sabato 18 ottobre 2025

Cancro, terapie innovative.

 

Gli scienziati della Johns Hopkins University hanno creato un innovativo interruttore proteico capace di rivoltare le cellule cancerose contro se stesse.

Questa tecnologia rivoluzionaria induce le cellule tumorali a produrre internamente farmaci anticancro e a innescare la propria autodistruzione, senza danneggiare le cellule sane.

Il metodo funziona introducendo nel corpo un profarmaco, ossia una forma inattiva di chemioterapia. L’interruttore proteico è progettato specificamente per riconoscere i marcatori unici presenti solo nelle cellule tumorali.

Una volta all’interno, l’interruttore attiva il profarmaco, trasformando le cellule cancerose in vere e proprie fabbriche di farmaci autodistruttivi.

Questa precisione nel bersaglio riduce in modo significativo gli effetti collaterali dannosi tipici della chemioterapia tradizionale, poiché le cellule sane restano illese.

I test di laboratorio hanno già mostrato risultati promettenti su cellule di tumore al colon e al seno, e i ricercatori intendono ora passare alle prove sugli animali.

Con un ulteriore sviluppo, questa tecnica potrebbe rivoluzionare il trattamento del cancro, rendendo le terapie più mirate, personalizzate e molto meno tossiche.

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Bologna, al Rizzoli i medici “congelano” i tumori: sei pazienti curati con una tecnica innovativa.

 

All’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna è stata sperimentata con successo una tecnica innovativa capace di “congelare” i tumori. Sei pazienti, affetti da una forma rara di tumore chiamata fibromatosi desmoide, sono stati trattati con la crioterapia, un procedimento che utilizza il freddo estremo per distruggere le cellule malate.
Si tratta di un risultato che rappresenta un passo importante nella medicina italiana, perché dimostra come tecniche meno invasive e più mirate possano offrire nuove speranze anche in casi complessi o recidivanti.

Un tumore raro ma insidioso.

La fibromatosi desmoide non è un tumore maligno nel senso classico del termine: non produce metastasi e non si diffonde in altri organi, ma può comportarsi in modo molto aggressivo. Si sviluppa nei tessuti connettivi, nei muscoli o vicino ai tendini, crescendo lentamente ma in maniera invasiva, tanto da comprimere nervi, organi e strutture vitali.
Spesso chi ne è colpito convive per anni con dolore cronico o limitazioni funzionali, perché la massa, pur non essendo cancerosa, può risultare difficile da rimuovere completamente senza danneggiare le aree circostanti.

La chirurgia tradizionale, in questi casi, non sempre è risolutiva. Anche dopo un intervento perfettamente eseguito, il rischio di recidiva rimane alto. Per questo motivo i medici del Rizzoli hanno deciso di sperimentare un approccio diverso, capace di colpire solo il tessuto malato senza compromettere quello sano.

Come funziona la crioterapia.

La crioterapia, detta anche crioablazione, si basa su un principio semplice: il freddo può uccidere le cellule.
Durante il trattamento, i medici inseriscono delle sottili sonde metalliche – chiamate ago-sonde – direttamente all’interno del tumore, sotto la guida di tecniche radiologiche di precisione. Attraverso queste sonde viene fatto passare un gas ad altissima pressione, che provoca un rapido abbassamento della temperatura fino a raggiungere circa -80 gradi Celsius.

In pochi minuti si forma attorno al tumore una sorta di “bolla di ghiaccio” che congela i tessuti malati. Questo shock termico rompe le membrane cellulari, danneggia i vasi sanguigni che alimentano la massa e porta le cellule tumorali alla morte.
Nei giorni e nelle settimane successive, il corpo umano assorbe gradualmente il tessuto necrotico, riducendo la massa e alleviando i sintomi.

Il grande vantaggio della crioterapia è che consente di preservare i tessuti sani, riducendo il rischio di complicazioni e rendendo spesso inutile un intervento chirurgico invasivo. Inoltre, il paziente può tornare alle proprie attività in pochi giorni, con un tempo di recupero minimo e senza le cicatrici o i disagi tipici della chirurgia tradizionale.

I sei pazienti trattati.

