mercoledì 14 ottobre 2020

Sallusti & C. vanno a caccia della Stasi. - Antonio Padellaro

 

L’altra sera, a Otto e Mezzo, Alessandro Sallusti ha evocato la dittatura “comunista” modello Stasi, incaricata di spiare ed eventualmente incarcerare le famiglie italiane non rispettose dei famigerati Dpcm. Se il direttore del Giornale – in buona compagnia con Libero e LaVerità – avesse pazientato appena qualche ora, avrebbe facilmente accertato che l’Italia trasformata in uno Stato di polizia che si affida alle delazioni dei vicini come nella Germania Est, non esiste. E ciò, aggiungiamo, purtroppo per lui e per i suoi colleghi del partito del partito preso contro il governo impegnati nella quotidiana, spasmodica ricerca della sia pur minima traccia di Stato totalitario pur di spedire, metaforicamente, Giuseppe Conte in piazzale Loreto.

In questo caso lo scatenato trio può invocare come parziale attenuante l’improvvida dichiarazione del ministro della Salute, Roberto Speranza, sulla possibilità di “segnalare” alle forze dell’ordine coloro che, malgrado il crescente contagio, non rinunciassero a organizzare affollati festini casalinghi. Ipotesi assurda di cui infatti non si trova traccia nel decreto “bolscevico”. Sono i guai dello schermo ideologico precostituito attraverso il quale, a furia di cercare la dittatura che non c’è si tralasciano le magagne che ci sono. Due in particolare. Il caos tamponi con i cittadini costretti ad attese interminabili in condizioni inaccettabili quando (vero commissario Arcuri?) c’era tutto il tempo per organizzare la tamponatura rapida di massa. Quella richiesta dal virologo Andrea Crisanti che oggi, in piena emergenza, non si sa ancora quando sarà attivata. Il secondo problema, colpevolmente irrisolto, è quello dei trasporti pubblici, “situazione sicuramente critica” come ammette il premier. Che senso ha infatti proibire movida e assembramenti davanti ai locali pubblici quando su bus e metro i passeggeri viaggiano stipati come sardine per la gioia del Covid? Sembrano emergere in sostanza due opposizioni, parallele e diverse. La prima è quella delle Regioni, in maggioranza di centrodestra, che pur tra le scintille cercano di risolvere i problemi in un confronto continuo col governo. La seconda opposizione è quella orchestrata dalla destra parlamentare, con la grancassa di giornali e talk. Demagogica. parolaia e sostanzialmente inutile.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/14/sallusti-c-vanno-a-caccia-della-stasi/5965327/

L’ora del recovery. Conte fa strike: giallorosa compatti e destra astenuta. - Salvatore Cannavò

 

Prove di dialogo in parlamento.

Per il governo Conte si apre una finestra di opportunità. Il voto con cui ieri Camera e Senato hanno approvato le Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), cioè il quadro di proposte italiane per il Recovery fund europeo ripropone la centralità della Ue nella politica italiana. Le opposizioni si sono astenute, praticamente nessun contrario, Matteo Salvini ha imboccato di gran carriera la strada delle “Capitali europee”, dove si recherà in compagnia del suo responsabile Esteri, Giancarlo Giorgetti, come ha annunciato proprio ieri. Segno di un cambio di passo nella strategia del leader leghista, frutto delle varie sconfitte dell’ultimo anno. Il governo è riuscito anche a fare un’operazione di ascolto del Parlamento che, a parte qualche espressione da “scaricatore di porto” (come ha sottolineato la senatrice M5S, Patty L’Abate, rimproverata dalla presidente di turno, la compagna di Movimento, Paola Taverna), ha dato il suo contributo, ben raccolto dal ministro degli Affari europei, Vincenzo Amendola, che si sta guadagnando un ruolo di pivot in questa partita. Molto apprezzato dall’opposizione, Amendola ha potuto evidenziare, con malcelata soddisfazione, che il nostro è “il primo Parlamento in Europa a discutere del Recovery plan” e che nessun altro Paese ha finora presentato alcun piano.

Le sei missioni In effetti la supercitata Francia – utilizzata dagli opinionisti che si stracciano i capelli per il Mes – ha presentato la propria legge di Bilancio e domani, 15 ottobre, l’Italia, in linea con il crono-programma, presenterà le sue Linee guida per poi presentare i progetti veri e propri entro gennaio.

