Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 20 aprile 2015
NAUFRAGHI, IL RACCONTO. - Raffaele Vescera
Nella foto, Le statue dell'artista danese Nikolaj Bendix Skyum Larsen immerse nel mare di Pizzo Calabro (Vibo Valentia) – Ph. Jason deCaires Taylor.
In memoria dei 700 migranti morti oggi nel nostro mare.
Il caicco andava a vela spinto a rinforzo dal diesel di un vecchio tir, sballottava sotto i colpi del mare a libeccio sferzato dagli scossoni delle onde, sembrava andare a rovescio, la terra era lì, in vista, ma irraggiungibile alla folla ammassata. Sui bordi gli uomini, al centro donne e figli. Erano cento su un legno di dodici metri. Piangevano, urlavano, aiutateci, nella lingua pietosa comune agli umani, aiutateci, che qui moriremo tutti, e le donne si rannicchiavano ancora e i bambini cercavano le braccia più forti dei padri che guardavano i figli, le donne, il mare e i marinai impotenti.
Il viaggio era partito sereno, i marinai a prendere il sole, sorridenti, guardavano un branco di delfini acrobatici e sfottenti. Era solo una passeggiata, dicevano, sarebbero arrivati dall’altra parte del mare stretto prima di sera, e tutti avrebbero mangiato i maccaroni, dicevano ridendo, e la folla di imbarcati ammassati come sull’arca di Noé, ridevano con loro sognando il piatto di maccaroni caldi che li avrebbe saziati dopo i giorni passati a mangiare pane secco e formaggio duro tra steppe e montagne per raggiungere il mare della ricchezza, l’acqua che avrebbe purificato le loro esistenze miserabili, portandoli sulla terra dell’abbondanza dove in un giorno di lavoro solo si buscava come in un mese.
Gli uomini parlavano tra loro dei futuri guadagni. Le donne, finalmente sedute, parlavano delle case a venire. I bambini, composti e seri, come fanno i figli dei poveri, non parlavano, se non a bassa voce e per cose importanti.
Era un’umanità umile, dai sentimenti forti, che si affacciava sulle rive di un’altra umanità, gente che, tempo prima, era stata anch’essa educata ai sentimenti forti e ad esagerati valori etici. Poi la ricchezza aveva cambiato quella gente in poco tempo. I loro bambini avevano imparato a pretendere, a piangere, a fare capricci, gli uomini a divertirsi più che a faticare. Ma nel mondo c’era ancora un mare di uomini disposti a rimpiazzarli nella condizione di ultimi della società. Così, finalmente i penultimi si sarebbero sentiti migliori di qualcun altro.
Il sole splendeva ancora caldo sul basso Mediterraneo ad ottobre. Sin dall’alba, i suoi raggi avevano benedetto la partenza dei profughi, dando loro un’illusione di benevolenza, il mare cheto, appena increspato da un venticello di brezza, la loro aria quieta come il mare in vista della terra promessa. Al massimo tra un’ora, dicevano loro i marinai, tra un’ora ci siamo. Giusto per il tramonto. Così al buio lo sbarco sarà invisibile. A terra, chi vorrà troverà la macchina che lo porterà in città, pagando altri cinquanta dollari, perché mille dollari danno diritto solo al giro sull’acqua. E chi non ha i soldi per la macchina si arrangi e aspetti gli italiani, che quelli sono belli e fessi, e vi daranno un letto, un piatto di spaghetti e pomodoro, ma non vi aspettate la carne buona, che lì fa schifo, è tutta roba chimica.
L’aria calda arrivava a zaffate sempre più forti, più che una sera d’ottobre s’apprestava a diventarne una d’agosto. I marinai si guardavano perplessi, sapevano il gioco dei venti e temevano a ragione il libeccio in arrivo, forte e costante e poi turbinoso spingeva dall’Africa svegliando il mare e i passeggeri di quel guscio che osava sfidarlo. Non c’era bisogno di scomodare il dio col tridente per sballottarlo, spingerlo indietro, spezzare l’albero che si schiantava in un colpo solo a mare volando sulle teste terrorizzate dei naviganti. “Recuperiamo l’albero a bordo”, urlavano i marinai, sapendo che a mare l’albero avrebbe squilibrato il barcone affondandolo. Tira e tira le corde, cento braccia ce la faranno, che fortuna avervi a bordo, passeggeri, altrimenti non ce l’avremmo mai fatta noi quattro mezze seghe di mezzi mozzi, perché i marittimi buoni questi viaggi della morte non li fanno e li lasciano a noi, marinai d’acqua dolce.