Al Rizzoli, la procedura è stata applicata su sei persone di età e condizioni diverse, tutte affette da fibromatosi desmoide* in aree difficilmente operabili.
In alcuni casi, i pazienti avevano già subito interventi chirurgici o trattamenti farmacologici senza risultati soddisfacenti. La crioterapia è stata quindi una sorta di ultima risorsa, ma con esiti sorprendenti.

Già dopo i primi mesi di follow-up, i medici hanno osservato una significativa riduzione del volume dei tumori e, soprattutto, un miglioramento del dolore e della qualità della vita. In uno dei casi più emblematici, un paziente che da anni viveva con dolori persistenti è tornato a condurre una vita normale dopo una sola seduta.
Nessuno dei sei pazienti ha riportato complicazioni gravi, e nei controlli successivi non si sono registrate nuove crescite della massa.

Un passo avanti per la medicina mininvasiva.

Il successo di questi trattamenti rappresenta un importante segnale per la medicina moderna.
Negli ultimi anni, la tendenza è quella di ridurre sempre più la traumaticità delle cure, cercando di sostituire gli interventi chirurgici con tecniche percutanee, cioè eseguite attraverso la pelle, con aghi o microsonde.

La crioterapia è già impiegata in altri ambiti della medicina, ad esempio nella cura di alcune forme di tumore al rene, al fegato o alla prostata, ma la sua applicazione sui tessuti muscolo-scheletrici è ancora relativamente recente.
Il lavoro svolto a Bologna apre, quindi, la strada a nuove possibilità terapeutiche anche per tumori benigni ma difficili da gestire, o per recidive localizzate dove la chirurgia risulterebbe troppo rischiosa.

Un futuro promettente.

I medici del Rizzoli, incoraggiati dai risultati, stanno ora ampliando il campo di studio per capire se la crioterapia possa essere applicata anche ad altri tipi di lesioni.
Il passo successivo sarà raccogliere dati su un numero più ampio di pazienti, per verificare l’efficacia nel lungo periodo e valutare eventuali limiti o effetti collaterali non ancora osservati.

Un aspetto interessante della crioablazione è la possibilità di personalizzare il trattamento: grazie alle immagini radiologiche, i medici possono controllare in tempo reale la diffusione del freddo, assicurandosi che l’intera massa tumorale venga trattata, ma senza danneggiare organi o nervi vicini. Questo livello di precisione, impensabile solo pochi anni fa, è frutto di un’evoluzione tecnologica continua.

Una nuova speranza per i pazienti

Il caso dei sei pazienti di Bologna è un esempio concreto di come la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica possano migliorare la qualità della vita anche in situazioni che sembravano senza soluzione.
Non si tratta di una cura universale per tutti i tipi di tumore, ma di una nuova arma a disposizione dei medici, da affiancare alle terapie tradizionali.

L’obiettivo finale è chiaro: offrire trattamenti sempre più efficaci, meno dolorosi e con minori conseguenze per chi già combatte una battaglia difficile.

Conclusione

La sperimentazione condotta al Rizzoli dimostra che la crioterapia può rappresentare una rivoluzione silenziosa nella cura dei tumori benigni ma aggressivi.
“Congelare” un tumore non è più un’immagine simbolica, ma una realtà clinica che sta dando risultati tangibili.

Mentre la scienza continua a perfezionare queste tecniche, l’esperienza bolognese resta un orgoglio per la medicina italiana e una fonte di speranza per molti pazienti: perché a volte, anche nel gelo, può nascere la vita.

(*tumori benigni del tessuto molle, ma localmente aggressivi)

https://www.social-magazine.it/al-rizzoli-di-bologna-medici-congelano-i-tumori-la-nuova-terapia-che-elimina-le-masse-senza-bisturi-ne-chemio/

SUMMIT TRUMP-PUTIN: LA RIVINCITA DI ORBAN E LA “VARIABILE CUBANA”.

 

Interessante analisi di Gianandrea Gaiani sui motivi nascosti che potrebbero pesare sulla decisione di Trump di non fornire i missili Tomahawk a Kiev.
[…] dovremmo chiederci quanto abbia influito, non solo nella apparente decisione di Trump di frenare sulla fornitura dei Tomahawk a Kiev, ma sul contesto complessivo che ha portato i due presidenti a decidere di vedersi in un campo amichevole per entrambi (Budapest), un elemento del tutto esterno alla guerra in Ucraina e che potremmo definire la “variabile cubana”.
Anche se, come spesso accade per le notizie davvero rilevanti, i nostri media e TV non ne hanno quasi per nulla riferito, l’8 dicembre il Consiglio della Federazione Russa ha ratificato, in sessione plenaria, l’accordo intergovernativo di cooperazione militare con Cuba che fornisce piena base giuridica per definire gli obiettivi, le modalità e gli ambiti della cooperazione militare tra i due Paesi, rafforzando ulteriormente i legami bilaterali nel settore della difesa.
L’accordo era stato firmato il 13 marzo all’Avana e il 19 marzo a Mosca. In passato, esperti e funzionari russi avevano ipotizzato un possibile dispiegamento di sistemi militari russi nell’area caraibica, tra cui Cuba e il Venezuela. La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha ribadito che eventuali decisioni in tal senso rientrano nelle competenze del ministero della Difesa.
[…]
Per intenderci, è probabile che Putin abbia spiegato a Trump che in risposta ai Tomahawk in Ucraina, la Russia potrebbe schierare i missili ipersonici Kinzhal o Oreschnik a Cuba.
continua su Analisi Difesa

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Solidarietà a Ranucci.

 

Stasera è successa una cosa che, in tempi come questi, fa davvero bene al cuore.

Davanti agli studi Rai di via Teulada, a Roma, si sono radunate più di mille persone.

Senza bandiere di partito, solo con una cosa in comune: la voglia di dire a Sigfrido Ranucci che non è solo, dopo l’attentato che ha distrutto la sua auto e quella di sua figlia.

Quando Ranucci si è affacciato, la folla ha iniziato a urlare in coro: “Siamo noi la tua scorta.”

E lui, davanti a tutto questo affetto, si è commosso.

È stato un momento vero, di quelli che non si dimenticano.

Perché davanti alla violenza, c’è ancora un’Italia che risponde con umanità, con coraggio, con affetto sincero.

Sigfrido, siamo tutte e tutti con te.


Palermo, 17 ottobre 2025, la sera del giorno in cui hanno fatto saltare le auto di Ranucci e della figlia.

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venerdì 17 ottobre 2025

I MONOLITI IMPOSSIBILI.

 

Quello che vedete nella foto, è probabilmente il più grande monolito artificiale presente sulla Terra. Ha una lunghezza di circa 19,60 metri, e pesa 1.650 tonnellate. Si trova a Baalbek, in Libano, ed esiste almeno dai tempi dei Romani, se non da molto prima (si parla anche di 5.000 anni fa, ma non esistono date certe). Le dimensioni e il peso di questo “mostro” lasciano senza parola gli ingegneri del nostro tempo. E si chiedono come abbiano fatto i loro “colleghi” di migliaia di anni fa a realizzare e trasportare qualcosa di simile.

La cosa ancora più sorprendente è che quel monolite non è un caso unico in quella zona. Nelle vicinanze si trova il cosiddetto “Tempio di Giove”. La parte superiore del tempio è sicuramente romana, su questo non ci sono dubbi. Ma il tempio romano sorge su di una “base” costruita con pietre gigantesche. Si tratta di 27 blocchi giganteschi di pietra calcarea alla base. Tre di loro, dal peso di 1.000 tonnellate ciascuno, sono noti come “Thriliton”, e sono una specie di “cintura” che racchiude tutti i blocchi. Questa costruzione ci dice che per i costruttori, intagliare e spostare blocchi superiori a 1.000 tonnellate non era affatto proibitivo. Evidentemente sapevano come farlo, senza che questo creasse grossi problemi.

Le leggende di Baalbek, in modo allegorico, ci dicono che anche i popoli del lontano passato sapevano che in quella zona avvenivano cose “non comuni”. Riguardo a Baalbek ci sono molte leggende: secondo alcuni antichissimi manoscritti arabi ara appartenuta a Nimrod, leggendario re babilonese citato dalla Bibbia, che dopo il diluvio ordinò che venisse ricostruita e la ricostruzione venne affidata ai Giganti. Altri testi antichi la fanno risalire a Caino, che la fondò 133 anni dopo la creazione dell’uomo, ed anche in questo caso vengono citati i Giganti, che secondo la tradizione la popolarono. Caino edificò Baalbek per trovare scampo dalla furia di Yahewh.

È probabile che gli antichi abitanti di quella zona usarono le figure allegoriche come Caino, i Giganti, Yahweh, per descrivere cose che non riuscivano a capire. E anche noi oggi facciamo molta fatica a capire come sia possibile che semplici esseri umani usavano come “mattoni” (e non come obelischi, come facevano ad esempio i Romani), dei “mostri” di 1650 tonnellate. Perché avevano bisogno di fare una cosa simile? In che modo li spostavano con una cera facilita? Come li intagliavano con tanta precisione?

Sono in tanti a credere, ormai, che in diverse zone della Terra, tra cui il bacino del Mediterraneo, esistevano civiltà antiche, che sono state cancellate probabilmente da cambiamenti climatici. La città di Nan Madol, la Grande Piramide, Gunung Padang, probabilmente sono tra questi. E ci lasciano senza fiato. Anche i “monoliti colossali” di Baalbek appartengono a questa lista?

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

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Ingegneria antisismica di migliaia di anni fa,

 

Pochi sanno che alcune civiltà del passato avevano sviluppato un sistema di costruzione fortemente antisismico, capace di fare oscillare gli edifici senza però farli crollare. Per esempio, a Sacsayhuamán (Perù), la fortezza ciclopica sopra Cusco è famosa per i suoi massi enormi, alcuni dei quali pesano diverse decine di tonnellate. Molti di questi massi sono tenuti insieme da graffe metalliche. Questi pezzi di metallo a forma di “doppia T” erano inseriti come “cerniera” che teneva insieme un blocco di roccia con i blocchi vicini. Tutti insieme costruivano un sistema “a rete” che tenevano fermo il tutto. I fori per le graffe sono ancora chiaramente visibili.

Per creare queste graffe venivano usati vari metalli, tra cui rame, bronzo e talvolta anche argento e oro per le costruzioni più importanti. Queste graffe non erano solo di rinforzo, ma servivano anche come elementi decorativi. Avevano spesso una forma a "I", "T" o "U". Queste graffe di metallo che tenevano insieme i blocchi compaiono anche a Ollantaytambo (Perù). Nel Tempio del Sole si possono vedere i fori delle graffe asportate. A Machu Picchu (Perù), molti edifici, specialmente quelli di alta qualità, utilizzavano questo sistema.

Come funzionava il sistema antisismico? Per i terremoti leggeri, il peso delle rocce e la loro posizione asimmetrica, o a “puzzle”, era sufficiente a far resistere gli edifici. Se il terremoto era ancora più forte e i blocchi iniziavano a spostarsi tra loro, le graffe di metallo li tenevano insieme, impedendo loro di cadere dalla loro posizione. Queste graffe erano presenti specialmente nei blocchi di roccia presente nelle fondamenta. In questo modo anche se l’edificio poteva subire danni limitati, gli era impedito di crollare.

Questa tecnica ha avuto talmente successo, che si è tramutata in un vero metodo di costruzione quasi “universale” per le civiltà del passato. Ad Angkor Wat (Cambogia), Il tempio più famoso presenta fori per graffe di ferro, utilizzate per unire i pesanti blocchi di arenaria. Nel palazzo di Cnosso (Creta). le fondamenta e gli elementi strutturali utilizzavano graffe a coda di rondine per collegare i blocchi di pietra. Il tempio di Apollo a Didyma (Turchia), uno dei più grandi templi del mondo antico, utilizzava graffe per unire i colossali blocchi. Nel Colosseo (Roma), le graffe furono utilizzate per unire i grandi blocchi di travertino. Purtroppo, la maggior parte di queste graffe è stata asportata nel Medioevo e nel Rinascimento, quando il ferro e il piombo divennero materiali preziosi da riciclare, lasciando le caratteristiche cavità vuote visibili ancora oggi.

Vedere come ingegneri e costruttori di migliaia di anni fa, sparsi in giro per il mondo, costruivano i loro edifici con validissimi criteri antisismici, crea davvero stupore. Se non fosse stato per l’avarizia dei popoli successivi, che in molti casi hanno “smantellato” questi edifici, sarebbero restati intatti fino ai nostri giorni, e in molti casi perfettamente funzionanti. Inoltre, questa è una ulteriore testimonianza che in qualche modo le conoscenze tecnologiche “viaggiavano” da una parte all’altra del mondo, anche oltre gli oceani. Cosa permetteva di avere “contatti” da una parte all’altra dell’oceano?

L’articolo continua sul libro
PRIMA DI NOI C’ERA QUALCUNO.

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I GEOLOGI SCOPRONO LA PRIMA PROVA DIRETTA DELL'ESISTENZA DI UNA PROTO-TERRA 4,5 MILIARDI DI ANNI FA.

 

Un team internazionale guidato dal MIT ha rilevato un'anomalia dell'isotopo del potassio nelle rocce profonde sopravvissute all'impatto catastrofico che ha formato la Luna, rivelando per la prima volta la composizione chimica del pianeta primordiale.

Nelle profondità della Terra, nascosto in alcune delle rocce più antiche e profonde del pianeta, giace un segreto vecchio di 4,5 miliardi di anni. Gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT), in collaborazione con istituzioni negli Stati Uniti, in Cina e in Svizzera, hanno finalmente svelato questo enigma: l'identificazione chimica di materiali incontaminati provenienti dalla proto -Terra , l'embrione planetario che esisteva prima che una colossale collisione lo trasformasse per sempre e desse origine al mondo in cui viviamo oggi. I risultati di questa ricerca, che riscriverà i capitoli iniziali della formazione planetaria, sono pubblicati sulla rivista Nature Geosciences.
Durante l'infanzia del Sistema Solare, un disco turbolento di gas e polvere cosmici iniziò a fondersi, formando i primi meteoriti che, attraverso successive fusioni e accrescimenti, formarono i nuclei dei pianeti, inclusa la proto-Terra. Questo pianeta primitivo era probabilmente un mondo infernale , roccioso e ricoperto da un oceano di magma. Il suo destino cambiò irrevocabilmente meno di 100 milioni di anni dopo la sua gestazione, quando un oggetto delle dimensioni di Marte, soprannominato Theia , lo colpì. Questo evento, noto come il "Grande Impatto", vaporizzò, fuse e mescolò completamente le viscere del giovane pianeta, alterandone la chimica interna così profondamente che si ipotizzò che ogni traccia del materiale originale fosse stata cancellata, diluita nel risultante crogiolo globale.
La ricerca persistente del team del MIT dimostra ora che questa ipotesi era errata. I ricercatori hanno isolato una firma chimica distintiva – un'anomalia nel rapporto degli isotopi di potassio – presente in antiche rocce della Groenlandia, del Canada e nella lava del mantello profondo espulsa dai vulcani delle Hawaii. Questo squilibrio isotopico, una lieve ma misurabile carenza dell'isotopo potassio-40, è estraneo alla composizione della stragrande maggioranza dei materiali che compongono la Terra oggi. Il team ha concluso, dopo approfondite modellazioni e simulazioni, che questo segnale anomalo non poteva essere generato da processi geologici successivi o da un noto bombardamento di meteoriti; la sua origine deve essere più antica.
"Questa è forse la prima prova diretta che i materiali pre-Terra si sono conservati ", afferma la professoressa Nicole Nie, professoressa associata di Scienze della Terra e Planetarie presso il MIT e autrice senior dello studio. " Stiamo osservando un frammento dell'antica Terra, risalente addirittura a prima del massiccio impatto", afferma Nie. "Questo è notevole perché ci aspettavamo che questa firma primordiale fosse stata lentamente cancellata nel corso dell'evoluzione del pianeta " .
La scoperta si basa su un precedente lavoro dello stesso gruppo, pubblicato nel 2023, in cui è stata analizzata la composizione isotopica del potassio in un'ampia gamma di meteoriti. Gli isotopi sono varianti dello stesso elemento che hanno lo stesso numero di protoni ma un diverso numero di neutroni. Nel caso del potassio, tre isotopi sono presenti in natura: potassio-39, potassio-40 e potassio-41. In quasi tutti i campioni terrestri, potassio-39 e potassio-41 sono nettamente dominanti, mentre il potassio-40 è presente in proporzioni minuscole.
Nelle loro precedenti ricerche, Nie e i suoi colleghi avevano scoperto che alcuni meteoriti presentavano squilibri in questi rapporti, anomalie che li distinguevano dalla composizione standard della Terra. Questo rendeva il potassio un potenziale tracciante chimico, uno strumento per tracciare i mattoni originali del nostro pianeta. Se una roccia terrestre mostrasse un'anomalia simile, ciò costituirebbe una forte indicazione che il suo materiale fosse sfuggito all'omogeneizzazione planetaria .
Guidato da questa ipotesi, il team si è messo alla ricerca di questa firma all'interno della Terra stessa. Ha analizzato rocce provenienti da alcune delle più antiche formazioni conservate nella crosta terrestre, in Groenlandia e Canada, e anche campioni di lava hawaiana, che fungono da capsule del tempo quando emergono dalle profondità del mantello, lo strato roccioso spesso 2.900 chilometri che si estende sotto la crosta.
La procedura analitica fu meticolosa: disciolsero i campioni in polvere in acido, isolarono il potassio dagli altri elementi e utilizzarono uno spettrometro di massa ad alta precisione per misurare il rapporto di ciascuno dei tre isotopi. I risultati furono conclusivi: le rocce più antiche e le lave profonde mostravano una carenza costante di potassio-40. Si trattava di un segnale sottile, paragonabile al rilevamento di un singolo granello di sabbia di colore leggermente diverso in un secchio pieno, ma reale e ripetibile.
La presenza di questa anomalia indicava che questi materiali erano, secondo le parole di Nie, costruiti in modo diverso rispetto al resto del pianeta. La domanda cruciale era se potessero effettivamente essere relitti della Proto-Terra. Per rispondere a questa domanda, il team ha eseguito complesse simulazioni al computer. Hanno ipotizzato che la Proto-Terra fosse originariamente composta da materiali con la stessa carenza di potassio-40 . Hanno quindi modellato come il grande impatto e i successivi impatti meteoritici, le cui composizioni sono note grazie alla collezione globale di meteoriti, avrebbero alterato chimicamente questo materiale primordiale, arricchendolo progressivamente di potassio-40 fino a raggiungere la composizione isotopica oggi predominante.
I modelli hanno confermato l'ipotesi. Le simulazioni hanno mostrato che la miscelazione e l'elaborazione geologica nel corso di eoni avrebbero trasformato il materiale carente di potassio-40 nella composizione standard moderna. I resti rinvenuti in Groenlandia, Canada e Hawaii, tuttavia, erano sfuggiti a questo processo di omogeneizzazione, conservandosi in sacche chimicamente isolate all'interno del mantello terrestre per miliardi di anni .
Un'ulteriore scoperta aggiunge un ulteriore strato di mistero all'origine della Terra . La specifica firma isotopica trovata in queste rocce profonde non corrisponde esattamente a quella di nessun meteorite analizzato finora. Ciò implica che gli specifici elementi costitutivi che hanno formato la proto-Terra – quelli con questa particolare carenza di potassio-40 – non sono ancora stati scoperti o non esistono più come corpi indipendenti nel sistema solare.
Gli scienziati hanno cercato per decenni di comprendere la composizione chimica originaria della Terra combinando le composizioni di diversi gruppi di meteoriti , spiega Nie. Ma il nostro studio dimostra che l'attuale inventario dei meteoriti è incompleto e che c'è ancora molto da scoprire sull'origine ultima del nostro pianeta . La scoperta fornisce il primo sguardo diretto alla composizione della Terra pre-terrestre e ridefinisce la ricerca futura, segnalando che la ricetta completa della Terra attende ancora di essere decifrata nelle più remote regioni del sistema solare o nelle profondità inaccessibili del nostro mondo.
FONTI
Istituto di tecnologia del Massachusetts
Wang, D., Nie, N.X., Peters, B.J. et al . Evidenza isotopica del potassio-40 di una componente pre-impatto gigante esistente del mantello terrestre . Nat. Geosci. (2025)