lunedì 20 aprile 2015

Commercio mondiale, le trattative Usa-Ue per il Ttip tra incognite, ombre e risultati elettorali. - Felice Meoli

Commercio mondiale, le trattative Usa-Ue per il Ttip tra incognite, ombre e risultati elettorali



I negoziati sul trattato di libero scambio che prevede la rimozione dei dazi ma soprattutto l'armonizzazione di normative e regolamenti, proseguono nell'ombra. In Europa c'è il timore che possa annacquare le protezioni per i consumatori e aumentare il potere delle aziende nei confronti delle istituzioni. E la vittoria elettorale degli euroscettici in molti Paesi mette a rischio la firma. Il semestre che vedrà l'Italia guidare il Consiglio Ue potrebbe essere decisivo.

“Nel mondo, meglio soli o bene accompagnati?” chiede ai telespettatori l’ultimo spot di Rai Europa, che in un minuto e mezzo, “per informare, non influenzare” come recita in chiusura, intende spiegare agli italiani quello che è il più grande accordo commerciale mai negoziato dall’Unione: il Ttip. La sigla sta per Transatlantic trade and investment partnership, vale a dire un trattato di libero scambio che vede protagonisti Usa e Unione europea per creare una “free zone” di merci e servizi, non solo rimuovendo i dazi doganali (che sono già bassi, nell’ordine del 2-3%) ma anche superando le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè regolamenti e normative divergenti tra le due sponde dell’Atlantico. In pratica un’armonizzazione per interi settori economici come sicurezza e sanità, servizi pubblici, agricoltura, proprietà intellettuale, energia e materie prime.
Secondo il Centre for economic policy research di Londra, che ha prodotto lo scorso anno per Bruxelles una ricerca che giustifica l’adozione del trattato, l’accordo dovrebbe determinare una crescita di 90 miliardi di euro per l’economia Usa e di 120 miliardi – pari allo 0,5% del Pil – per quella europea. Tuttavia pochi giorni fa Alan Winters, professore dell’Università di Sussex e collaboratore dello stesso istituto di ricerca, ha dichiarato che stime più “plausibili” fanno pensare a un incremento dello 0,025% del prodotto interno continentale.
Le trattative sono partite in sordina un anno fa, quando i capi di governo dei ventotto Paesi dell’Unione hanno concesso l’autorizzazione alla Commissione Europea, e tuttora si cerca di mantenerle nell’ombra. Secondo quanto riportato da The Nation la senatrice democrat Elizabeth Warren, critica nei confronti della poca trasparenza del negoziato, ha affermato che “Wall Street, aziende farmaceutiche, telecom, grandi inquinatori stanno sbavando” davanti a questa opportunità, che sta passando sottotraccia per le grandi opposizioni che troverebbe se diventasse di dominio pubblico. Lo dimostrano precedenti come quello del Nafta: l’accordo per il libero scambio stipulato tra Usa, Canada e Messico nel 1992, la cui impostazione si avvicina a quella studiata per il Ttip, non gode di grande popolarità, avendo in vent’anni provocato diversi squilibri per i Paesi coinvolti, tra maggiore concentrazione della ricchezza e riduzione degli stipendi per i lavoratori fino al 20% in alcuni settori. 
I rischi del Ttip per l’Unione non sono però solo di carattere economico. Da una parte, in Europa c’è il timore che si riducano le protezioni per i cittadini garantite dall’architettura regolamentare che ha permesso di limitare problemi come quelli legati agli ormoni nelle carni, ai pesticidi nel cibo o agli ftalati nei giocattoli. Dall’altra c’è la preoccupazione di aumentare il potere delle aziende nei confronti delle istituzioni. Uno dei punti più dibattuti, per il quale la Germania ha imposto alla Commissione una consultazione pubblica online, riguarda infatti l’Investor-state dispute settlement (Isds), un arbitrato internazionale per le controversie tra Stati e aziende che in altri casi ha portato queste ultime a citare in giudizio interi Paesi e governi. La consultazione, per il commissario Ue per il Commercio Karel De Gucht, serve a capire “se l’approccio proposto dall’Ue per la Tttip realizza il giusto equilibrio tra la tutela degli investitori e la salvaguardia del diritto sovrano dei governi dell’Ue e della loro capacità di legiferare nell’interesse pubblico”, un terreno senza dubbio scivoloso.
Secondo alcune ricostruzioni, fino ad aprile si erano tenuti 130 incontri nella direzione del Commercio Ue sul tema, di cui almeno 119 erano con imprese o lobbisti. Le negoziazioni intanto sono oggi giunte al quinto round, che si è tenuto ad Arlington (Virginia) tra il 19 e il 23 maggio. Il prossimo sarà a luglio. “A che punto è il negoziato da uno a dieci? Cinque”, ha dichiarato in conferenza stampa Dan Mullaney, capo negoziatore americano e portavoce della US Trade Representative. Mullaney, secondo indiscrezioni, guida una delegazione di oltre 600 consulenti, che negozia con un ristretto team europeo di 6-7 persone alla cui testa c’è Ignacio Garcia Bercero, che guida la direzione generale del Commercio Ue.
Barack Obama, durante le sue ultime visite nel nostro continente, ha ricevuto rassicurazioni in merito alla chiusura degli accordi. Le ultime elezioni, però, hanno visto la crescita dei partiti euroscettici, un rischio per il proseguimento delle trattative. Così non è stato in Italia. E di sicuro un ruolo chiave lo avranno Roma, che si appresta a entrare nel suo semestre di presidenza e il premier Matteo Renzi, appena legittimato dal voto popolare.
Gli Stati Uniti intanto spingono. E parallelamente portano avanti un altro progetto di “free zone” per il quale è stato già siglato un protocollo di intesa e che fa riferimento invece all’altra sponda oceanica, quella pacifica. E’ stato battezzato Tpp, cioè Trans pacific partnership, e coinvolge, oltre agli Usa, Australia, Brunei, Canada, Cile, Indonesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru,Singapore e Vietnam. Ttip e Tpp riguardano economie che superano complessivamente la metà del Pil mondiale. E se approvati avranno l’effetto di uno tsunami nel commercio internazionale. Il primo a farne le spese, con ogni probabilità, sarà il “vecchio” Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. 

