insomma è netto: smentisce la linea della difesa, non sono soldi suoi, quei 600 mila dollari.

Berlusconi resta sprofondato nella sua poltrona. Questa volta nessuna dichiarazione, nessun sorriso. Alle sue spalle, il medico personale che lo segue dappertutto, Alberto Zangrillo. Finita la deposizione, il tribunale affronta il problema del calendario. Saltano quattro udienze già fissate, per impossibilità di sentire i testimoni previsti. La prossima udienza potrà essere celebrata soltanto il 18 luglio. La prescrizione si avvicina, Silvio s’allontana dall’aula, senza una dichiarazione, senza una contestazione, senza un applauso.




Per i costi dei partiti la crisi non esiste: +1.110% di rimborsi. - di Sergio Rizzo

Boom nell’uso degli aerei di Stato. Ogni componente del governo vola 97 ore l’anno.

Giulio Tremonti (Ansa)
Giulio Tremonti (Ansa)
ROMA - «Un conto è fare un articolo, un altro conto fare un articolato…» , ha osservato pubblicamente, alla festa della Cisl di domenica scorsa a Levico Terme, il ministro dell’Economia. Giulio Tremonti ha sperimentato direttamente quanto sia difficile entrare con i fatti nella carne viva degli scandalosi costi della politica. Con la manovra finanziaria dello scorso anno aveva provato a tagliare del 50% i generosissimi «rimborsi elettorali» , come si chiama ipocritamente il finanziamento pubblico, riconosciuti per legge ai partiti politici, cresciuti fra il 1999 e il 2008 del 1.110%, mentre gli stipendi pubblici aumentavano del 42. Ebbene, il taglio è stato prima ridimensionato al 20%, quindi al 10 per cento. Per non parlare della norma che avrebbe riportato le spese di palazzo Chigi, in alcuni casi letteralmente impazzite, sotto il controllo del Tesoro: saltata come un tappo di champagne. Ciò non toglie che quell’«articolato» prima o poi andrà fatto. Perché qui ci va di mezzo, secondo lo stesso Tremonti, la credibilità della politica e del governo.

Se la riforma fiscale le tasse vuole avere una prospettiva minima di serietà, deve passare prima di qua. Fermo restando che i soldi tolti ai privilegi della politica non basteranno certo da soli a tappare il buco che l’eventuale taglio delle tasse (considerato dai capi del centrodestra necessario per arginare l’emorragia di consensi) potrebbe aprire nei conti pubblici. Da dove cominciare? C’è soltanto l’imbarazzo della scelta. «Meno voli blu» , ha detto Tremonti. Una sfida mica da ridere, considerando l’andazzo. Nel 2005 gli aerei di Stato del 31° stormo dell’Aeronautica toccarono il record di 7.723 ore di volo. Due anni dopo, durante il governo Prodi, grazie a una direttiva draconiana del sottosegretario Enrico Micheli erano scesi a 3.902. Tornato Berlusconi, quella direttiva è stata prontamente abrogata e nel 2009 le ore di volo per le sole «esigenze di Stato» sono arrivate a 5.931, ma con un governo ridotto a 61 elementi. Cioè, 97 ore e 15 minuti a testa. Letteralmente stratosferico l’aumento procapite (cioè per ogni componente del governo) rispetto a due anni prima: +154,2%. Ma anche il famoso record del 2005 delle 78 ore e 50 minuti a testa è stato letteralmente polverizzato, con una crescita del 23,3%. Mentre il consumo del cherosene ministeriale, alla faccia della crisi, non si è certamente arrestato. Nel 2009 gli aerei di Stato viaggiavano al ritmo di 494 ore al mese? Nel 2010 si è saliti a 507. Ignoti, ovviamente, i costi.

Non sarà facile, per Tremonti. Certo, se si potessero ricondurre i conti di palazzo Chigi sotto il controllo della Ragioneria, com’era prima che nel 1999 il governo di centrosinistra li rendesse completamente autonomi, sarebbe un’altra storia. Si toglierebbero alla politica molti margini di manovra non soltanto sui 3 o 400 milioni l’anno di spese vive della presidenza del Consiglio, ma, per esempio, anche sul miliardo e mezzo di budget della Protezione civile. Meno sprechi, più sobrietà. Peccato che i messaggi arrivati finora siano di segno opposto. Qualche esempio?

