venerdì 2 aprile 2021

In Sardegna aumentano i ricoveri. Non si ferma l'ondata di contagi.

 

A Nuoro scatta l'allarme per 188 nuovi contagiati. I pazienti di Cagliari hanno tra i 30 e i 60 anni.

Non un disastro come quello dell'altro ieri (con 444 nuovi contagiati), ma sempre troppi casi di coronavirus nell'Isola: l'ultimo conteggio riporta una novantina di casi in meno, 351, secondo il report dell'Unità di crisi regionale, con quattro nuovi decessi (il totale da inizio pandemia è di 1.238) e un tasso di positività del 4,8%.

Ad essere sorvegliati speciali sono i dati sui ricoveri: negli ospedali sardi, 236 letti di terapia non intensiva sono occupati da pazienti Covid, quindi 14 in più rispetto a mercoledì, mentre restano 34 quelli in terapia intensiva. Si aggiungono gli oltre quattordicimila in isolamento a casa.

Mentre a Nuoro scatta l'allarme per 188 nuovi contagiati, a Uri si proroga la zona rossa fino al 12 aprile: "Con 129 contagiati e 169 in quarantena, non c'era scelta", spiega il sindaco Lucia Cirroni. I Comuni dell'Isola in zona rossa sono Bultei, Soleminis, Burcei, Villa San Pietro, Donori, Samugheo, Sindia, Gavoi, Golfo Aranci, Bono, Uri e Pozzomaggiore. Non lo è più Sarroch, lo diventa Pula (fino al 16 aprile).

L'impennata dei contagi, collegata alla maggiore infettività delle varianti, al momento, preoccupa per l'economia ma non per i posti letto nei reparti Covid.

Sergio Marracini, a capo di un gruppo di ospedali di cui fanno parte quelli Covid di Cagliari: Santissima Trinità, Marino e Binaghi, spiega: "Non sono preoccupato: abbiamo svuotato il Marino, dove c'erano nove persone contagiate dal coronavirus, per liberare personale che ora sta inoculando i vaccini, al Binaghi abbiamo trenta pazienti Covid su cento posti letto disponibili, al Santissima Trinità 115 su una capacità di 200. Siamo lontani dall'emergenza".

Una settimana fa, nell'Isola i contagi quotidiani erano ben sotto i duecento, ora siamo a 270 al giorno dopo averne contati 344. Siamo nel pieno della terza ondata e c'è un dato che salta all'occhio: "I pazienti Covid di Cagliari", analizza Marracini, "hanno un'età fra i trenta e i sessant'anni. Sono spariti i grandi anziani, e sapete perché? Li stanno vaccinando, quindi diventano immuni. Ecco perché non temo che il sistema ospedaliero rischi il collasso: stiamo costantemente sottraendo ospiti al virus".

L'UnioneSarda.it

“Basta debolezze con gli evasori!” 15 anni di balle politiche e condoni. - Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti

 

In libreria - Esce oggi “Parassiti - Ladri e complici: così gli italiani evadono (da sempre) il fisco”.

Esce oggi in libreria Parassiti – Ladri e complici: così gli italiani evadono (da sempre) il fisco”, il libro di Primo Di Nicola, Antonio Pitoni e Ilaria Proietti edito da Paper First.

Promettono, promettono ma sono tutti uguali. Dalle cariatidi della Prima Repubblica agli ultimi salvatori della Patria. Ugualmente compiacenti con gli evasori fiscali. Da Luigi Preti a Mario Draghi. “Basterà spingere un bottone e avremo i nomi degli evasori”, aveva giurato, agli inizi degli anni Settanta, l’allora ministro socialdemocratico delle Finanze, Preti, lanciando l’avveniristico Progetto Athena, il rivoluzionario embrione dell’anagrafe tributaria, rivelatasi poi un fiasco completo. La stessa guerra totale dichiarata, mezzo secolo dopo, dall’attuale presidente del Consiglio Draghi il 17 febbraio 2021 al Senato, promettendo “un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale”. Impegno smentito appena un mese dopo con l’ennesimo condono a favore dei furboni del fisco. E questa volta senza neanche nasconderlo: “Sì, è un condono…”, ha ammesso l’ex capo della Bce.