NAUFRAGHI, IL RACCONTO. - Raffaele Vescera


Nella foto, Le statue dell'artista danese Nikolaj Bendix Skyum Larsen immerse nel mare di Pizzo Calabro (Vibo Valentia) – Ph. Jason deCaires Taylor.

In memoria dei 700 migranti morti oggi nel nostro mare.

Il caicco andava a vela spinto a rinforzo dal diesel di un vecchio tir, sballottava sotto i colpi del mare a libeccio sferzato dagli scossoni delle onde, sembrava andare a rovescio, la terra era lì, in vista, ma irraggiungibile alla folla ammassata. Sui bordi gli uomini, al centro donne e figli. Erano cento su un legno di dodici metri. Piangevano, urlavano, aiutateci, nella lingua pietosa comune agli umani, aiutateci, che qui moriremo tutti, e le donne si rannicchiavano ancora e i bambini cercavano le braccia più forti dei padri che guardavano i figli, le donne, il mare e i marinai impotenti.

Il viaggio era partito sereno, i marinai a prendere il sole, sorridenti, guardavano un branco di delfini acrobatici e sfottenti. Era solo una passeggiata, dicevano, sarebbero arrivati dall’altra parte del mare stretto prima di sera, e tutti avrebbero mangiato i maccaroni, dicevano ridendo, e la folla di imbarcati ammassati come sull’arca di Noé, ridevano con loro sognando il piatto di maccaroni caldi che li avrebbe saziati dopo i giorni passati a mangiare pane secco e formaggio duro tra steppe e montagne per raggiungere il mare della ricchezza, l’acqua che avrebbe purificato le loro esistenze miserabili, portandoli sulla terra dell’abbondanza dove in un giorno di lavoro solo si buscava come in un mese.
Gli uomini parlavano tra loro dei futuri guadagni. Le donne, finalmente sedute, parlavano delle case a venire. I bambini, composti e seri, come fanno i figli dei poveri, non parlavano, se non a bassa voce e per cose importanti.

Era un’umanità umile, dai sentimenti forti, che si affacciava sulle rive di un’altra umanità, gente che, tempo prima, era stata anch’essa educata ai sentimenti forti e ad esagerati valori etici. Poi la ricchezza aveva cambiato quella gente in poco tempo. I loro bambini avevano imparato a pretendere, a piangere, a fare capricci, gli uomini a divertirsi più che a faticare. Ma nel mondo c’era ancora un mare di uomini disposti a rimpiazzarli nella condizione di ultimi della società. Così, finalmente i penultimi si sarebbero sentiti migliori di qualcun altro.
Il sole splendeva ancora caldo sul basso Mediterraneo ad ottobre. Sin dall’alba, i suoi raggi avevano benedetto la partenza dei profughi, dando loro un’illusione di benevolenza, il mare cheto, appena increspato da un venticello di brezza, la loro aria quieta come il mare in vista della terra promessa. Al massimo tra un’ora, dicevano loro i marinai, tra un’ora ci siamo. Giusto per il tramonto. Così al buio lo sbarco sarà invisibile. A terra, chi vorrà troverà la macchina che lo porterà in città, pagando altri cinquanta dollari, perché mille dollari danno diritto solo al giro sull’acqua. E chi non ha i soldi per la macchina si arrangi e aspetti gli italiani, che quelli sono belli e fessi, e vi daranno un letto, un piatto di spaghetti e pomodoro, ma non vi aspettate la carne buona, che lì fa schifo, è tutta roba chimica.

L’aria calda arrivava a zaffate sempre più forti, più che una sera d’ottobre s’apprestava a diventarne una d’agosto. I marinai si guardavano perplessi, sapevano il gioco dei venti e temevano a ragione il libeccio in arrivo, forte e costante e poi turbinoso spingeva dall’Africa svegliando il mare e i passeggeri di quel guscio che osava sfidarlo. Non c’era bisogno di scomodare il dio col tridente per sballottarlo, spingerlo indietro, spezzare l’albero che si schiantava in un colpo solo a mare volando sulle teste terrorizzate dei naviganti. “Recuperiamo l’albero a bordo”, urlavano i marinai, sapendo che a mare l’albero avrebbe squilibrato il barcone affondandolo. Tira e tira le corde, cento braccia ce la faranno, che fortuna avervi a bordo, passeggeri, altrimenti non ce l’avremmo mai fatta noi quattro mezze seghe di mezzi mozzi, perché i marittimi buoni questi viaggi della morte non li fanno e li lasciano a noi, marinai d’acqua dolce.

Dove sono i salvagente, dove sono? Non bastano per tutti, dateli a chi non sa nuotare, ma qui nessuno sa nuotare, gente del deserto, allora dateli alle donne e ai bambini e state tranquilli che ci resta il motore per andare a riva. Ma il motore picchiava in testa, aveva portato con onore il peso di un tir a rimorchio per un milione di kilometri per le strade del mondo prima di andare al mare su quel barcone, ma lui, povero vecchio diesel, come avrebbe potuto farcela da solo contro le onde del Mediterraneo? Come avrebbe portato in salvo cento persone? Almeno prima, con l’aiuto della vela, faceva la sua figura, ma ora che l’avevano messo a manetta, sbuffava, sudava, spruzzava olio nero, non ce la faceva a vincere la tempesta e così avanti sarebbe morto, prima di tutta quella povera gente affidata alle poche forze di un vecchio diesel.

I marinai, tra mille imprecazioni ai loro santi stranieri, schiaffeggiavano la radio che non voleva saperne di funzionare e di mandare SOS. Una radio d’epoca si direbbe ridendo nel Paese di Bengodi, eppure dovrebbe funzionare, così gli avevano detto, ma non voleva saperne di svegliarsi dal sonno di chissà quanti anni passati.

Allora ci sono i razzi, bisogna spararne per forza qualcuno, sennò sono cazzi. Ma questi razzi sanno dell’altra guerra, e come funzionano? Le istruzioni sono scritte in cinese e allora che fare nella notte in arrivo? La notte arrivò presto con l’aria fredda d’autunno, perché il libeccio africano era stato spodestato dal levante balcanico e siberiano e poveri loro che si stringevano l’uno all’altro rassegnati sul guscio di legno fradicio che sollevato dalle onde si girava sulla pancia ed era lì per rovesciarsi, portandoseli su e giù. Con il mare che sbattendo gli inzuppava i vestiti e la pelle ed entrava dentro le ossa. Guai ai naufraghi. Si salutarono al buio, le mogli e i mariti con l’ultimo bacio, le ultime raccomandazioni in caso di sopravvivenza e le ultime volontà in caso di morte.
L’alba arrivò rosea, ma rosso al mattino maltempo è vicino, dicono i naviganti, la notte aveva mangiato la tempesta portando il barcone chissà dove. Non c’era terra in vista, non c’erano isole, navi, aerei, niente, solo un mare sconfinato. 


Sul caicco alla deriva la folla tramortita, i meno forti avevano già lasciato il mondo delle speranze fatue e della fatica esagerata per quello senza ambizioni dell’eterno riposo. I sopravvissuti storditi, pochi avevano le forze per alzarsi, fare qualcosa. Molti restavano fermi ancora abbracciati gli uni agli altri. Acqua e cibo non ne avevano più. Il motore aveva smesso di balbettare colto da collasso anticipato. Erano cento, giovani e forti, avevano venduto tutto, case, terre, mobili e tappeti, erano fuggiti da guerre e miserie in cambio di un biglietto per il paradiso. Arrivò la pioggia gelida col vento di tramontana. Pregavano Dio di salvarli, oppure di dare loro una morte veloce, forse il paese della cuccagna l’avrebbero trovato nell’altro mondo. Piovve tutto il giorno fino alla notte, comandata dalla morte che li aspettava in agguato prendendoseli uno alla volta. 

Passavano le ore sul mare padrone, chissà quante, pochi respiravano ancora, riparati dalla coltre dei cadaveri, i morti proteggevano i vivi. Nessuno di loro vide la veloce nave militare che li avvicinava, nessuno si accorse che uomini forti e attrezzati salivano a bordo per salvare il salvabile, nessuno capì che l’odissea era finita. Si svegliarono negli ospedali con la flebo, per i maccaroni dovevano aspettare ancora due giorni. 

La corvetta della marina avvistò il barcone nel punto segnalato dagli elicotteri. Il relitto fu abbordato e arrembato poiché alle invocazioni dei megafoni non rispondeva nessuno. Lo spettacolo terrificante suscitò vomiti e malori nei bravi ragazzi armati di pietà che, sì, un mese prima erano accorsi a recuperare i cadaveri galleggianti sparsi di un boat affondato vicino alla costa, che sì avevano soccorso i clandestini sopravvissuti aggrappati agli scogli dell’ultima spiaggia, straziati nel corpo come il naufrago partito dall’isola di Calypso. Ma mai avevano visto i morti mischiati ai vivi, gli uni sugli altri poiché sotto quei cadaveri si udivano ancora flebili lamenti umani. 

Dal racconto Naufraghi di Raffaelle Vescera, antologia I Fuggiaschi, ed. Stilo Bari.

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Scoperta eccezionale in Sicilia: a Selinunte emerge la più grande fabbrica di ceramiche greche del mondo antico.

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Sicilia – Scorcio dell’industria di ceramiche greche scoperta a Selinunte (Trapani) – Ph. Martin Bentz

Durante la sessione estiva di scavi affidata all’Istituto archeologico germanico di Roma e dell’Università di Bonn, guidato dal professoreMartin Bentz, all’interno del parco archeologico siciliano di Selinunte è stato compiuto uno dei più eccezionali ritrovamenti mai effettuati nell’area mediterranea. Ad essere tornata alla luce – con le sue ottanta fornaci, un’estensione di 1.250 metri quadrati nella valle del fiume Cottone, ed una lunghezza di 80 metri – è l’industria di produzione di terrecotte e ceramiche più grande del mondo antico mai ritrovata finora.
Il rinvenimento è stato effettuato durante uno degli scavi estivi che puntualmente si ripetono dal 2010 e che in virtù dei finanziamenti dell’Istituto germanico di Roma potranno proseguire per altri due anni. Lo scavo, effettuato utilizzando stavolta anche il georadar, ha riguardato tre sezioni dell’area, con esiti che hanno permesso di ricostruire il quartiere industriale dell’antica colonia greca.
I reperti ritrovati sono stati datati al V secolo avanti Cristo. E’ probabile che la fornace più grande servisse per la produzione di tegole in terracotta mentre le più piccole fossero destinate alla realizzazione di vasi, statue e altre suppellettili. Già nel 2013 era venuta alla luce un’area ancora molto ben conservata, pavimentata con tegole in terracotta e munita di un pozzo profondo dal quale, molto probabilmente, veniva prelevata l’acqua necessaria a lavorare l’argilla. In quell’occasione era emersa anche una zona più arcaica del quartiere, con ceramiche e terrecotte figurate prodotte sul posto.
Il direttore del parco archeologico di Selinunte e delle Cave di Cusa Giovanni Leto Barone ha dichiarato che proprio in previsione della prosecuzione degli scavi per altri due anni c’è da aspettarsi con certezza che l’area riservi ancora molte sorprese.