Punti concreti, quindi, ancora non se ne hanno. Finora occorre accontentarsi di 4 linee strategiche – capacità di ripresa dell’Italia; riduzione dell’impatto sociale ed economico della crisi pandemica; sostegno alla transizione verde e digitale; aumento del potenziale di crescita dell’economia – articolate su 6 missioni: “1) digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2) rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) infrastrutture per la mobilità; 4) istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5) equità sociale, di genere e territoriale; 6) salute”.

La task force Già si capisce – dagli interventi in aula, ma anche dalle rassicurazioni del premier – che una partita importante sarà quella della governance di questo piano, di chi lo gestirà. Giuseppe Conte ha assicurato che ci sarà un dispositivo normativo ad hoc, Italia Viva ha insistito per garantire che si individui la task force e quindi vedremo ancora dei movimenti.

Ma il cambio di passo si vede. Lo si era visto a inizio settimana con quell’ampio articolo a firma Giuseppe Conte, che campeggiava sul settimanale economico diretto dal berlusconiano Renato Brunetta (molto attivo per portare Forza Italia nell’area di discussione e gestione del Recovery), lo conferma la svolta che Giorgetti sta imprimendo alla Lega e a cui Salvini ieri si è adeguato pur confermando che il suo partito non cambierà gruppo politico nel Parlamento europeo. Per ora.

Scaricatori. Il passaggio ha influito sugli interventi della Lega al Senato, oscillanti tra sghignazzate e parole senza senso – “siete dei bugiardini” ha detto Marco Centinaio, “Nelle trappole per topi il formaggio è sempre gratis” ha straparlato Simone Bossi – e la dichiarazione di astensione finale di Stefano Candiani. Più composto il comportamento di Forza Italia, mentre Fratelli d’Italia si adegua, ma appare poco convinta.

Digital green. Nella maggioranza, invece, se il governo vorrà ascoltare, a poco a poco è emerso un filo conduttore con la gran parte degli interventi centrati su transizione ecologica, idrogeno, green deal e cambiamento climatico (soprattutto da parte del M5S, compatto su questo punto con gli interventi di Michela Montevecchi e ancora L’Abbate ad esempio), ma anche del Pd (Andrea Ferrazzi). E poi Digitale e Salute. L’asse tra Italia Viva e Lega ha fatto riapparire il sempreverde Ponte sullo Stretto, ma non sembra questo, oggi, il punto di equilibrio. Tanto che una super-critica come Emma Bonino ha dovuto prendere atto della buona discussione e del buon documento anche sull’importanza data al genere femminile, “l’inizio di un cambio culturale molto importante”. Per Conte, un’ampia finestra di opportunità.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/14/lora-del-recovery-conte-fa-strike-giallorosa-compatti-e-destra-astenuta/5965313/

Covid, controlli a tappeto dei Nas su 1.900 locali 351 violazioni.

 

L'attività di una settimana. Oltre il 43% delle multe è per mancato uso di mascherine.

In una sola settimana, 1.898 ispezioni sono state condotte dai Nas in ristoranti, pizzerie, fast-food, pub e bar per controllare il rispetto delle misure anti Covid e 351 sono state le violazioni individuate. 

La più diffusa, pari al 43% delle segnalazioni, è stata il mancato uso delle mascherine. Nell'ambito dell'emergenza sanitaria, il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute ha rafforzato i controlli sulle misure di contenimento dei contagi da coronavirus realizzando, in condivisione con il Ministero della Salute, uno specifico servizio di controllo sulle strutture di ristorazione. Le ispezioni sono state svolte dai 38 nuclei dei Nas su tutto il territorio nazionale dal 5 all'11 ottobre, soprattutto in locali della movida e in orari serali o notturni.

 "Ulteriori violazioni hanno interessato nel 9% la distanza insufficiente fra tavoli, nel 9% il mancato distanziamento sociale tra le persone, nell'8% l'assenza di prodotti igienizzanti all'interno o all'ingresso dei locali nonchè l'omessa attuazione delle corrette e periodiche procedure di pulizia e sanificazione degli ambienti (3%). Ulteriori inosservanze, pari al 15%, hanno riguardato altri obblighi previsti sia da normative nazionali che regionali e locali, oggetto di autonome ordinanze, relative ad esempio alla segnaletica orizzontale sui percorsi da seguire, omessa registrazione avventori e la misurazione della temperatura corporea.