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere di fronte ai numeri della grande vergogna: 107,2 miliardi di euro di evasione – 95,9 di mancate entrate tributarie e 11,3 di mancate entrate contributive – stando all’ultima relazione della Commissione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Tutto in perfetta linea con le dichiarazioni e proclami di capi di governo, ministri e presunti leader che si sono spesi in promesse roboanti salvo poi calare le braghe di fronte ai milioni di evasori i cui voti, evidentemente, fanno gola a tutti. Ecco qualche esempio delle tante balle rintracciabili negli annali parlamentari e sui giornali solo degli ultimi quindici anni.

Stabilità vo’ cercando: “Dobbiamo proporre una politica fiscale stabile, accompagnata da un rafforzamento della lotta all’evasione…”. Francesco Rutelli, 16 maggio 2005, vicepresidente del Consiglio dal 2006 al 2008.

Più o meno: “Venendo meno le una tantum e la stagione dei condoni, l’attenzione si sposterà alla lotta all’evasione…”. Domenico Siniscalco, ministro dell’Economia, 20 maggio 2005.

La Lega vede nero: “Abbiamo un ampio margine se ci impegniamo nella lotta all’evasione fiscale…”. Roberto Maroni, ministro del Lavoro, 26 maggio 2005.

Regole prima di tutto: “Rispettare le regole e fare una vera lotta all’evasione fiscale…”. Vincenzo Visco, 2 giugno 2005, pluriministro delle Finanze.

Feroci, miei Prodi: “Lotta feroce all’evasione e far emergere il sommerso”. Romano Prodi, 5 luglio 2005, due volte presidente del Consiglio.

Quel fenomeno del Cav: “L’evasione fiscale sarà una priorità per il governo”. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, 15 luglio 2005.

Chez Giulio: “L’evasione è mal contrastata. Si combatte abbassando le aliquote”. Giulio Tremonti, pluriministro dell’Economia, 8 novembre 2006.

Re Giorgio va alla guerra: “Basta debolezze nella lotta all’evasione”. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, 22 agosto 2011.

Mari e Monti: “Io penso che l’Italia si trova in difficoltà soprattutto a causa dell’evasione fiscale: siamo in uno stato di guerra…”. Mario Monti, presidente del Consiglio, 18 agosto 2012.

All’ultimo respiro: “La lotta senza quartiere all’evasione proseguirà e lo faremo con interventi di più lungo respiro”. Enrico Letta, presidente del Consiglio, 11 luglio 2013.

L’evasione secondo Matteo: “Meno si parla, più si agisce e più siamo seri”. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, 7 giugno 2014.

Meloni, presente!: “Se volete veramente combattere l’evasione, be’, allora andate a farlo dove sta davvero”. Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia 20 ottobre 2019.

La resa di Conte: “La politica non ha il coraggio di affrontare di petto la questione dell’evasione”. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, 16 ottobre 2019.

IlFattoQuotidiano

Consulta. Sì ai domiciliari per gli over 70 anche se recidivi. - Antonella Mascali

 

I detenuti ultrasettantenni potranno ottenere gli arresti domiciliari anche se condannati con l’aggravante della recidiva. La Corte costituzionale, relatore Francesco Viganò, ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario, che prevede per loro il divieto assoluto. La magistratura di sorveglianza dovrà valutare caso per caso se il condannato recidivo “sia in concreto meritevole di accedere” ai domiciliari, “tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale”. La misura, spiega la Corte, “si fonda su una duplice presunzione. Da un lato, il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, secondo, le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli”. Inoltre, aggiunge la Corte, la norma è stata ritenuta irragionevole “anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena” e in modo conforme “alla costante giurisprudenza che considera contrarie” alla Costituzione (3 e 27) “le preclusioni assolute”. Questa sentenza non riguarda i detenuti anziani mafiosi o terroristi. La Corte, però, ribadendo il suo no alle preclusioni automatiche per benefici o misure alternative potrebbe applicare lo stesso concetto quando, dopo Pasqua, deciderà in merito al divieto attuale per mafiosi ergastolani di accedere alla libertà condizionale se non hanno collaborato.

IlFattoQuotidiano

A Salvini salta l’audio proprio quando ci sono i ristoratori arrabbiati a Dritto e Rovescio | VIDEO

 

 E' una sagoma!

Covid: verso Pasqua 'rossa', Viminale intensifica controlli.

 

Folla al centro di Roma nell'ultimo sabato prima del passaggio in zona rossa, 13 marzo 2021

Oggi il nuovo monitoraggio, Veneto e Campania sperano nell'arancione.


