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mercoledì 14 ottobre 2020

Gli striscioni, le spedizioni punitive e la pax per non lasciare “la curva vacante”: così la mafia si muoveva tra i tifosi del Palermo calcio. - Dario De Luca

 

Nelle carte dell’ultima operazione antimafia che ha messo sotto torchio la storica famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, i magistrati della procura di Palermo ricostruiscono il costante legame tra Cosa nostra e pezzi della tifoseria. Compresi gli scontri tra gruppi di ultras: "Ti devi fare 20 anni di carcere ma loro non devono montare più, ci dobbiamo ammazzare con tutti".

Un concetto Massimiliano Jari Ingarao lo aveva chiaro in testa: i disordini allo stadio non dovevano esistere, “perché si arriva al punto che la curva resta vacante”. Lo diceva anche al telefono durante un confronto con il capo ultras del Palermo Rosario Lupo, deciso nell’impedire l’esposizione di uno striscione appartenente a un altro gruppo del tifo organizzato rosanero. Non ci sono soltanto le estorsioni e la gestione dei cantanti neomelodici durante la festa di Sant’Anna nelle carte dell’ultima operazione antimafia che ha messo sotto torchio la storica famiglia mafiosa di Borgo Vecchio. I magistrati della procura di Palermo sono certi del costante legame tra Cosa nostra e pezzi della tifoseria. Un binomio emerso già nel 2005, quando da spartirsi c’erano i biglietti omaggio messi a disposizione dalla società. Quindici anni dopo non ci sono contestazioni nei confronti dei vertici del club, impegnati in una difficile risalita nel calcio che conta dopo la promozione nel campionato di serie C. Sotto la lente d’ingrandimento è finita invece la costante influenza di Cosa nostra “su tutto ciò che gravita attorno al mondo del calcio palermitano”, scrivono nel provvedimento di fermo i procuratori Amelia Luise e Luisa Bettiol.

La gestione dei tifosi all’interno dello stadio Renzo Barbera – Per capire le dinamiche del tifo organizzato rosanero bisogna tornare indietro al 2013. Anno in cui gli ultras decidono di dividersi in due fazioni: una parte rimane nella parte superiore della curva nord, mentre il resto passa in quella inferiore. In questo contesto avrebbe cominciato a farsi strada Massimiliano Ingarao, finito in manette nell’ultimo blitz e figlio dell’ex reggente del mandamento di Porta Nuova Nicolò, ucciso in un agguato mafioso. Ingarao, classe 1994, ha vissuto pure una parentesi nelle giovanili del club, a quanto pare dopo una riunione tenuta dal padre insieme all’ex direttore sportivo Rino Foschi. Per i magistrati il 26enne sarebbe “l’anello di congiunzione tra il mondo che ruota attorno al Palermo Calcio e i referenti mafiosi palermitani”. A lui, come emerge dai documenti, in più occasioni si rivolge Giovanni Johnny Giordano. Volto storico della tifoseria, non indagato ma con precedenti per favoreggiamento della prostituzione e lesioni personali, e con un passato da custode del club durante l’era del presidente Maurizio Zamparini. Alla vigilia della partita con il Marina Di Ragusa di novembre 2019 al gruppo di Giordano, gli Ultras Palermo 1900, sarebbe stato vietato di esporre il proprio striscione dai rivali della Curva Nord 12. Per risolvere la questione Giordano si reca a casa di Ingarao, all’epoca ai domiciliari, con l’obiettivo di incontrare lo zio Angelo Monti, ritenuto il reggente mafioso di Borgo Vecchio. Il faccia a faccia non avviene ma il problema viene comunque risolto dal nipote con una telefonata.