Irpef a debito 2014. Via libera al conguaglio su pensioni.


Dal prossimo mese di marzo partirà il conguaglio fiscale sulle pensioni che presentano un Irpef a debito, per l’anno 2014

Sono state avviate le procedure dei conguagli fiscali a consuntivo per Irpef (anno 2014) a debito trasmessi dalla “Piattaforma Fiscale” su pensioni. Il conguaglio, in particolare, sarà applicato dal prossimo mese di marzo e prevede codici differenti in base alla gestione pensionistica a cui si fa riferimento (privata, pubblica, spettacolo e sport).

Tali conguagli, i cui dati vengono rielaborati dalla “Piattaforma Fiscale” che unisce le varie posizioni e ridetermina il conguaglio Irpef, vengono comunicati alle diferse Direzioni di prodotto per la loro applicazione sugli emolumenti in pagamento.

A darne notizie è l’INPS con il Messaggio n. 1424 di ieri.

Conguaglio a debito – Come appena precisato, i conguagli a debito per Irpef anno 2014 sono trattenuti a partire dal mese di marzo e sono identificabili in base alle diverse gestioni pensionistiche.

Per le pensioni delle gestioni private, i conguagli sono individuati: 
• con il “codice 162”, nel caso di conguagli superiori a 100 euro e reddito annuo da pensione fino a 18.000 euro rateizzati fino a novembre;
• con il “codice 769” nel caso di conguagli che non rientrano nella precedente casistica. 

Entrambi i codici sono decodificati con il literal “conguagli Irpef a debito da rettifica fiscale”.

Mentre per le pensioni delle gestioni pubbliche, i conguagli in argomento sono individuati: 
• con il “codice R1”, nel caso di conguagli superiori a 100 euro e reddito annuo da pensione fino a 18.000 euro rateizzati fino a novembre;
• con il “codice R7” nel caso di conguagli che non rientrano nella precedente casistica. 

Entrambi i codici sono decodificati con il literal “conguaglio fiscale CUD”.

Infine per le pensioni delle gestioni spettacolo e sport, i conguagli sono individuati: 
• con il “codice DE37”, nel caso di conguagli superiori a 100 euro e reddito annuo da pensione fino a 18.000 euro rateizzati fino a novembre;
• con il “codice DE32” nel caso di conguagli che non rientrano nella precedente casistica. 

Entrambi i codici sono decodificati con il literal “conguagli Irpef a debito da rettifica fiscale”.

Comunicazione – Le operazioni di conguaglio effettuate dall’INPS, potranno essere visualizzate nel modello CU2015: in particolare nel foglio riepilogativo in cui sono indicati i dati salienti con l’indicazione, campo “IMPORTO CONGUAGLIO FISCALE PER L’ANNO 2014”, dell’importo che sarà conguagliato dall’Istituto.
Autore: Redazione Fiscal Focus