Da domani tutte le regioni italiane torneranno in zona rossa per tre giorni. L'ennesimo lockdown per cercare di limitare spostamenti e assembramenti durante le festività pasquali.

Per questo il Viminale, durante il Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza, ha chiesto ai prefetti di intensificare i controlli. In particolare le forze dell'ordine, che saranno in campo con 70 mila unità, dovranno presidiare le aree urbane più esposte al rischio di assembramenti, parchi, litorali, arterie stradali e autostradali, stazioni, porti e aeroporti. Un monitoraggio "rigoroso" ma equilibrato - come l'ha definito il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese - per verificare il rispetto delle norme anti-covid che da sabato a lunedì vietano gli spostamenti anche nel proprio comune, se non per andare a trovare parenti o amici in massimo di due persone, con minori di 14 anni conviventi.

Intanto cresce l'attesa per il consueto monitoraggio del venerdì. Oggi i nuovi dati del ministero della Salute su curva pandemica e Rt stabiliranno i nuovi colori delle regioni che, comunque, non potranno più tornare in giallo almeno fino a maggio, così come previsto dal nuovo decreto che entrerà in vigore il 7 aprile. Chi è a un passo dalla "promozione" dal rosso all'arancione è la Campania, mentre il Veneto, che oggi ha sospeso le vaccinazioni per mancanza di dosi, ci spera. La provincia di Bolzano, invece, torna rosso scuro sulla mappa aggiornata del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, raggiungendo Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Campania e provincia di Trento.

Si' a deroghe per riaperture locali ma Italia senza regioni gialle fino al 30 aprile.

"Noi auspichiamo un passaggio di colore", ha ammesso il governatore Luca Zaia. Si va invece verso la riconferma dei colori per tutte le altre regioni, anche se la Basilicata, alle prese con diversi focolai e un Rt che di nuovo in crescita, rischia di finire in rosso. Si aggrava la pandemia in Liguria, con il presidente Giovanni Toti che ha disposto la zona rossa nel Ponente ligure, nelle province di Savona e di Imperia, da domani fino a domenica 11 aprile compresa. Il Piemonte, che per la prima volta dopo cinque settimane registra un lieve calo dei contagi, non solo chiude i supermercati a Pasqua e Pasquetta ma impone anche il divieto di raggiungere le seconde case per i proprietari che vivono in un'altra regione. "Siamo in una fase importante di lotta all'epidemia - ha ribadito il ministro della Salute, Roberto Speranza -. Ma chi racconta che stiamo come un anno fa dice una cosa clamorosamente non vera".

Sul fronte scuola, invece, dal 7 aprile prenderà il via il "nuovo corso" voluto dal governo Draghi. Vietate le ordinanze regionali e ritorno alle lezioni in presenza fino alla prima media in zona rossa e fino alla terza media in arancione, con le superiori in classe al 50%. Torneranno sui banchi 5,3 milioni di studenti, su poco più degli 8 milioni in totale. Contrario alle riaperture il direttore di malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, secondo il quale "è profondamente sbagliato" mandare a scuola bambini non vaccinati.

ANSA

Nel Recovery le armi tinte di “verde”. Dove finisce una parte dei fondi Ue. - Salvatore Cannavò

 

Il Parlamento ha votato la risoluzione al Pnrr del governo Conte chiedendo più fondi all’industria della Difesa.

Il Recovery Plan (Piano nazionale di ricostruzione e resilienza) di cui si erano perse le tracce, ha dato un colpo di vita ieri e l’altroieri con il voto del Parlamento sulle relazioni di indirizzo al governo. Voto a stragrande maggioranza (anche Fratelli d’Italia si è astenuta) come il governo Draghi esige. E voto che permette di fare il punto sulla situazione, ma anche di prendere la misura della disinvoltura delle indicazioni delle Camere.

Nei testi voluminosi approvati nei giorni scorsi, infatti, si possono trovare l’una accanto all’altra, frasi come questa: “Il Piano ricevuto dal Parlamento purtroppo non prevede nulla per la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, né per la riparazione dei danni ambientali che si sono susseguiti nel tempo su tutto il territorio nazionale. È quindi indispensabile fare in modo che la ‘Missione Rivoluzione verde e transizione ecologica’ contenga in modo chiaro e organico il tema della biodiversità, degli ecosistemi e dei loro servizi, e del paesaggio”. Impegno di chiara matrice ecologista al di là di cosa voglia dire concretamente.