Gli scontri a Nola e Palmi: “Ci dobbiamo ammazzare con tutti”- Tra gli episodi ricostruiti dagli inquirenti ci sono anche alcune trasferte dello scorso campionato di serie D. La prima di queste a Nola, in provincia di Napoli, quando un autobus con alcuni tifosi del Palermo viene fermato per essere depredato di maglie e sciarpe dai tifosi campani. Un affronto che mette sul banco degli imputati ancora una volta Giordano e il suo gruppo colpevole di non avere reagito. La punizione sarebbe stata il divieto all’ingresso durante le successive partite casalinghe del Palermo. A entrare in scena sono nuovamente gli uomini di Cosa nostra e la loro linea della non belligeranza per evitare di “svuotare la curva”. Più complesso invece il post partita del match contro la Palmese, in Calabria. Caratterizzato per gli scontri, a fine primo tempo, tra i tifosi dello stesso Palermo. Sul tavolo c’è la corsa alla leadership e la forte rivalità tra gruppi. I fatti lasciano pesanti conseguenze anche al termine della trasferta, con gli inquirenti che monitorano l’organizzazione di due spedizioni punitive, probabilmente con armi al seguito, nei pressi del teatro Politeama e di piazzale Giotto. Qualcosa però non funziona e uno dei due gruppi non si presenta per lo scontro. “Se comandi Palermo dovete prendere posizione – suggeriva un tifoso al capo del gruppo sconfitto nei tafferugli in Calabria – ti devi fare 20 anni di carcere ma loro non devono montare più, ci dobbiamo ammazzare con tutti”. La guerra però rimane solo nelle parole e con il derby siciliano con il Messina alle porte si decide, secondo i magistrati grazie alla regia di Cosa nostra, di evitare lo scontro.

La festa e i neomelodici – Nonostante gli arresti domiciliari, per alcune rapine in trasferta, Massimiliano Jari Ingarao sarebbe stato particolarmente attivo anche per l’organizzazione dei festeggiamenti di Sant’Anna, la patrona di Borgo Vecchio. Al clan non sarebbe sfuggito nulla. Dalla disposizione delle bancarelle a quella dei tavolini. Pretendendo il pizzo anche da coloro che vendevano il ghiaccio lungo la strada. L’appuntamento clou del 2019 è però quello legato ai cantanti neomelodici, secondo la procura di Palermo ingaggiati con soldi frutto di estorsioni mascherate come sponsorizzazioni da parte dei commercianti del quartiere. Dalla partenopea Giusy Attanasio, passando per Marco Calone e Gianni Celeste, tutti nomi di spessore per il settore che sarebbero stati “indicati” dal boss Angelo Monti in persona. In una serata canora si sarebbe dovuto esibire, come già fatto nel 2018, anche il catanese Niko Pandetta, nipote del capomafia ergastolano Salvatore Turi Cappello e amico personale di Ingarao. Nelle carte dell’inchiesta gli inquirenti annotano decine di intercettazioni in cui boss e gregari discutono di compensi e organizzazione. “Gli ho detto a mio zio facciamo cambio e prendiamo Pandetta […] vuole due e cinque ma ci leva qualche cosa”, diceva Ingarao cercando di sostituire un cantante con cui il comitato dei festeggiamenti aveva già preso l’impegno. Per Pandetta però erano settimane tribolate. Colpa delle frasi pronunciate in un servizio andato in onda all’interno del programma televisivo Realiti, su Rai 2. Parole, insieme a una diretta Facebook pubblicata successivamente, che gli costarono una serie di divieti per esibirsi in pubblico e che in quel periodo fecero saltare anche l’esibizione a Borgo Vecchio.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/14/gli-striscioni-le-spedizioni-punitive-e-la-pax-per-non-lasciare-la-curva-vacante-cosi-la-mafia-si-muoveva-tra-i-tifosi-del-palermo-calcio/5965260/

giovedì 30 gennaio 2020

‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare. - Lucio Musolino

‘Ndrangheta, “se vi dico che ho problemi, domani sono morto”: nelle parole ai pm la paura degli imprenditori. Poi la scelta di denunciare

