domenica 6 ottobre 2024

Calendario Azteco.

L'erroneamente chiamato Calendario Azteco (o ancora peggio, Calendario Maya! ). Non era né Maya né un calendario. Apparteneva alla cultura azteca, il cui nome corretto era Mexica.

La Pietra del Sole, scoperta nel 1790, rappresenta il passare del tempo in termini ciclici, secondo la visione del mondo messicana, raffigurando le quattro ere precedenti e l'epoca attuale, conosciuta come il Quinto Sole. Ciascuna delle ere precedenti, o soli, è stata distrutta da diverse catastrofi, e il Mexicas credeva che il mondo presente avrebbe dovuto affrontare un destino simile.
Nahui Ocelotl (Quattro Jaguar): Distrutto dai giaguari.
Nahui Ehecatl (Quattro Venti): Distrutto dai venti di uragano.
Nahui Quiahuitl (Quattro piogge di fuoco): Distrutto dal fuoco vulcanico.
Nahui Atl (Quattro Acqua): Distrutto da una grande inondazione.
Il quinto sole (Nahui Ollin) al centro, simboleggia il presente, l'epoca in cui hanno vissuto. Questo concetto ciclico del tempo riflette il modo in cui i messicani comprendono la realtà, non come qualcosa di lineare e continuo, ma come una serie di cicli che potrebbero finire e ricominciare. La pietra, quindi, segna il passare del tempo dalle epoche mitiche passate al presente, con la convinzione che il tempo si ripeta e che anche l'epoca attuale sarebbe giunta al termine, possibilmente a causa dei terremoti, secondo la loro profezia.

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UNA CIVILTÀ SCOMPARSA 30.000 ANNI FA.

Chi sono stati i primi a colonizzare le Americhe? Fino a pochissimi anni fa, si credeva che la prima cultura americana fosse quella dei Clovis, gli antenati dei popoli nativi del Nord America. Inoltre, si pensava che gli esseri umani fossero arrivati in quel continente non prima di circa 14.000 anni fa. Così, in questa "ricostruzione" della storia, le prime civiltà sarebbero state i nordamericani, mentre gli Aztechi, i Maya e gli Inca sarebbero arrivati molto più tardi.
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Recenti scoperte, compresa l'analisi del DNA, invece, hanno dimostrato che ancora una volta l'archeologia era sbagliata. Le prime civiltà nelle Americhe furono le popolazioni centro-sudamericane, almeno 15.000-20.000 anni prima di quanto si credesse in precedenza. E questi popoli vennero VIA MARE (sì, avete letto bene, "via mare"), dalla Siberia e dal Sundaland (il continente scomparso a causa del disgelo, che corrisponde all'attuale Indonesia e alle isole limitrofe).
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Infatti, intorno al 2020 alcuni ricercatori hanno pubblicato i risultati della scoperta di resti umani nella grotta di Chiquihuite, Messico. Gli scavi sono iniziati nel 2012. Scavi più estesi sono stati effettuati nel 2016 e 2017. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature. Quello che è stato trovato nella grotta ha completamente rivoluzionato l'opinione degli archeologi. Lo studio, presentato da Ciprian Ardelean, archeologo dell'Università Autonoma di Zacatecas (Messico), e dai suoi colleghi, suggerisce che le persone vivevano nel Messico centrale almeno 26.500 anni fa. Il professore dice: "Ci vogliono secoli, o millenni, perché la gente attraversi la Beringia e arrivi in mezzo al Messico. " Più tardi aggiunge: "Ci vogliono molti anni di presenza precedente perché ci arrivino se sono arrivati via mare o via terra. " Questo significa che gli esseri umani erano probabilmente in America Centrale molto prima di 30.000 anni fa.
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Ma non è tutto. Un altro centro di ricerca ha scoperto che i popoli nativi dell'America centrale e meridionale non hanno un solo antenato, ma due. Per così dire, hanno un "popolo madre", che viene identificato come "popolazione Y", e che sono gli abitanti originali del Sundaland del lontano passato, intorno al periodo del Disgelo. Ma hanno anche un "padre popolo", che sono gli Iñupiat, dalla Siberia.
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Queste scoperte rivoluzionano dal nulla tutte le credenze archeologiche sul passato delle Americhe. A chi appartenevano le rovine più antiche trovate in quelle terre? Quale civiltà passata è stata in grado di creare geopolimeri in cima alle Ande? Chi ha creato i giganteschi disegni di Nazca, e soprattutto, a quale scopo? E cosa più importante: se le persone 30.000 anni fa potevano viaggiare dall'Australia all'America Centrale, cosa gli impediva di andare dall'America Centrale all'Egitto, come sembrano indicare diverse prove? Vi diamo alcune risposte.
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L'articolo continua nel libro:
HOMO RELOADED - La storia nascosta degli ultimi 75.000 anni.

sabato 5 ottobre 2024

La scoperta è di quelle che mettono i brividi | Nella Via Lattea un sistema di Pianeti che mostra il nostro destino: sarà implacabile.

Via Lattea (Pixabay FOTO) - www.aerospacecue.it

Un sistema planetario lontano rivela come potrebbe evolvere il nostro Sistema Solare: la Terra spinta oltre Marte e il Sole ridotto a una nana bianca.

I sistemi planetari sono insiemi di corpi celesti che orbitano attorno a una stella. Tipicamente, questi sistemi includono pianeti, lune, asteroidi, comete e polveri interstellari.

La formazione di un sistema planetario avviene attraverso la condensazione di gas e polveri in un disco circumstellare. Con il tempo, questi materiali si aggregano per formare i pianeti, mentre la stella centrale si accende e inizia a emettere energia.

I sistemi planetari possono essere molto diversi tra loro. Alcuni hanno pianeti giganti, simili a Giove, molto vicini alla loro stella, mentre altri ospitano pianeti rocciosi come la Terra.

La scoperta di esopianeti in sistemi planetari lontani ha ampliato la nostra comprensione del cosmo. Gli astronomi continuano a trovare nuovi mondi, molti dei quali potrebbero avere caratteristiche simili al nostro.

La scoperta di un sistema planetario simile al nostro.

Un sistema planetario distante 4.000 anni luce dalla Terra, nella Via Lattea, è stato recentemente individuato dagli astronomi dell’Università della California, Berkeley. Questa scoperta offre uno sguardo interessante sul possibile destino del nostro pianeta. Tra miliardi di anni, il Sole si trasformerà in una nana bianca e la Terra potrebbe essere spinta oltre l’orbita di Marte. Gli studiosi, grazie al telescopio Keck delle Hawaii, hanno osservato una nana bianca con una massa pari alla metà di quella del Sole, accompagnata da un pianeta simile alla Terra, in un’orbita doppia rispetto a quella attuale del nostro pianeta.

Questo scenario rappresenta una probabile evoluzione del nostro sistema solare. Quando il Sole si espanderà nella sua fase di gigante rossa, inghiottirà Mercurio e Venere, mentre la Terra, se non sarà distrutta, migrerà verso un’orbita più lontana. La scoperta permette agli scienziati di comprendere meglio il processo di trasformazione di stelle come il Sole, e il conseguente impatto sui pianeti circostanti. Sebbene non sia certo se la Terra potrà sopravvivere all’espansione del Sole, la sua abitabilità sarà comunque compromessa già tra un miliardo di anni, quando gli oceani verranno vaporizzati.

Un'esplosione apocalittica (Pixabay)
Un’esplosione apocalittica (Pixabay FOTO) – www.aerospacecue.it

Sopravvivenza dei pianeti e nuove possibilità per l’umanità

Il pianeta simile alla Terra scoperto dagli astronomi rappresenta un raro esempio di un mondo che è riuscito a sopravvivere alla fase di gigante rossa della sua stella, anche se oggi si trova fuori dalla zona abitabile di una nana bianca. Gli scienziati ipotizzano che un tempo potesse avere condizioni adatte alla vita, ma non è più il caso. Questo tipo di scoperte, rese possibili grazie all’effetto lente gravitazionale, stanno aprendo nuove porte nello studio dei sistemi stellari e planetari. La gravità di questi oggetti funziona come una lente, ingrandendo la luce delle stelle sullo sfondo e rivelando dettagli altrimenti invisibili.

Le prospettive future per l’umanità, in un eventuale scenario di sopravvivenza al cambiamento del Sole, potrebbero prevedere la migrazione verso il sistema solare esterno. Durante la fase di gigante rossa, la zona abitabile si sposterà verso le orbite di Giove e Saturno, dove alcune lune ghiacciate, come Europa ed Encelado, potrebbero ospitare oceani liquidi, potenzialmente adatti alla vita. Secondo gli studiosi, queste lune potrebbero diventare rifugi per l’umanità, quando la Terra non sarà più abitabile. 

Il teletrasporto è realtà. Nel mondo dei quanti. - Alessandro Zavatta

 

A spiegare il funzionamento e le possibili future applicazioni pratiche di questo processo, che si verifica nel mondo microscopico degli atomi e delle molecole, è Alessandro Zavatta dell'Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche.

Con le parole “Beam me up, Scotty” il capitano Kirk, nella celebre serie televisiva Star Trek, ordinava all’ingegnere capo Scott, addetto al teletrasporto, di trasferirlo su qualche pianeta remoto dell’Universo. Insieme ai superpoteri dei personaggi della Marvel, questo è quello che ci viene alla mente non appena si pronuncia la parola teletrasporto, cioè un modo per trasferire cose o persone da un punto a un altro dello spazio con effetto immediato, senza percorrere la distanza che li separa. 

Purtroppo tale modalità di trasferimento è a oggi una possibilità che rimane solo nel mondo delle fiction e dei cartoni animati per i più piccoli. Nonostante ciò, il teletrasporto è una realtà concreta nel mondo microscopico, cioè in quello fatto di particelle fondamentali, atomi e molecole, che è governato dalle leggi della meccanica quantistica. Qui ogni elemento, o sistema, viene decritto da uno stato quantistico ben preciso, che ne racchiude tutta l’informazione e segue leggi che a volte ci appaiono controintuitive e in contrasto con la fisica classica.

Nel teletrasporto quantistico non si trasferisce materia, ma quello che in gergo viene chiamata la “funzione d’onda”, ovvero l’informazione che descrive esattamente in quale stato si trova una particella o, più in generale, un sistema fisico. È proprio questa funzione d’onda a raccogliere tutta l’informazione possibile che viene utilizzata per ricostruire altrove quella particella o quel corpo con le stesse caratteristiche di quello iniziale.

Alla base del fenomeno del teletrasporto si ha l’effetto a distanza che si manifesta fra due particelle quantisticamente correlate o intrecciate, dette “entangled”; questo effetto, evidenziato per la prima volta in un celebre articolo firmato da Einstein, Podolsky e Rosen nel 1935, rappresenta una delle tante peculiarità del mondo quantistico. L’“entanglement”, consiste proprio nell’“intreccio” inestricabile di due o più particelle, le cui proprietà non possono più essere descritte singolarmente: due particelle entagled si comportano come se fossero tutt’uno, anche se si trovano molto distanti l’una dall’altra.

Consideriamo il caso in cui Alice desideri teletrasportare una particella all’amico Bob, che si trova a grande distante da lei. La particella posseduta da Alice viene distrutta per essere “ricreata” da Bob, ottenendo così una particella con le stesse proprietà di quella iniziale. Tutto ciò può avvenire, in maniera non istantanea, grazie alla condivisione di una coppia di particelle intrecciate, a un canale di comunicazione classico, come internet o il telefono, e a patto che Alice non conosca lo stato della particella da teletrasportare.

Ma se le cose stanno così, il teletrasporto quantistico può avere applicazioni pratiche? Certamente sì. Il teletrasporto è un protocollo della teoria dell’informazione quantistica che sta alla base delle tecnologie del futuro. In particolare, è un fenomeno ampiamente utilizzato all’interno del computer quantistico che, in un futuro non molto lontano, sarà in grado di risolvere problemi attualmente impossibili da affrontare da un normale computer. Inoltre, il teletrasporto quantistico è un buon candidato come protocollo di comunicazione per una rete Internet quantistica. Questa nuova rete garantirà la comunicazione fra sensori, simulatori e computer quantistici creando nuove applicazioni, dalla sicurezza delle comunicazioni allo studio di nuovi medicinali o materiali, fino al monitoraggio ambientale su larga scala.

A livello di ricerca, i primi esperimenti pionieristici di teletrasporto quantistico furono condotti a Roma e a Vienna nel 1997, utilizzando fotoni. In entrambi i casi, i ricercatori riuscirono a teletrasportare a distanza le informazioni quantistiche riproducendo esattamente lo stato di un fotone. Più di recente, lo stesso schema è stato realizzato su grandi distanze mediante un satellite messo in orbita con a bordo una sorgente di fotoni entangled. Ulteriori passi avanti hanno permesso di teletrasportare lo stato di un atomo di itterbio a un secondo atomo identico che si trovava a un metro di distanza.

Il Cnr è particolarmente attivo in questo campo di ricerca grazie alle attività dell’Istituto nazionale di ottica, che negli anni è diventato un’eccellenza nazionale, con innumerevoli contributi apparsi sulle più importanti riviste scientifiche internazionali riguardanti l’ottica quantistica e le comunicazioni quantistiche.

Fonte: Alessandro Zavatta, Istituto nazionale di ottica, e-mail: alessandro.zavatta@ino.cnr.it

https://almanacco.cnr.it/articolo/5419/il-teletrasporto-e-realta-nel-mondo-dei-quanti

venerdì 4 ottobre 2024

Rilievo Burney.

 

Il Rilievo Burney è un altorilievo di terracotta, risalente al II millennio a.C. e di probabile fattura paleobabilonese (Periodo di Isin-Larsa). Alto 50 cm, fa parte della collezione Norman Colville al British Museum di Londra. Prende il nome dal suo scopritore, ma è stata soprannominata anche Regina della Notte (Queen of the Night in inglese) durante una mostra nel 2003.

Raffigura una divinità alata con zampe e artigli d'aquila, con a fianco dei gufi e due leoni sotto le sue zampe. Ma oltre al suo particolare soggetto, il rilievo è notevole per le sue dimensioni, eccezionali per il tipo di produzione fittile. Molto probabilmente si tratta della raffigurazione cultuale per un santuario secondario.

La figura rappresentata sembra essere stata identificata con la sumera Kisikil-lilla-ke dell'Epopea di Ghilgameš, oppure, ma meno probabilmente, con Lilith, divinità babilonese del VII secolo a.C. Altri studiosi l'hanno identificata con la dea sumera Inanna o Ištar, ed è stata messa in relazione al mito del suo viaggio nell'Oltretomba. Per alcuni studiosi i suoi chiari simbolismi relativi all'oltretomba farebbero pensare ad una identificazione con Ereshkigal, sorella di Inanna e regina infernale. Altra identificazione è offerta dall'archeologo Antonio Invernizzi il quale, nei suoi testi Dal Tigri all'Eufrate, ha associato il rilievo alla probabile rappresentazione della dea accadica Ardat-lili.

Nonostante sia stata ritenuta da molti un falso, analisi scientifiche sul bassorilievo ne hanno accertato l'autenticità. Una rappresentazione molto simile si trova in un altro rilievo custodito al museo del Louvre.

La Dea impugna il listello e la corda strumenti della Giustizia.


«"Ecco che questa tua sorella Ištar sta nella porta,
colei che celebra grandi feste gioiose e sommuove l'oceano davanti ad Ea".
Ereškigal quando udì questo,
come un tamarisco reciso divenne pallida la sua faccia,
come canna kuninu tagliata divennero nere le sue labbra.
Che cosa ha indotto il suo cuore (a venire da me)? Che cosa ha diretto il suo animo contro di me?
Questa, (che cosa vuole)?
Io voglio (continuare a) bere acqua cogli Anunnaki,
quale cibo mangiare fango, quale bevanda inebriante bere acqua sporca,
piangere sopra gli uomini che hanno abbandonato le loro mogli,
piangere sopra le donne che dal seno dei loro mariti sono state strappate,
sopra il bambino debole piangere che è stato falciato prima dei suoi giorni.»


https://it.wikipedia.org/wiki/Rilievo_Burney

giovedì 3 ottobre 2024

Scienziati sgomenti, ‘è grande quanto 140 Via Lattee’ | Porphyrion mette i brividi: buco nero più giovane e più forte del nostro Universo

 

Scoperto un nuovo buco nero spaventosamente grande e forte: una portata mai osservata prima nell’Universo. 

Le galassie e i buchi neri rappresentano alcuni degli oggetti più affascinanti e misteriosi dell’universo. Il loro studio permette di gettare luce su fenomeni cosmici che coinvolgono enormi distanze e incredibili quantità di energia. Tra gli aspetti più spettacolari legati ai buchi neri ci sono i getti relativistici, flussi di particelle che si muovono a velocità prossime a quella della luce. Questi getti, osservabili in diverse forme di galassie attive, offrono una visione diretta del potere immenso dei buchi neri supermassicci.

Le radiogalassie e i quasar sono solo due delle categorie di oggetti cosmici che producono questi getti. Attraverso le osservazioni, gli scienziati sono riusciti a mappare tali fenomeni in modo sempre più dettagliato. I getti relativistici possono estendersi per milioni di anni luce, influenzando l’ambiente cosmico circostante su scale vastissime. La loro osservazione consente agli astronomi di esplorare le prime fasi dell’universo, cercando di comprendere come l’energia generata dai buchi neri abbia contribuito a plasmare la struttura delle galassie.

Oltre a essere uno spettacolo visivo attraverso i telescopi, i getti di plasma ad alta velocità che fuoriescono dai nuclei galattici forniscono informazioni cruciali sull’evoluzione del cosmo primordiale. Studi recenti hanno suggerito che l’energia rilasciata in questi eventi potrebbe aver avuto un ruolo fondamentale nella crescita delle galassie e nella distribuzione della materia oscura. Queste scoperte hanno rivoluzionato la nostra comprensione delle strutture cosmiche e dei processi che ne regolano la formazione.

Tuttavia, la ricerca non si ferma mai. Grazie a strumenti avanzati come i radiotelescopi, gli astronomi stanno continuamente migliorando la loro capacità di osservare getti di buchi neri a distanze sempre maggiori. Nuovi dati rivelano sistemi sempre più vasti e complessi, offrendo spunti per approfondire la nostra conoscenza dell’universo. Ogni nuova scoperta si aggiunge al mosaico, permettendo di comprendere meglio fenomeni che, fino a pochi decenni fa, rimanevano in gran parte un mistero.

Alla scoperta di un sistema senza precedenti.

Uno dei risultati più recenti e sorprendenti proviene da un team internazionale di astronomi. Essi hanno identificato un sistema di getti di buchi neri dalle dimensioni mai osservate prima, soprannominato Porphyrion. Questa struttura si estende per una lunghezza di 23 milioni di anni luce, un dato che colpisce per la sua imponenza e scala.

Per fare un confronto, si tratta di una distanza pari a 140 galassie come la Via Lattea allineate. Tale estensione rappresenta il sistema di getti più grande mai individuato, superando di gran lunga il precedente record. Questi numeri non solo impressionano per le dimensioni, ma anche per il loro impatto sulle nostre conoscenze attuali.

Porphyrion buco nero
Rappresentazione dell’enorme Porphyrion – www.aerospacecue.it(Space.com foto)

La rilevanza della scoperta di Porphyrion.

Questa scoperta, avvenuta grazie al radiotelescopio LOFAR, offre un’importante finestra sulle prime fasi dell’universo. Porphyrion si è formato quando l’universo aveva appena 6,3 miliardi di anni, in un periodo in cui le galassie si stavano ancora evolvendo e la materia era molto più densa. Ciò rende la scoperta particolarmente significativa: la formazione di una struttura di tale vastità in un’epoca così remota suggerisce che i buchi neri abbiano giocato un ruolo cruciale nell’influenzare la crescita e la distribuzione delle galassie.

Il sistema potrebbe avere implicazioni decisive per comprendere come si sviluppano le galassie e come la rete cosmica sia influenzata dall’attività dei buchi neri. Gli scienziati ritengono che altre strutture simili potrebbero essere ancora nascoste, e ulteriori ricerche potrebbero rivelare nuovi dettagli su questi fenomeni, aprendo nuove strade per lo studio dell’evoluzione dell’universo.

Che odore avevano i ricchi romani?

 

Nel 2019 un residente della città spagnola di Carmona stava scavando una piscina quando ha sfondato una camera sotterranea. Gli archeologi di Siviglia furono chiamati a indagare e, salendo nella buca, trovarono una tomba di famiglia romana intatta del I secolo d.C. con sei urne sepolcrali ancora in posizione.
Tra le offerte funerarie ad una donna morta intorno ai 40 anni c'era una delicata bottiglia ricavata in cristallo di quarzo, sigillata con un tappo di bitume e con al suo interno il contenuto coagulato. Utilizzando tecniche di scansione all'avanguardia come la diffrazione dei raggi X, la spettroscopia a raggi X a dispersione e la microscopia elettronica a scansione, gli esperti sono riusciti a determinare l'esatta composizione della sostanza all'interno del recipiente senza aprirla.
Che la bottiglia contenesse olio profumato - offerta comune nelle tombe romane - non era di per sé una sorpresa ma l'essenza precisa era di grande interesse. L'analisi ha rivelato che il profumo era composto da due ingredienti: primo, una base o un legante di olio d'oliva che avrebbe aiutato a facilitare l'applicazione e la conservazione dell'aroma. Quanto all'essenza, è stato identificato come pogostemon cablin, altrimenti noto come patchouli.
Quasi sicuramente importato dall'India, il patchouli sarebbe stato un bene raro e costoso in epoca romana e - insieme al suo prezioso vascello - attesta l'elevato status sociale del defunto. I ricercatori hanno precedentemente rilevato accenni di estratti floreali in bottiglie usate per conservare cosmetici, conosciuti come unguentaria, ma è la prima volta che viene individuata la fonte di un aroma.