Arrivano le armi. Poco dopo si legge però anche che occorre “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.

Al di là del linguaggio involuto (di quelli che fanno inorridire il professor Cassese), il testo è molto chiaro e, come ha notato la Rete Disarmo, di fatto punta a destinare una parte dei fondi del Pnrr a rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare. “Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che la Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta”.

Questa attenzione al settore militare finora era rimasta sottotraccia, anche perché difficilmente compatibile con i vincoli e le indicazioni che il Next Generation Eu ha previsto (Digitale, Transizione ecologica, Coesione sociale). Ma nelle discussioni delle commissioni parlamentari, da cui quel testo proviene, la fantasia non manca e a qualcuno è sembrato naturale poter inserire il potenziamento del sistema militare all’interno della direttrice ecologica. Senza però trascurare quella digitale. E infatti in un altro passaggio “malandrino” della risoluzione della Camera si trova “l’esigenza di valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica”. Al Senato si scrive, invece, che si “ritiene opportuno valorizzare il contributo della Difesa al rafforzamento della difesa cibernetica, sostenendo i programmi volti a rafforzare questo settore dello strumento militare, anche nell’ambito dei progetti in corso di svolgimento a livello dell’Unione europea”.

È il piano Conte.L’aspetto buffo della vicenda, comunque, è che il Parlamento ha discusso e votato sul vecchio progetto presentato dal governo Conte e, come ha fatto notare la sola Fratelli d’Italia, non ha potuto mai essere aggiornato su quanto sta facendo il governo Draghi. Se il Pnrr, per la gran parte della stampa italiana, era in ritardo già prima di essere ideato, oggi che alla scadenza mancano 29 giorni, nessuno se ne preoccupa più.

Sia il Senato che la Camera hanno iscritto nelle loro raccomandazioni, l’esigenza di una puntuale informazione anche con un successivo passaggio parlamentare prima della presentazione del Piano oppure tramite una relazione periodica. “Dovrebbero essere fornite maggiori informazioni in merito al modello di governance del Piano”, si legge nel documento del Senato. Entrambe le Camere, poi, hanno ribadito che occorrerà una “piattaforma digitale” per verificare l’andamento del Piano riaffermando per l’ennesima volta la necessità di semplificare le norme per l’attuazione dei progetti e di avviare le solite riforme strutturali (giustizia, Pubblica amministrazione, mercato del lavoro) che l’Unione europea richiede.

Le promesse di Franco. Tutti i gruppi si sono poi, in sede di dichiarazione di voto, detti soddisfatti delle spiegazioni proposte dal ministro dell’Economia Daniele Franco che, in verità, non è andato oltre il generico. “Ogni euro che verrà impegnato, ogni euro che verrà speso dovrà essere rendicontato”, ha garantito Franco, anche perché “i contributi a fondo perduto impongono un onere per il bilancio europeo a cui il nostro Paese è poi tenuto a contribuire”. Il ministro si è sperticato in elogi per il lavoro parlamentare assicurando che ogni indicazione verrà presa in considerazione (anche quella sulle armi?) dando poi qualche informazione su quanto si sta elaborando presso il proprio dicastero, unico centro di comando nella gestione del Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Franco ha ricordato che al momento la dotazione del Piano è di 191,5 miliardi di euro di cui circa “il 60 per cento dovrà essere destinato a obiettivi di modernizzazione digitale del Paese e di transizione ecologica, e che devono essere indirizzati soprattutto a giovani e imprese. Mi riferisco, qui, alle imprese di tutti i settori: innanzitutto, il settore manifatturiero; i servizi, tra i quali, ovviamente, è fondamentale il turismo; l’agricoltura, che è stata spesso ricordata questa mattina”.

La centralità è al sistema produttivo, dunque, nella solita convinzione che basti finanziare, a fondo perduto, l’offerta perché ci sia sviluppo, crescita e benessere. Fuori da questa priorità ci sarà il sostegno all’occupazione (non precisata, in genere si tratta di incentivi alle imprese), finanziamenti all’imprenditorialità femminile, per rafforzare la parità di genere, con misure che dovrebbero garantire “una parità sostanziale nei diversi ambiti, non solo lavorativo, ma anche sociale e culturale”. Alla fine, però, stringendo un po’, l’unico termine che viene fuori sono gli asili nido.