Sono state oggetto di controllo anche le fasi di preparazione, detenzione e vendita di alimenti con contestazione di 30 sanzioni penali e 310 amministrative per violazioni alle norme igienico-sanitarie che hanno altresì determinato il sequestro di kg. 4.077 di alimenti irregolari, per un valore di 59.000 euro, e la chiusura/sospensione dell'attività di 49 locali / strutture". 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/10/14/covid-controlli-a-tappeto-dei-nas-su-1.900-locali-351-violazioni_73829fb3-12dd-40bd-a2a8-9dd039cd45c2.html

Vitalizi: la Casta vuole tenersi il malloppo, ma nessuno vuole decidere sul ricorso. - Ilaria Proietti

 

L’imbarazzo è palpabile perché il rischio è quello di fare la parte del tacchino nel Giorno del Ringraziamento. Ma di aria di festa, a Palazzo Madama, ce n’è ben poca tra i membri del Consiglio di Garanzia presieduto da Luigi Vitali (forzista tra i fondatori della creatura totiana “Cambiamo”) e composto da Ugo Grassi e Pasquale Pepe della Lega, Valeria Valente del Pd e Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Tutti in una posizione assai scomoda: Balboni medita di astenersi, qualcun altro non scarta l’opzione ammutinamento, ma va trovata una scusa che stia in piedi. Perché altrimenti l’alternativa è da Thanksgiving: disobbedire ai loro capi politici, Salvini in testa, ma pure a Zingaretti e a Giorgia Meloni che hanno promesso di fare coriandoli della sentenza del collegio presieduto da Giacomo Caliendo che in giugno ha cassato il taglio dei vitalizi degli ex senatori. O assumersi la responsabilità di far scucire sull’unghia al Senato, con la crisi che morde e milioni d’italiani in ginocchio causa Covid, oltre 33 milioni di euro per ripristinare i vecchi assegni, sforbiciati dal 1º gennaio 2019 per ragioni di equità sociale. Di cui i 776 ex che hanno fatto ricorso non vogliono sentir parlare benché non se la passino affatto male, come Francesco Rutelli, Alessandra Mussolini o Denis Verdini in compagnia di molti altri che ne fanno una questione di principio e di quattrini.

L’Amministrazione del Senato guidata dal segretario generale Elisabetta Serafin, si è precipitata a fare ricorso per difendere il taglio deciso dopo una lunga istruttoria condotta con il conforto del Consiglio di Stato e la consulenza dell’Inps e pure dell’Istat, che è servita ad adottare “la metodologia migliore possibile” per rendere il trattamento degli ex parlamentari il più possibile omogeneo alle regole contributive introdotte nel nostro ordinamento pensionistico a metà degli anni Novanta per tutti gli altri contribuenti italiani”. E per segnalare la gravosità dell’esborso di circa 33 milioni di euro, anche rispetto alla quota di competenza della Camera (per quei senatori che sono stati anche deputati) che saranno difficilmente recuperabili dato che l’altro ramo del Parlamento non ha rimesso in discussione, almeno per ora, il taglio dei vitalizi. Senza contare che pagare subito e poi, nel caso di una sentenza favorevole all’Amministrazione in appello dover inseguire gli ex parlamentari o i loro eredi col “gravoso compito di recuperare” il malloppo, potrebbe rivelarsi una missione impossibile.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/14/vitalizi-la-casta-vuole-tenersi-il-malloppo-ma-nessuno-vuole-decidere-sul-ricorso/5965343/?fbclid=IwAR3CZPR9RtiKTAznmNQReyn6smdKs0l4AyDzebQzMP7K-38ivDRLB_na1GE

Eccesso di coerenza. - Marco Travaglio

 

Quattro anni fa, quando Roberto Giachetti si candidò a sindaco di Roma ed escluse dalle liste l’ambientalista Nathalie Naim perché imputata per diffamazione ai danni dei bancarellari abusivi, scrivemmo che c’è un limite anche alla coerenza: le “liste pulite” sono un dovere civico, ma bisogna sempre verificare i fatti alla base di un’imputazione e anche di una condanna. Se sono criminali, o soltanto immorali, o scorretti e dunque incompatibili con i requisiti di “disciplina e onore” prescritti dalla Costituzione per chi ricopre pubbliche funzioni, è giusto non candidare chi li ha commessi o, se è già stato eletto, cacciarlo dal partito e dalla carica. Altrimenti nessun problema. Solo così la politica può affermare il suo “primato”: non coprendo gli amici da ogni delitto e rinfacciando ai nemici condotte meno gravi; ma decidendo autonomamente e chiaramente cosa si può fare e cosa no, a prescindere dai processi penali che seguono altre logiche e regole, e poi risponderne ai cittadini. Non tutto ciò che è reato è immorale e non tutto ciò che è immorale è reato.

Lo ripetiamo anche oggi, alla notizia che Chiara Appendino, dopo la condanna a 6 mesi in primo grado per falso ideologico, si è autosospesa dal M5S e ha deciso “per coerenza” di non ricandidarsi a sindaca di Torino. Convinta di ribaltare quel verdetto in Appello, ma sa bene che – sebbene abbia scelto il rito abbreviato – la sentenza non arriverà mai prima dell’estate, quando la città tornerà alle urne. È un gesto tanto nobile quanto raro, anzi unico. Ma a noi pare un eccesso di coerenza. E i 5Stelle, impegnati in mille beghe su questioni molto più secondarie e trascurabili, dovrebbero affrontare la faccenda subito, per affidarla ai probiviri e aggiornare il loro Codice etico, ancora troppo rigido e dunque inefficace. Giusto allontanare i condannati, anche in primo grado, per reati gravi, qual è certamente sulla carta il falso. Ma l’ultima parola deve sempre spettare ai probiviri, dopo aver esaminato i fatti. Che, per l’Appendino, sono a dir poco kafkiani. Nel 2012 la giunta del Pd Piero Fassino contrae un debito con una società privata, la Ream, che versa al Comune una caparra di 5 milioni per avere il diritto di prelazione sull’area ex Westinghouse, interessata da un progetto di riqualificazione e rilancio con un mega-centro congressi. Nel 2013 il progetto viene aggiudicato a un’altra società e i 5 milioni vanno restituiti. Ma la giunta Fassino non paga. E, ai solleciti della Ream, risponde nel 2014 e nel 2015 che ridarà i soldi solo al termine delle procedure per l’aggiudicazione della concessione al vincitore della gara, bloccate dal ricorso al Tar di un concorrente escluso.

Nel 2016 arriva la Appendino e si ritrova pure quel debito. Siccome le casse sono vuote e si rischia il pre-dissesto, la nuova giunta 5Stelle apre una trattativa con Ream per rinviare la restituzione dei 5 milioni, che nell’attesa restano fuori bilancio, tantopiù che il centro congressi è sempre bloccato al Tar. Ma i capigruppo di opposizione, compresi i partiti di centrosinistra che non hanno mai restituito un centesimo, presentano un esposto in Procura contro la Appendino. Così la sindaca viene indagata per due abusi d’ufficio e due falsi (sui bilanci 2016 e 2017), insieme al capo di gabinetto Paolo Giordana e all’assessore al Bilancio Sergio Rolando. I tre rivendicano la scelta, viste le trattative in corso con Ream per rinviare il pagamento: tant’è che poi ottengono di restituire i soldi nel 2018 e infatti iscrivono il debito, d’intesa con Ream, nel bilancio 2018. E la Corte dei Conti dà loro ragione nella relazione al rendiconto 2016 e al bilancio di previsione 2017-’19, entrambi approvati come ineccepibili, smontando la tesi contraria dei revisori dei conti: la caparra poteva non essere registrata nei “debiti fuori bilancio”. Ma la Procura la pensa diversamente, arrivando a sostenere che, siccome Ream continuava a chiedere indietro i soldi, non c’era alcuna trattativa col Comune; e che, malgrado il centro congressi sia rimasto bloccato al Tar fino al mese scorso, l’aggiudicazione si era perfezionata già quattro anni prima, nell’autunno 2016. Dunque la caparra andava iscritta a bilancio e restituita nel 2016.
Alla fine il gup, con rito abbreviato, assolve gli imputati dai due abusi e dal falso del 2017, ma li condanna per il falso del 2016. In soldoni, la Appendino viene condannata per aver favorito il suo Comune iscrivendo un debito atipico nel bilancio sbagliato: quello del 2018 anziché quello del 2016. Si vedrà in Appello e in Cassazione se ha sbagliato lei o il Gup: se la sentenza sarà confermata, la sindaca avrà sbagliato una posta di bilancio; se sarà annullata, i pm e il gup avranno preso una cantonata. Ma, per la reputazione della Appendino e per il suo futuro politico e amministrativo, non cambierà nulla: nel peggiore dei casi, avrà commesso un errore, peraltro avallato dalla Corte dei Conti. E non nell’interesse proprio, ma della sua città. Non ha rubato, mafiato, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali. E neppure il suo più acerrimo nemico può accusarla di condotte men che cristalline. Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza. Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/14/eccesso-di-coerenza/5965304/

Vaticano, arrestata a Milano Cecilia Marogna: ordine di cattura internazionale per la “dama del cardinale” Becciu.