Ci sono anche le storie delle vittime sotto scacco del clan Labate nell'operazione “Helianthus”, della procura di Reggio Calabria. Al centro dell'inchiesta c'è la cosca che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace. Prima davanti ai magistrati facevano resistenza, terrorizzate "al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Poi hanno raccontato con le lacrime agli occhi le estorsioni subite. Il gip: "Dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa.”
“Dottore, se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto!”. E poi: “Dottore, vedete che poi non torniamo più a casa“. E ancora: “Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. Piangevano, davanti ai pm raccontavano con le lacrime agli occhi che quel nome, il nome del boss al quale dovevano chiedere il permesso per lavorare, loro non avevano intenzione di farlo. “Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi, non hanno niente da perdere”. “Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”. Alla fine, però, hanno trovato il coraggio di denunciare. E raccontare ai magistrati anni di minacce, estorsioni e taglieggiamenti. “L’impresa viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere. Questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata“. L’alternativa? “La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita”Ci sono anche le storie degli imprenditori sotto scacco della ‘ndrangheta nell’operazione “Helianthus”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Al centro dell’inchiesta c’è la cosca Labate: 14 gli arrestati citati nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Pasquale Laganà e notificata in carcere al boss Pietro Labate. Con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione, la squadra mobile ha arrestato pure Orazio Assumma, il braccio destro del boss che decideva ogni cosa al Gebbione, il quartiere di Reggio tra il torrente Sant’Agata e il torrente Calopinace.
L’inchiesta contro i “Ti mangio” – Le porte del carcere si sono spalancate pure per il cognato del boss, Rocco Cassone, Santo Gambello, Antonio Galante, Caterina Cinzia Candido, Francesco Marcellino, Fabio Morabito, Domenico Foti e Domenico Pratesi. In manette sono finite anche le nuove leve dei “Ti Mangiu”: i due omonimi Paolo Labate, di 38 e 36 anni, cugini e figli rispettivamente di Pietro e Nino Labate. Nei confronti di quest’ultimo, che si trova ricoverato in una struttura sanitaria, il gip ha disposto gli arresti domiciliari, così come per Santo Antonio Minuto detto “U Ceduzzu”. Ritenuto vicino alla cosca, Minuto gestisce una pescheria ed è accusato di essersi rivolto a Fabio Morabito e a Nino Labate per impedire a due fratelli di aprire un’altra pescheria nelle vicinanze. L’inchiesta Secondo il gip Pasquale Laganà, gli imprenditori che hanno denunciato il boss, “dopo anni di omertoso silenzio, hanno finalmente deciso di rialzare la testa e di ribellarsi all’imposizione mafiosa”. Durante la conferenza stampa, il procuratore Bombardieri non ha dubbi: “Gli imprenditori hanno dimostrato di voler fare questo salto di qualità e denunciare le cosche. Devono sapere che noi ci siamo e lo Stato c’è”. Nelle carte dell’inchiesta si riassume il percorso che ha portano molti di loro a ribellarsi al pizzo.
L’estorsione: “Sei uno scostumato” – È il 25 ottobre 2019 quando ai pm Musolino e Ignazitto l’imprenditore Francesco Presto racconta, con le lacrime agli occhi, la visita ricevuta dal boss Pietro Labate e dal suo uomo di fiducia, Orazio Assuma. “Sei uno scostumato” si è sentito dire dal boss e dal suo luogotenente che un giorno si erano presentati al cantiere dove la sua azienda edile stava costruendo un complesso immobiliare nel quartiere Gebbione, considerato il feudo dei “Ti mangiu”, come sono soprannominati i Labate. “Mi hanno rimproverato, mi hanno preso a male parole – ha spiegato Presto – mi hanno detto che sono andato a casa loro, che prima che andavo là gli dovevo chiedere il permesso, che sono scostumato, avete capito che mi hanno detto? Perché uno gli deve chiedere pure il permesso per lavorare, avete capito? Siamo in queste condizioni, avete capito? Che gli dovevo chiedere il permesso…che il lavoro era loro, che dovevano farlo loro, che loro si erano accaparrati il lavoro da prima… gli ho detto io ‘Ma scusate io vi sto offrendo il lavoro?’ dice ‘No tu stai zitto! Sei uno scostumato!… dice che gli dovevo dare 200mila euro ‘se fate il lavoro e se non lo fate’”.