Per ridurre gli squilibri territoriali, Franco annuncia che “le risorse destinate alle aree territoriali del Mezzogiorno supereranno significativamente la quota del 34 per cento”. Qui parliamo di Alta velocità, scuola, sanità e agricoltura. Infine, alcune informazioni sulla governance: “Vi anticipo – ha detto il ministro – che la proposta finale di Piano conterrà la descrizione di un modello organizzativo basato su una struttura di coordinamento centrale, collegata a specifici presidi settoriali preso tutte le amministrazioni coinvolte, unitamente a strumenti e strutture di valutazione, sorveglianza e attuazione degli interventi”.

È poi previsto un pacchetto di “norme di semplificazione procedurale che agevoli la concreta messa in opera degli interventi, anche nel caso di interventi la cui realizzazione sarà responsabilità degli enti territoriali”, quindi con una serie di deroghe, immaginiamo, che erano state fortemente contestate al precedente governo. Sarà poi prevista “una piattaforma digitale pubblica centralizzata, con i dati relativi all’attuazione dei progetti del piano”.

IlFattoQuotidiano

Da Pomezia con furore. - Marco Travaglio

 

La spy story all’amatriciana del capitano di fregata Walter Biot da Pomezia, la spia che venne dall’Agro Romano arrestata a Spinaceto mentre vendeva terribili segreti Nato a due russi in cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe per pagarsi il mutuo e le medicine, un merito l’ha avuto: restituirci i nostri Le Carré preferiti, al secolo Paolo Guzzanti fu Mitrokhin (Giornale), Claudia Fusani fu Pompa (Riformatorio) e Jacopo Iacoboni (Stampa). Tutti e tre sgomenti per una notizia inaspettata: in Italia ci sono spie russe. Ora manca solo che scoprano quelle nel resto del pianeta. Noi non vorremmo sconvolgerli con troppe sorprese tutte insieme, peraltro reperibili al cinema, in edicola, sul web e in libreria, ma si sospetta che s’aggirino per il mondo anche spie americane, inglesi, tedesche, francesi, cinesi, financo italiane. E da sempre. I nostri eroi invece parlano della spia che venne da Pomezia come di un caso unico nella storia. Il commissario Iacoboni lo spiega così: “Lo spionaggio russo in Italia si è intensificato nel 2018 col governo Lega-M5S e ha avuto un punto di svolta ulteriore nei controversi marzo e aprile 2020” con “la missione degli ‘aiuti russi’ per il Covid” . Chissà cosa spiavano quei 32 medici russi mentre fingevano di aiutare l’ospedale da campo a Bergamo, oltre alle scollature delle infermiere. Feltri jr. non ha dubbi: “militari che scorrazzavano in Italia, convocati dal nostro governo con Di Maio a fare da dama di compagnia”.

Sì, è vero, gli stessi Le Carré de noantri accusavano Conte di aver venduto l’Italia a Trump, cioè agli Usa. Sì, è vero, negli anni 60 e 70 la Fiat (editore della Stampa) trescava con l’Urss e negli anni 80 fu scoperto un italiaco spione dei sovietici all’Olivetti di De Benedetti (editore di Rep). Sì, è vero, B. (padrone del Giornale) è pappa e ciccia con Putin. Sì, è vero – lo scrive il commissario Iacoboni – negli ultimi mesi sono state beccate spie russe in Bulgaria, in Francia e in Olanda, dove non risultano governi grillini. Ma il problema per Feltri jr. sono “Beppe e Luigino divisi a Berlino”, anzi al Cremlino. Il loro “governo populista ha reso l’Italia anello debole della Nato” (Rep). Infatti ora – denuncia Iacoboni – c’è un’“offensiva di influenza russa sul vaccino Sputnik”, che in ogni fiala nasconde una microspia per tenerci d’occhio. Fortuna che con l’“atlantista” Draghi non passerà. Ma solo qui. La stessa Stampa annuncia: “Parigi e Berlino, vertice con Putin: ‘Pronti a collaborare su Sputnik’”. Hai capito Giuseppi e Giggino? Han subornato pure Macron e Merkel. Intanto Stampubblica, capofila dell’atlantismo nostrano, s’è battuta come una leonessa per riportare al governo B. e Salvini, i migliori amici di Putin. In cambio di 5mila euro in una scatola da scarpe? No, gratis. Furba, lei.

IlFattoQuotidiano