Dove sono i salvagente, dove sono? Non bastano per tutti, dateli a chi non sa nuotare, ma qui nessuno sa nuotare, gente del deserto, allora dateli alle donne e ai bambini e state tranquilli che ci resta il motore per andare a riva. Ma il motore picchiava in testa, aveva portato con onore il peso di un tir a rimorchio per un milione di kilometri per le strade del mondo prima di andare al mare su quel barcone, ma lui, povero vecchio diesel, come avrebbe potuto farcela da solo contro le onde del Mediterraneo? Come avrebbe portato in salvo cento persone? Almeno prima, con l’aiuto della vela, faceva la sua figura, ma ora che l’avevano messo a manetta, sbuffava, sudava, spruzzava olio nero, non ce la faceva a vincere la tempesta e così avanti sarebbe morto, prima di tutta quella povera gente affidata alle poche forze di un vecchio diesel.
I marinai, tra mille imprecazioni ai loro santi stranieri, schiaffeggiavano la radio che non voleva saperne di funzionare e di mandare SOS. Una radio d’epoca si direbbe ridendo nel Paese di Bengodi, eppure dovrebbe funzionare, così gli avevano detto, ma non voleva saperne di svegliarsi dal sonno di chissà quanti anni passati.
Allora ci sono i razzi, bisogna spararne per forza qualcuno, sennò sono cazzi. Ma questi razzi sanno dell’altra guerra, e come funzionano? Le istruzioni sono scritte in cinese e allora che fare nella notte in arrivo? La notte arrivò presto con l’aria fredda d’autunno, perché il libeccio africano era stato spodestato dal levante balcanico e siberiano e poveri loro che si stringevano l’uno all’altro rassegnati sul guscio di legno fradicio che sollevato dalle onde si girava sulla pancia ed era lì per rovesciarsi, portandoseli su e giù. Con il mare che sbattendo gli inzuppava i vestiti e la pelle ed entrava dentro le ossa. Guai ai naufraghi. Si salutarono al buio, le mogli e i mariti con l’ultimo bacio, le ultime raccomandazioni in caso di sopravvivenza e le ultime volontà in caso di morte.
L’alba arrivò rosea, ma rosso al mattino maltempo è vicino, dicono i naviganti, la notte aveva mangiato la tempesta portando il barcone chissà dove. Non c’era terra in vista, non c’erano isole, navi, aerei, niente, solo un mare sconfinato.
Sul caicco alla deriva la folla tramortita, i meno forti avevano già lasciato il mondo delle speranze fatue e della fatica esagerata per quello senza ambizioni dell’eterno riposo. I sopravvissuti storditi, pochi avevano le forze per alzarsi, fare qualcosa. Molti restavano fermi ancora abbracciati gli uni agli altri. Acqua e cibo non ne avevano più. Il motore aveva smesso di balbettare colto da collasso anticipato. Erano cento, giovani e forti, avevano venduto tutto, case, terre, mobili e tappeti, erano fuggiti da guerre e miserie in cambio di un biglietto per il paradiso. Arrivò la pioggia gelida col vento di tramontana. Pregavano Dio di salvarli, oppure di dare loro una morte veloce, forse il paese della cuccagna l’avrebbero trovato nell’altro mondo. Piovve tutto il giorno fino alla notte, comandata dalla morte che li aspettava in agguato prendendoseli uno alla volta.
Passavano le ore sul mare padrone, chissà quante, pochi respiravano ancora, riparati dalla coltre dei cadaveri, i morti proteggevano i vivi. Nessuno di loro vide la veloce nave militare che li avvicinava, nessuno si accorse che uomini forti e attrezzati salivano a bordo per salvare il salvabile, nessuno capì che l’odissea era finita. Si svegliarono negli ospedali con la flebo, per i maccaroni dovevano aspettare ancora due giorni.
La corvetta della marina avvistò il barcone nel punto segnalato dagli elicotteri. Il relitto fu abbordato e arrembato poiché alle invocazioni dei megafoni non rispondeva nessuno. Lo spettacolo terrificante suscitò vomiti e malori nei bravi ragazzi armati di pietà che, sì, un mese prima erano accorsi a recuperare i cadaveri galleggianti sparsi di un boat affondato vicino alla costa, che sì avevano soccorso i clandestini sopravvissuti aggrappati agli scogli dell’ultima spiaggia, straziati nel corpo come il naufrago partito dall’isola di Calypso. Ma mai avevano visto i morti mischiati ai vivi, gli uni sugli altri poiché sotto quei cadaveri si udivano ancora flebili lamenti umani.
Dal racconto Naufraghi di Raffaelle Vescera, antologia I Fuggiaschi, ed. Stilo Bari.
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