Nel 2010 il budget per pagare gli «staff» politici di palazzo Chigi aveva superato di slancio 27,5 milioni, con un aumento del 26 per cento. Mistero fitto sul numero delle persone. Quest’anno le spese per gli affitti degli uffici della presidenza del Consiglio sarebbero lievitate (sempre secondo le previsioni) da 10 a 13,7 milioni. Recentissima poi la notizia che palazzo Chigi ha deciso di dotarsi non di uno, ma di due capi uffici stampa retribuiti al pari di un «capo delle strutture generali della presidenza del Consiglio dei ministri». E i nuovi sottosegretari concessi da Berlusconi ai Responsabili come contropartita per il sostegno alla maggioranza? L’Espresso ha calcolato che costeranno 3 milioni l’anno. Il problema dei soldi non tocca invece, almeno all’apparenza, l’ex Pd Massimo Calearo, nominato consigliere del premier per l’export (ma di questo non si occupa già il ministro dello Sviluppo?). Né Antonio Razzi, ora consigliere personale del ministro «Responsabile» dell’Agricoltura Francesco Saverio Romano. Ma siccome il deputato ex dipietrista è stato eletto all’estero ed è fissato con la tutela della cucina italiana, poche ore prima di andarsene per lasciare il posto a Romano l'ex ministro Giancarlo Galan gli ha firmato un decreto che istituisce «l’elenco dei ristoratori italiani all’estero». Prevede una targa con la scritta «Ottimo – ristorante di qualità» da mettere sulla porta. Vi domanderete: chi sceglie i locali da insignire? Un apposito Comitato interministeriale composto dal ministro e da uno stuolo di funzionari oltre, udite udite, da nove esperti nominati anche da altri ministeri. Un Comitato interministeriale! Il decreto dice che nessuno prenderà un euro. E le spese vive, fossero anche solo le targhe e i diplomi, quelle chi le paga? Noi. Ma il colmo è un altro. Perché nemmeno un anno fa lo stesso ministero dell’Agricoltura aveva fatto un accordo con l’Unioncamere per dare un marchio di qualità ai «Ristoranti italiani nel mondo». Forse se n’erano dimenticati…

Insomma, se è giusto lamentarsi dei tagli orizzontali e indiscriminati, qui bisognerebbe andarci con il machete. E il Parlamento? Lasciamo da parte il capitolo dei numero dei nostri rappresentanti, quasi doppio rispetto alla Spagna. Ma è chiedere troppo di allineare anche le loro retribuzioni alla media europea, come ha suggerito di fare Tremonti per tutti gli incarichi pubblici? Da anni le Camere non promettono che tagli, limitandosi però a indolori sforbiciatine. Guardiamo i bilanci. Le spese correnti della Camera, che nel solo 2010 ha tirato fuori 54,4 milioni per gli affitti, sono previste passare da un miliardo 59 milioni del 2010 a un miliardo 83 milioni nel 2012: +2,3 per cento. Quelle del Senato, che negli ultimi 14 anni ha sborsato 81 milioni per gli uffici di 86 senatori, da 576 a circa 594 milioni: +3,6%. La Camera dispone di 20 auto blu con 28 autisti e i deputati che hanno il diritto a utilizzarle sono soltanto 63. Il machete potrebbe calare, forse a maggior ragione, anche in periferia. Dove gli sprechi della politica sono inimmaginabili. A cominciare dai posti di lavoro clientelari.

È mai possibile che in Lombardia un dipendente regionale costi 21 euro a ogni cittadino contro i 70 della Campania? E i 173 del Molise? O i 353 della Sicilia? È mai possibile che sia ancora in vigore una regola che consente a chi è stato parlamentare ma anche consigliere regionale di incassare ben due vitalizi, uno del Parlamento e uno della Regione? In questa meravigliosa condizione ci sono almeno duecento ex onorevoli. E che vitalizi: si arriva fino a oltre 9 mila euro lordi al mese. Accade nella Regione Lazio, dove si può ancora andare in pensione giovanissimi, come dimostra il caso dell’ex governatore Piero Marrazzo, il quale percepisce il vitalizio di circa 4 mila euro mensili dal 2010, prima ancora di aver compiuto 52 anni. È mai possibile che l’unica regione ad abolire l’arcaico e odioso privilegio del vitalizio per gli ex consiglieri sia stata finora, dopo sforzi immani, l’Emilia Romagna (naturalmente, a partire dalla prossima legislatura…)? È mai possibile che nei consigli regionali non si riesca a porre fine all’indecenza dei gruppi politici costituiti da una sola persona, che dà il diritto talvolta ad assumere collaboratori, avere l’auto blu e addirittura uno stipendio maggiorato? Ce ne sono 74 (settantaquattro). Con casi esilaranti. In Piemonte ci sono ben due gruppi «consiliari» che si richiamano all’ex governatrice Mercedes Bresso, Insieme per Bresso e Uniti per Bresso. Unico componente di quest’ultimo: Mercedes Bresso. Ma anche nel consiglio provinciale di Bolzano sono presenti due monogruppi gemelli: Il Popolo della libertà e Il Popolo della libertà – Berlusconi per l’Alto Adige. E nelle Marche persino il governatore in carica Gian Mario Spacca si è fatto il proprio gruppo. Come si chiama? Gian Mario Spacca Presidente, si chiama. Che domande!

http://www.corriere.it/politica/11_giugno_18/costi-politica-rizzo_ceae1716-9975-11e0-872e-8f6615df4e68.shtml