L’imprenditore ai pm: “Vi affido la mia famiglia” – Prima di raccontare ai pm le angherie subite, l’imprenditore fa qualche resistenza. Ha paura di essere ucciso, teme per i suoi parenti, piange e lo dice senza mezzi termini. Le sue parole sono la “dimostrazione plastica” del terrore che i Labate provocano nella zona sud di Reggio Calabria: “Dottore ma se io le dico che avevo problemi, io domani sono morto! Se vi dico che mi ammazzano dottore! Questi qua sono pazzi dottore, non hanno niente da perdere… vedete che non torniamo più a casa! Se vi dico che non torniamo più, non torniamo! Sentite che vi dico…omicidio”. La Procura insiste e Presto, prima di parlare, si rivolge ai magistrati con una richiesta: “Vi affido la mia famiglia”. Per i pm, Francesco Presto è “letteralmente terrorizzato al solo pensiero di dover pronunciare” il nome del boss. Il pm Musolino lo convince a fidarsi: “Non vi preoccupate, state tranquillo, ditemi tutto quello che dovete dire, la libertà vera vi viene da questa cosa qua e vi garantisco che lo potete fare. Non vi preoccupate, ce le sappiano gestire, vogliamo che restate a Reggio e che lavorate a Reggio Calabria”.
“Non ho dormito per mesi” – Solo dopo essere stato tranquillizzato dal sostituto della Dda, l’imprenditore capisce che è arrivato il momento di alzare la testa e spiega ai pm cosa è successo nel suo cantiere quando sono iniziati i lavori per il complesso residenziale. Un giorno all’improvviso da un garage è spuntato il boss Pietro Labate. “Forse era pure latitante, non ricordo, ho avuto paura… sono rimasto. – racconta l’imprenditore costretto a pagare il pizzo – Dottore io non ho dormito per mesi, non è una cosa che uno può accettare però non avevo altre cose da fare, il cantiere era iniziato… Ma come si torna indietro? Come si torna indietro? Che devo fare? E ho dovuto pagarli, dargli i soldi… veniva il signor Assumma a prenderseli… sempre lui, anzi il signor Labate mi ha detto che glieli dovevo dare solo a lui”.
“Così funziona il pizzo a Reggio Calabria” – Le minacce sono sempre le stesse, e vengono registrate dalle cimici della squadra mobile di Reggio Calabria, diretta da Francesco Rattà: “Tu come fai, come ti permetti”. “Qua mi devi dare conto… qua non ne fai né tu e neanche il padre eterno”. Le carte dell’inchiesta raccontano come il clan controllasse un pezzo di città: per muovere un mattone, aprire un negozio o semplicemente respirare, nel quartiere Gebbione serviva quello che i pm definiscono il “nulla osta” dei Labate. I “Ti mangiu” lo hanno preteso anche dall’imprenditore Francesco Berna, coinvolto l’estate scorsa nell’operazione Libro nero contro la cosca Libri. Ai pm, Berna ha raccontato come “Vecchia Romagna”, il soprannome di Domenico Foti, ha costretto lui e il suo socio, l’imprenditore Francesco Siclari, “a pagare a titolo di “pizzo” la somma di 20mila euro” per i lavori di un complesso immobiliare ricadente nella zona di influenza dei Labate. “L’impresa – fa mettere Berna a verbale – viene taglieggiata nel momento in cui viene ad iniziare un cantiere… cioè questa purtroppo nella nostra città è una prassi scontata, cioè non esiste, può esistere il piccolo lavoretto che non… va sotto… che passa sotto traccia, nel senso che nessuno si avvicina… ma se si tratta di cantieri dove ci sono fabbricati da realizzare o lavori pubblici da fare, difficilmente in pratica uno riesce a scappare al tentativo di estorsione, all’estorsione vera e propria… La maggior parte delle imprese devono subire oppure rischiare in pratica ritorsioni oppure rischiare la vita. Dipende dai rapporti che ci sono con i soggetti… chi è il soggetto che ti viene davanti, no? E si presenta”.
“La mattina ho paura a uscire di casa” – Convocato in Procura, l’imprenditore Francesco Siclari dice di non aver mai ricevuto richieste di denaro da parte dei Labate. Come Presto, anche lui ha paura e, in un primo momento, nega quanto dichiarato dal suo socio Francesco Berna. Poi però si fa coraggio e, ai due pm che lo interrogano, racconta come sono andate le cose: “Un giorno dice Francesco (Berna, ndr) ‘sai qua sicuramente saremo costretti a pagare un caffè’”. Il realtà, il “caffè” era il pizzo preteso dai Labate. Come ha spiegato il responsabile della sezione Reati contro il patrimonio della squadra mobile Giuseppe Izzo, i “Ti Mangiu erano in grado di costringere chiunque a consegnare loro il denaro”. “Abbiamo dato 20mila euro… io ho un nodo qua dottore. La pretesa era più alta…era 30mila euro… Dal 31 luglio ad oggi, tremo… io la mattina ho paura di uscire di casa. Prima che esco mi affaccio dal balcone, guardo la macchina, mi sveglio di notte e tutta una serie di cose perché ho pensato ‘ora questi da chi vengono?’ Da me. Ve lo dico sinceramente dottore, con il cuore in mano… sono due mesi che non dormo”.