domenica 19 aprile 2015

SPUNTA FUORI IL "CAVALIERE BIANCO" CHE SALVA LA GRECIA ANTICIPANDO AD ATENE € 5 MILIARDI SUL GASDOTTO. - Tyler Durden


 FONTE: ZEROHEDGE.COM

Un report di Zero Hedge sulle voci di un imminente accordo della Grecia con Putin, che ad un prezzo irrisorio assesterebbe un colpo forse definitivo all’Eurozona al collasso e alla geopolitica americana delle sanzioni. L’avvicinamento tra Grecia e Russia avviene comodamente, su un tappeto rosso steso dai tedeschi, che come sempre si dimostrano lungimiranti e flessibili…
Con la Grecia sull’orlo del fallimento e costretta a razziare i fondi pensione e la maggior parte degli altri fondi pubblici, con davanti a sé un altro mese di pesanti rimborsi al FMI, e con la BCE che si è spinta ad ipotizzare l’introduzione di una valuta parallela, un Cavaliere Bianco è apparso dal nulla, ad offrire 5 miliardi di dollari in contanti.

Il Cavaliere Bianco non è altro che Vladimir Putin. “Solo perché la Grecia è piena di debiti, questo non significa che sia legata mani e piedi, e non possa avere una sua politica estera indipendente, aveva detto Putin in precedenza.
Secondo Der Spiegel, che cita una figura di alto livello del partito al governo Syriza, la Grecia è pronta a firmare un accordo sul gas con la Russia già martedì, accordo che potrebbe portare fino a 5 miliardi di € nelle spolpate casse greche.
Secondo un alto funzionario greco, la mossa potrebbe “ribaltare le sorti” del Paese oberato dal debito.
Reuters aggiunge che, nel corso di una visita a Mosca all’inizio di questo mese, il primo ministro greco Alexis Tsipras aveva espresso interesse a partecipare ad un gasdotto che porterebbe il gas russo verso l’Europa attraverso la Turchia e la Grecia:
“Secondo l’accordo, la Grecia avrebbe ricevuto delle anticipazioni dalla Russia sui profitti futuri attesi legati al gasdotto. Il ministro dell’energia greco ha detto la settimana scorsa che Atene avrebbe ripagato Mosca dopo il 2019, quando si prevede che il gasdotto entrerà in funzione.
I funzionari del governo greco per il momento non hanno commentato la notizia riportata da Spiegel.”
Naturalmente, nella situazione della Grecia, la probabilità di un rimborso effettivo è trascurabile: dopo tutto, la probabilità di un default greco è altissima, e 5 miliardi di € potranno fare ben poco per cambiare la sostenibilità del debito greco. E Putin lo sa molto bene.
Tuttavia, il leader russo non agisce per bontà di cuore, ma semplicemente secondo un altro calcolo, col quale conta di prendere due piccioni con una fava:
“Dopo la fine del South Stream, per cui l’UE aveva fatto pressioni sulla Bulgaria perché rifiutasse il passaggio del gasdotto russo verso l’Europa, la Russia aveva bisogno di un percorso alternativo che evitasse completamente l’Ucraina (e la Bulgaria), cosa che secondo i piani del Cremlino sarebbe dovuta accadere nei prossimi 3 anni. E con l’Ungheria e la Serbia ansiose di ospitare il transito del gas russo verso l’hub centrale europeo dell’Austria, la Grecia era l’anello mancante per il transito della rete fissa. Con questo accordo, la Russia ottiene il via libera per estendere il Blue Stream  fino all’Austria e preservare la sua posizione dominante sul mercato europeo dell’energia, lasciando l’Ucraina completamente isolata.

Blue Stream

Cosa forse altrettanto importante, improvvisamente la Russia apparirà come il generoso benefattore che corre in soccorso della Grecia, soffiando sul fuoco delle discordie della zona euro e consolidando ulteriormente l’opinione pubblica in suo favore. Come promemoria, alcune settimane fa abbiamo dimostrato che la Russia ha già un più elevato indice di gradimento tra la popolazione greca rispetto all’Eurozona. In questo modo, la Russia ha appena conquistato un alleato fondamentale al prezzo irrisorio di soli € 5 miliardi, senza nemmeno dover ristrutturare l’intero bilancio greco se la Grecia dovesse uscire dall’euro ed entrare nell’Unione economica eurasiatica. Il che significa anche che tutti i futuri tentativi di imporre ulteriori sanzioni alla Russia attraverso l’Europa falliranno, grazie al veto greco.”
La Russia non è la sola a cercare di dividersi le spoglie della zona euro al collasso: anche Pechino ha investito nelle infrastrutture greche e il Telegraph riporta che la scorsa settimana ha comprato 100 milioni di € di debito pubblico a breve termine.
Ironia della sorte, è stato niente meno che il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble ad affermare che i greci sono liberi di perseguire accordi con la Russia e la Cina, se hanno urgenza di evitare un fallimento imminente. Risulta così che i greci hanno deciso di fare esattamente quello che hanno loro suggerito i tedeschi, e il risultato non sarà certamente gradito alla Germania.
L’unica questione che subito si pone dopo quello che potrebbe essere un altro colpo magistrale di Putin è cosa farà l’Europa, ora che nel giro di meno di un anno Putin ha, non solo “annesso” la Crimea, ma anche attratto la Grecia nella sua sfera di influenza.

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=14942

venerdì 17 aprile 2015

Sicilia, chiusura Palermo-Catania: ecco le strade alternative.




Ecco alcuni percorsi alternativi in Sicilia, individuati da Anas a seguito della chiusura dell’autostrada A19 Palermo-Catania, che ha reso necessaria l’uscita obbligatoria allo svincolo di Scillato (km 56,800) per il traffico diretto a Catania e l’uscita obbligatoria a Tremonzelli (km 73,000) per il traffico diretto a Palermo.
L'Anas ha avviato da ieri i sondaggi per individuare le dimensioni del nuovo viadotto; è in corso anche la progettazione esecutiva sia della bretella di collegamento che della demolizione del viadotto dissestato.

Per i veicoli con massa complessiva superiore a 3,5 tonnellate diretti a Catania, il percorso consigliato è verso l’autostrada A20 ‘Palermo-Messina’ e A18 ‘Messina-Catania’ con uscita allo svincolo di ‘Buonfornello’ dell’autostrada A19. Percorso inverso per i veicoli diretti a Palermo. 


Per gli autoveicoli con massa complessiva inferiore alle 3,5 tonnellate diretti a Catania, invece, il percorso alternativo consigliato è individuato dallo svincolo di Scillato sulla strada statale 643 e successivamente sulla strada statale 120 fino allo svincolo di Tremonzelli sull’A19. Percorso inverso per i veicoli diretti a Palermo.
Il percorso è consigliato anche agli autobus destinati a servizio pubblico di linea oltre che ai mezzi di soccorso.  Infine, per gli utenti che utilizzano l’autostrada per gli spostamenti locali, quale ulteriore percorso alternativo si consiglia l’uscita dall’autostrada allo svincolo di Resuttano proseguendo sulla strada provinciale 19 fino ad Alimena; lungo la strada statale 290 fino al bivio Madonnuzza; lungo la strada statale 120 fino al bivio Geraci; lungo la strada statale 286 fino allo svincolo Castelbuono con immissione sull’autostrada A20.

Giuseppe Pezzati, presidente di Confartigianato Trasporti Palermo e componente del Consiglio nazionale Trasporti della Confederazione, punta ai porti della regione per far fronte alla situazione di emergenza. In particolare si fa riferimento a quelli di Trapani, Termini Imerese e Messina: Pezzatio punta quindi a "una mobilità sostenibile volta a decongestionare il traffico dei mezzi pesanti sulla Palermo-Messina, attualmente unica via di collegamento fra la Sicilia occidentale e quella orientale".
Pezzati, che lo corso martedì ha incontrato i rappresentanti dell’assessorato regionale Infrastrutture e trasporti per esaminare le possibili soluzioni  rispetto all’emergenza creatasi a seguito del cedimento del ponte Himera sulla A19 ha dichiarato: “In questo momento il percorso via mare ci appare una valida alternativa per evitare ingorghi e lunghe file- spiega Pezzati- . Questo, soprattutto in vista della stagione estiva, quando il flusso di mezzi sarà maggiore. In attesa che venga realizzata la bretella, la Regione siciliana potrebbe mettere a disposizione per il trasporto merci i traghetti dell’Isola che eseguirebbero, ad esempio, le tratte Trapani-Messina e Termini Imerese- Messina”. 


http://www.trasporti-italia.com/autotrasporto/sicilia-chiusura-palermo-catania-ecco-le-strade-alternative/20943

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”. - Giuseppe Pipitone

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”

Sono alcune delle dichiarazioni rilasciate alla Corte d'Assise di Palermo da Carmelo D'Amico, l'ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l'ultimo super testimone dell'inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. I magistrati lo considerano un collaboratore altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Portato da Cosa nostra, ma poi gli ha voltato le spalle”. Forza Italia? “Nata per volere dei servizi segreti”. Silvio Berlusconi? “Una pedina nelle mani di Marcello Dell’Utri”. Il pm Nino Di Matteo? “Lo vogliono morto sia Cosa Nostra che i servizi segreti”. Parola di Carmelo D’Amico, l’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l’ultimo super testimone dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
È un collaboratore importante D’Amico, un pentito che i pm del pool Stato – mafia considerano altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano. “Rotolo mi disse che Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa nostra, perché è il capomandamento di Trapani: ma il capo di Cosa nostra non può essere un trapanese, deve essere palermitano”, è uno dei tanti passaggi della deposizione di D’Amico, ascoltato come testimone dalla corte d’Assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi ed alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra.
Un racconto cominciato con un mea culpa: “Ho commesso almeno una trentina di omicidi, soprattutto per i catanesi dal 1992 in poi: a un ragazzo ho anche tagliato le mani”, ha confessato D’Amico, spiegando di aver deciso di collaborare con la magistratura “dopo la scomunica dei mafiosi di Papa Francesco, quelle parole mi hanno colpito moltissimo”. L’anatema del pontefice contro i boss è del 21 giugno 2014: da quel momento D’Amico inizia ad aprire il suo personalissimo libro dei ricordi, prima davanti ai pm della dda di Messina, e poi con i magistrati del pool palermitano.
È davanti ai pm Nino Di Matteo, Roberto TartagliaVittorio Teresi e Francesco Del Bene che D’Amico mette a verbale tutto quello che ha appreso sui rapporti tra Cosa Nostra e le Istituzioni. Un racconto pieno di rivelazioni inedite, replicato davanti alla Corte d’Assise, che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno. “Angelino Alfano – ha spiegato D’Amico collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone– è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”.
Ma non solo. Perché a godere dell’appoggio delle cosche sarebbe stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, già indagato per concorso esterno alla mafia e poi archiviato. “Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”. Per il collaboratore, poi, il partito di Silvio Berlusconi sarebbe nato perché sostenuto direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Poi però il patto tra politica e boss s’interrompe. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
D’Amico ha anche raccontato che a Barcellona Pozzo di Gotto era attiva una loggia massonica. “Ne facevano parte uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania (ex vice presidente del Senato col Pdl) : a questa apparteneva anche Dell’Utri”. La fonte dell’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto è Rotolo, il boss palermitano con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora di socialità. Rotolo è un pezzo da novanta, ex fedelissimo di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. “Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. Ma il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche confidenze sulla latitanza di Provenzano. “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”.
Ed è sempre Rotolo che racconta a D’Amico il piano di morte per assassinare Di Matteo. “Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico riscontra implicitamente le rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dell’Acquasanta, che per primo ha svelato come a partire dal dicembre del 2012, Cosa Nostra avesse studiato nei dettagli un piano per assassinare il pm della Trattativa. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – ha aggiunto D’Amico – Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”.
Anche Vito Galatolo ha raccontato che in un primo momento l’attentato contro il pm palermitano doveva essere fatto con 200 chili di tritolo, già acquistati dalla Calabria e arrivati a Palermo. Poi però si passò ad un piano di riserva, che prevedeva l’eliminazione del magistrato in un agguato a colpi di kalashnikov. Appena poche settimane fa l’allerta al palazzo di Giustizia è tornata ai massimi livelli, dato che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico sporadicamente frequentato dal pm. E se Galatolo aveva indicato in Messina Denaro il mandante dell’omicidio (“Perché Di Matteo si sta spingendo troppo oltre” aveva scritto il padrino di Castelvetrano ai boss di Palermo) per D’Amico l’ordine arrivava anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. E quando ad un certo punto l’attentato sembra essere entrato in fase d’impasse, Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – ha spiegato il pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”. Il vero chiodo fisso di D’Amico, però, sono i servizi. “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine ecco anche una paradossale precisazione. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.