 

La 39enne, originaria di Cagliari titolare di una società di missioni umanitarie con sede in Slovenia, è diventata nota per aver ricevuto 500mila euro dalla Segreteria di Stato, per volontà dell’allora sostituto Angelo Becciu, al quale il Papa ha recentemente tolto i diritti connessi al cardinalato. Bloccata dagli uomini della Guardia di Finanza.

A una settimana dalla sua comparsa nelle cronache sempre più ingarbugliate del caso Angelo Becciu è stata arrestata a Milano, con un ordine di cattura internazionale, Cecilia Marogna, denominata la dama del cardinale. La 39enne, originaria di Cagliari titolare di una società di missioni umanitarie con sede in Slovenia, è diventata nota per aver ricevuto 500mila euro dalla Segreteria di Stato, per volontà dell’allora sostituto Angelo Becciu, al quale il Papa ha recentemente tolto i diritti connessi al cardinalato. Ufficialmente il denaro elargito da Becciu a Marogna aveva lo scopo di sostenere missioni umanitarie in Africa e in Asia. Ma i soldi sono stati usati per rinnovare il guardaroba e l’arredamento di casa: borse, scarpe, accessori lussuosi, tra i quali una costosissima poltrona in pelle. L’accusa nei confronti di Marogna è peculato per distrazione di beni. La donna sarà estradata e messa a disposizione dell’autorità giudiziaria vaticana.

Ma c’è di più. La “dama del cardinale”, come è stata subito ribattezzata nei sacri palazzi, poteva contare su una presentazione su carta intestata della Segreteria di Stato: “Il sottoscritto, Sua Eccellenza monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, dichiara di conoscere la signora Cecilia Marogna e di riporre in lei fiducia e stima per la serietà della sua vita e della sua professione. La signora Marogna presta servizio professionale come analista geopolitico e consulente relazioni esterne per la Segreteria di Stato-sezione affari generali”. Il cardinale, però, sostiene di essere stato all’oscuro dei rapporti di Marogna. La donna, infatti, ha ammesso legami con faccendieri in odore di servizi segreti, coinvolti nei misteri dell’ultimo mezzo secolo. Come Flavio Carboni , che Marogna ha sostenuto di aver “voluto conoscere per avere informazioni sulla storia dell’Anonima sequestri”. Di Francesco Pazienza, il collaboratore del Sismi negli ’70 e 80, invece, ha detto: “Sono la figlia che non ha mai avuto”. Nel 2010 Marogna era stata denunciata per appropriazione indebita, mentre nel 2002 per furto: precedenti di cui Becciu era all’oscuro.

In una intervista a "Libero" Carboni ha sostenuto di non conoscere Becciu: “Il Papa si sta occupando, con notevole rigore, di alcuni movimenti finanziari e non solo, ovviamente nell’ambito del suo Stato. Di questo nuovo rigore, credo che il cardinale Becciu stia pagando il prezzo più alto. Eppure, fino a qualche tempo fa, di lui sentivo parlare un gran bene. Il cardinale Becciu, nella gerarchia vaticana, era praticamente il numero 3, un papabile. Ora alla gogna, un crucifige mediatico senza pietà, ancor prima di un qualunque esito giudiziario. Io ne so qualcosa e mi fa rabbia assistere a tale bestiale accanimento, che va via aumentando senza che nessuno intervenga per cercare, quantomeno, di contenere l’orda scatenata che vuole sbranare una preda quando ormai gli è impossibile ogni difesa”, sottolinea Carboni. Poi, parlando di Cecilia Marogna, ha affermato: “Cosa posso dire di una persona che ho visto due volte alcuni anni fa? Ricordo di averla incontrata nel mio ufficio romano, su segnalazione del mio amico Gianmario Ferramonti, affinché l’aiutassi a procurarle un lavoro. Ma, in quel periodo, non potevo assumere nessuno e oberatissimo di lavoro come ero, neanche ebbi modo di occuparmene presso altri. Forse a Roma oppure in Sardegna, ma non ne sono certo, la incontrai una seconda volta e sempre per lo stesso motivo. L’impressione che ne ebbi, nonostante la brevità degli incontri, fu abbastanza positiva. In questa giovane signora, notai una certa disinvoltura nel parlare, sicura di sé, di buone maniere e di un certo buon gusto nel vestire”.

Becciu, dopo aver fatto sapere di sentirsi “truffato” e pronto a sporgere denuncia nei confronti della signora, ha anche precisato, attraverso il suo legale, l’avvocato Fabio Viglione, che “i contatti con Cecilia Marogna attengono esclusivamente questioni istituzionali”. Quanto a lei, ha rivendicato “il risultato di aver costruito una rete di relazioni in Africa e Medio Oriente per proteggere Nunziature e Missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche”, spiegando che “i fondi in Slovenia erano di garanzia per le operazioni in Africa”. E sulle spese in beni di lusso ha chiarito alle Iene: “Era una po’ una restituzione degli anticipi che io avevo utilizzato come mie risorse…”. D’altra parte, “svolgo una professione sensibile, particolare, non è che noi paghiamo via bonifico o ritenuta d’acconto…”, e, nei “due anni prima” dei bonifici, “ho anticipato risorse per 220mila pound…

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/13/vaticano-cecilia-marogna-arrestata-a-milano-dalla-finanza-con-ordine-di-cattura-internazionale/5965206/

Gli striscioni, le spedizioni punitive e la pax per non lasciare “la curva vacante”: così la mafia si muoveva tra i tifosi del Palermo calcio. - Dario De Luca

 

Nelle carte dell’ultima operazione antimafia che ha messo sotto torchio la storica famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, i magistrati della procura di Palermo ricostruiscono il costante legame tra Cosa nostra e pezzi della tifoseria. Compresi gli scontri tra gruppi di ultras: "Ti devi fare 20 anni di carcere ma loro non devono montare più, ci dobbiamo ammazzare con tutti".

Un concetto Massimiliano Jari Ingarao lo aveva chiaro in testa: i disordini allo stadio non dovevano esistere, “perché si arriva al punto che la curva resta vacante”. Lo diceva anche al telefono durante un confronto con il capo ultras del Palermo Rosario Lupo, deciso nell’impedire l’esposizione di uno striscione appartenente a un altro gruppo del tifo organizzato rosanero. Non ci sono soltanto le estorsioni e la gestione dei cantanti neomelodici durante la festa di Sant’Anna nelle carte dell’ultima operazione antimafia che ha messo sotto torchio la storica famiglia mafiosa di Borgo Vecchio. I magistrati della procura di Palermo sono certi del costante legame tra Cosa nostra e pezzi della tifoseria. Un binomio emerso già nel 2005, quando da spartirsi c’erano i biglietti omaggio messi a disposizione dalla società. Quindici anni dopo non ci sono contestazioni nei confronti dei vertici del club, impegnati in una difficile risalita nel calcio che conta dopo la promozione nel campionato di serie C. Sotto la lente d’ingrandimento è finita invece la costante influenza di Cosa nostra “su tutto ciò che gravita attorno al mondo del calcio palermitano”, scrivono nel provvedimento di fermo i procuratori Amelia Luise e Luisa Bettiol.

La gestione dei tifosi all’interno dello stadio Renzo Barbera – Per capire le dinamiche del tifo organizzato rosanero bisogna tornare indietro al 2013. Anno in cui gli ultras decidono di dividersi in due fazioni: una parte rimane nella parte superiore della curva nord, mentre il resto passa in quella inferiore. In questo contesto avrebbe cominciato a farsi strada Massimiliano Ingarao, finito in manette nell’ultimo blitz e figlio dell’ex reggente del mandamento di Porta Nuova Nicolò, ucciso in un agguato mafioso. Ingarao, classe 1994, ha vissuto pure una parentesi nelle giovanili del club, a quanto pare dopo una riunione tenuta dal padre insieme all’ex direttore sportivo Rino Foschi. Per i magistrati il 26enne sarebbe “l’anello di congiunzione tra il mondo che ruota attorno al Palermo Calcio e i referenti mafiosi palermitani”. A lui, come emerge dai documenti, in più occasioni si rivolge Giovanni Johnny Giordano. Volto storico della tifoseria, non indagato ma con precedenti per favoreggiamento della prostituzione e lesioni personali, e con un passato da custode del club durante l’era del presidente Maurizio Zamparini. Alla vigilia della partita con il Marina Di Ragusa di novembre 2019 al gruppo di Giordano, gli Ultras Palermo 1900, sarebbe stato vietato di esporre il proprio striscione dai rivali della Curva Nord 12. Per risolvere la questione Giordano si reca a casa di Ingarao, all’epoca ai domiciliari, con l’obiettivo di incontrare lo zio Angelo Monti, ritenuto il reggente mafioso di Borgo Vecchio. Il faccia a faccia non avviene ma il problema viene comunque risolto dal nipote con una telefonata.

Gli scontri a Nola e Palmi: “Ci dobbiamo ammazzare con tutti”- Tra gli episodi ricostruiti dagli inquirenti ci sono anche alcune trasferte dello scorso campionato di serie D. La prima di queste a Nola, in provincia di Napoli, quando un autobus con alcuni tifosi del Palermo viene fermato per essere depredato di maglie e sciarpe dai tifosi campani. Un affronto che mette sul banco degli imputati ancora una volta Giordano e il suo gruppo colpevole di non avere reagito. La punizione sarebbe stata il divieto all’ingresso durante le successive partite casalinghe del Palermo. A entrare in scena sono nuovamente gli uomini di Cosa nostra e la loro linea della non belligeranza per evitare di “svuotare la curva”. Più complesso invece il post partita del match contro la Palmese, in Calabria. Caratterizzato per gli scontri, a fine primo tempo, tra i tifosi dello stesso Palermo. Sul tavolo c’è la corsa alla leadership e la forte rivalità tra gruppi. I fatti lasciano pesanti conseguenze anche al termine della trasferta, con gli inquirenti che monitorano l’organizzazione di due spedizioni punitive, probabilmente con armi al seguito, nei pressi del teatro Politeama e di piazzale Giotto. Qualcosa però non funziona e uno dei due gruppi non si presenta per lo scontro. “Se comandi Palermo dovete prendere posizione – suggeriva un tifoso al capo del gruppo sconfitto nei tafferugli in Calabria – ti devi fare 20 anni di carcere ma loro non devono montare più, ci dobbiamo ammazzare con tutti”. La guerra però rimane solo nelle parole e con il derby siciliano con il Messina alle porte si decide, secondo i magistrati grazie alla regia di Cosa nostra, di evitare lo scontro.

La festa e i neomelodici – Nonostante gli arresti domiciliari, per alcune rapine in trasferta, Massimiliano Jari Ingarao sarebbe stato particolarmente attivo anche per l’organizzazione dei festeggiamenti di Sant’Anna, la patrona di Borgo Vecchio. Al clan non sarebbe sfuggito nulla. Dalla disposizione delle bancarelle a quella dei tavolini. Pretendendo il pizzo anche da coloro che vendevano il ghiaccio lungo la strada. L’appuntamento clou del 2019 è però quello legato ai cantanti neomelodici, secondo la procura di Palermo ingaggiati con soldi frutto di estorsioni mascherate come sponsorizzazioni da parte dei commercianti del quartiere. Dalla partenopea Giusy Attanasio, passando per Marco Calone e Gianni Celeste, tutti nomi di spessore per il settore che sarebbero stati “indicati” dal boss Angelo Monti in persona. In una serata canora si sarebbe dovuto esibire, come già fatto nel 2018, anche il catanese Niko Pandetta, nipote del capomafia ergastolano Salvatore Turi Cappello e amico personale di Ingarao. Nelle carte dell’inchiesta gli inquirenti annotano decine di intercettazioni in cui boss e gregari discutono di compensi e organizzazione. “Gli ho detto a mio zio facciamo cambio e prendiamo Pandetta […] vuole due e cinque ma ci leva qualche cosa”, diceva Ingarao cercando di sostituire un cantante con cui il comitato dei festeggiamenti aveva già preso l’impegno. Per Pandetta però erano settimane tribolate. Colpa delle frasi pronunciate in un servizio andato in onda all’interno del programma televisivo Realiti, su Rai 2. Parole, insieme a una diretta Facebook pubblicata successivamente, che gli costarono una serie di divieti per esibirsi in pubblico e che in quel periodo fecero saltare anche l’esibizione a Borgo Vecchio.

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