martedì 2 ottobre 2018

Trentuno nomi, solo nove denunce La città che si piega al pizzo. - Riccardo Lo Verso

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Uomini del racket in azione


PALERMO - Trentuno commercianti vessati dal racket. Solo in nove hanno confermato di avere subito le richieste estorsive. Appena tre quelli la cui denuncia è arrivata prima degli arresti. Il resto dei negozianti ha negato anche di fronte all'evidenza delle intercettazioni.

I carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Palermo, su input della Direzione distrettuale antimafia, hanno completato il giro di convocazioni di coloro che emergevano dalle indagini sui mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. Il blitz è quello dello scorso dicembre che ha portato all'arresto di venticinque persone. L'elenco si apriva con Mariangela Di Trapani, moglie del boss Salvino Madonia, che avrebbe preso in mano il bastone del comando. Qualche mese dopo toccò a Giuseppe Biondino, considerato il capomafia di San Lorenzo, finire in carcere.

Il silenzio continua ad essere la reazione principale dei negozianti e si sta valutando se incriminarli per favoreggiamento. Dal piccolo costruttore al titolare di un'agenzia di pompe funebri, dal proprietario di un noto ristorante a quello di una pasticceria altrettanto famosa: tutti negano di avere ricevuto la visita degli uomini del racket. Eppure quelle visite sono rimaste impresse nelle voci intercettate dei boss e dei picciotti che per fare il lavoro sporco si spostavano nelle vie del centro. Bussavano alle porte di pub, macellerie, osterie, pizzerie, pub, negozio di scarpe e supermercati.

“Ti devo dire una parola”, la visita degli esattori cominciava quasi sempre con queste parole e proseguiva con il consiglio di “farsi una strada”. E cioè di mettersi a posto con l'amico di turno. Perché quando c'è da pagare il pizzo spunta sempre un amico che sa a chi ci si deve rivolgere. Seguono le intimidazioni: dalla colla attak alle bottiglie incendiarie. Il repertorio è ormai classico.

A leggere gli atti giudiziari chi non ha pagato il pizzo – da poche centinaia di euro a qualche migliaio per le imprese più grandi – è riuscito a farla franca solo perché chi era andato a chiedere i soldi è stato arrestato. Il ricambio degli uomini del racket avviene puntualmente. Nel frattempo alcuni commercianti, disorientati per la momentanea mancanza di un punto di riferimento nella propria zona, si guardano attorno per capire a chi rivolgersi.

E così solo in tre casi su trentuno imprenditori e commercianti hanno deciso di denunciare ancor prima che avvenissero gli arresti. Sono un imprenditore edile di Borgetto e i titolari di due pub a Palermo. Troppo pochi per parlare di ribellione in una città ancora piegata al racket.


https://livesicilia.it/2018/10/02/pizzo-denunce-palermo-mafia_1000382/

martedì 3 marzo 2015

Tangenti, arrestato presidente Camera di commercio di Palermo: intascava una mazzetta.


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Roberto Helg stava prendendo 100 mila euro da un ristoratore.

Roberto Helg, presidente della Camera di commercio e vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Palermo, è stato arrestato ieri mentre intascava una tangente di 100 mila euro da un ristoratore, affittuario di uno spazio dell'aeroporto, che si era rivolto a lui per la proroga del contratto. 
Il ristoratore si era rivolto a Helg per ottenere condizioni favorevoli sulla proroga triennale del contratto d'affitto. La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. L'accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro.
Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l'assegno; sulla sua scrivania c'era anche una busta con 30 mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini.