mercoledì 30 novembre 2016

Debora Serracchiani sanzionata per violazione della par condicio.

Debora Serracchiani sanzionata per violazione della par condicio

E' finita nella bufera Debora Serracchiani che ha organizzato - a spese dei contribuenti, riporta il Fatto Quotidiano - un convegno dal titolo "Riforma costituzionale e Autonomie speciali" che si è svolto nella sede della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, a Udine, dove tutti gli invitati erano per il Sì al referendum.

A denunciare il fatto all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) è stato il Movimento cinque stelle del Friuli Venezia Giulia. L'Agcom ha poi sanzionato la vice segretaria nazionale del Pd per aver violato le regole della par condicio sul referendum. "Non solo questo spudorato manifesto per il Sì al prossimo referendum del 4 dicembre è stato pagato con risorse pubbliche - ha fatto sapere la portavoce del Movimento 5 Stelle regionale Elena Bianchi - ma si è svolto in piena violazione della par condicio e in totale assenza di contraddittorio".

L'Agcom ha anche ordinato alla Regione Friuli Venezia Giulia di pubblicare sulla home page del proprio sito istituzionale, per la durata di 15 giorni, l'indicazione che lo stesso convegno, "Riforma costituzionale e Autonomie speciali", non ha rispettato quanto previsto dall'art. 9 della legge 22 febbraio 2000 n. 28 in materia di comunicazione istituzionale

http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/12004526/debora-serracchiani-sanzionata-per-violazione-della-par-condicio.html

GUSTAVO ZAGREBELSKY: “COSTITUZIONE INDIFESA COME A WEIMAR. FERMIAMO GLI APPRENDISTI STREGONI”. - Giuseppe Salvaggiulo

Gustavo Zagrebelsky: “Costituzione indifesa come a Weimar. Fermiamo gli apprendisti stregoni”

«Parlamento illegittimo, non poteva cambiare la Carta. Ma i garanti tacciono Mourinho direbbe: riforma zero tituli. Col proporzionale torna la politica»
Il professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita, Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho, Weimar e De Gregori.
Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo?
«Questa è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che li può far vivere».
Cosa intende per contesto?
«Tra il ‘46 e il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti».
La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta.
«Davvero si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1».
In che modo?
«La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti».
Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica.
«La prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti della Costituzione fanno finta di niente e tacciono».
Chi sono i garanti?
«Dal presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un “partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso».
Perché è violato l’articolo 1?
«L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu tituli».
Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza.
«Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”».
Ora, però, decide il popolo.
«Pensare che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la mano».
Che cosa imputa a Renzi?
«Nulla. Però non c’è saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il governo sotto».
Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta?
«In un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge, dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La democrazia è cosa molto più complicata».
Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo.
«Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti, nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!), riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto».
Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi?
«Non mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato, dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?».
Lo rifarebbe?
«Mah! Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo! D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che ricorda analoghe promesse berlusconiane».
Preparerebbe carte a sorpresa?
«Certo che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni. Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è chiarire, ma colpire».
C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza?
«Tutt’altro! Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro risate».
Che succede se vince il Sì?
«Non si apre la strada a una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali saranno le poche mani di domani».
E se vince il No?
«Si potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali.
E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati?
«Agitare queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura».
Bisognerà riscrivere la legge elettorale.
«Molte ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di riforme anche costituzionali».
Che cosa farà il 5 dicembre?
«Questa campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada».
La Stampa, 29 novembre 2016


Furbetti del cartellino, nessuna salvezza dalla Consulta (a differenza di quanto dice Renzi). Ma pioveranno ricorsi. - Luisa Gaita

Furbetti del cartellino, nessuna salvezza dalla Consulta (a differenza di quanto dice Renzi). Ma pioveranno ricorsi

Dopo la decisione dei giudici supremi sulla legge Madia si è diffuso il timore che i provvedimenti contro gli assenteisti del settore pubblico potessero finire al macero. Ilfattoquotidiano.it ha interpellato diversi esperti. Secondo i quali tutti gli strumenti per licenziarli c'erano già. L'effetto può esserci però sui tempi e sull'incentivo a impugnare.

Nessuna salvezza per i fannulloni e furbetti del cartellino. Si potranno ancora licenziare, al contrario di quanto dichiara il premier Matteo Renzi. Intervistato da Barbara D’Urso a Domenica live 48 ore dopo il verdetto della Consulta sulla riforma Madia, il premier ha infatti lamentato che “la Corte costituzionale con una sentenza ci ha impedito di licenziare quelli che fanno i furbetti a timbrare il cartellino”. Non è proprio così. In questo ambito le problematiche conseguenti alla bocciatura da parte della Consulta di quattro articoli della legge delega della riforma Madia sulla Pubblica amministrazione sono principalmente legate ai ricorsi che è prevedibile fioccheranno da parte di dipendenti pubblici sospesi e licenziati con tempi e modalità dettate dal decreto legislativo 116 del 2016 diventato poi legge. Fra i sei decreti attuativi che derivano dalla legge delega ritenuta incostituzionale e travolti dalla sentenza 251 della Corte Costituzionale c’è infatti anche il cosiddetto decreto fannulloni che prevede la sospensione in 48 ore del dipendente pubblico colto sul fatto (nel caso del cartellino timbrato da un collega, la norma colpiva anche quest’ultimo), il blocco dello stipendio e il licenziamento entro 30 giorni. Che cosa accadrà, dunque, ai dipendenti pubblici colti in flagrante e già licenziati? La sentenza della Consulta rappresenta davvero un enorme passo indietro, un dramma nella lotta all’assenteismo oppure, in fin dei conti, non cambia poi molto? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto ad alcuni esperti. Che concordano soprattutto su un punto: il decreto in questione non ribaltava in maniera così clamorosa la situazione precedente e, dunque, anche senza quello strumento le amministrazioni sono perfettamente in grado di licenziare i dipendenti infedeli. Nessun dramma.
IL CASO DI SIRACUSA. Eppure agli inizi di settembre la ministra della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, è stata la prima ad annunciare sui social ‘l’era del licenziamento sprint’ quando un’operazione della Guardia di Finanza ha portato a scoprire 29 dipendenti assenteisti del Libero consorzio comunale di Siracusa: “Si applica la riforma della Pa: licenziamento rapido a tutela di tutti i dipendenti onesti” sono state le sue parole. Nei 137 giorni presi in esame sono state documentate 1114 ore di assenze ingiustificate. Com’è finita? Diciannove lavoratori sono stati sospesi per due due mesi e, agli inizi di novembre (circa due mesi dopo il blitz ‘Quo vado’), ci sono stati i primi 4 licenziamenti dei dipendenti del Libero Consorzio di Siracusa, ex Provincia regionale. Un paio di giorni fa la stessa sorte è toccata a sei dipendenti di Siracusa Risorse, società partecipata dell’ex Provincia di Siracusa, sempre nell’ambito della stessa indagine.  Ora che cosa accadrà?
IL RITORNO AL PRE-RIFORMA. Secondo Lorenzo Zoppoli, ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ non c’è dubbio sul fatto che rimanga, nonostante la sentenza “la possibilità di licenziare il dipendente che viene colto in flagranza di infrazione perché non timbra il cartellino o non è puntuale, non l’ha certo introdotta la riforma Madia”. Cambiano i tempi, ma anche tutta la questione probatoria, il nodo della nozione di flagranza di comportamento di cui si è molto discusso in sede di approvazione e che non si è risolta in maniera pacifica e lineare. “I tempi sono infatti legati ad adempimenti e alla necessità di dare delle garanzie a chi viene incolpato di un certo comportamento” spiega Zoppoli. Discorso diverso sul fronte dei ricorsi: “È chiaro che la sentenza della consulta indebolisce i provvedimenti precedenti, ma non manda tutto al macero”. I ricorsi? “Rinunceranno solo i dipendenti che non ne trarrebbero convenienza e si tratta di casi piuttosto rari”. Qualcosa cambia con la sentenza della Consulta, ma che le regole ci fossero già dalla riforma Brunetta del 2009 e che alcune previsioni fossero state nel frattempo introdotte anche nei contratti collettivi di lavoro lo conferma anche Aurora Notarianni, avvocato specialista in Diritto del lavoro.
CHE COSA CAMBIA. “L’obbligo di avviare un procedimento disciplinare nel caso di un’alterazione (come il cartellino timbrato da un collega), per esempio, esisteva già” spiega l’avvocato. Dal punto di vista amministrativo, poi, era prevista anche la responsabilità di chi agevola, ma non quella del dirigente che si gira dall’altra parte. E se dal 13 luglio di quest’anno, data di entrata in vigore della legge, era possibile sospendere automaticamente (senza stipendio, salvo l’assegno alimentare), senza l’audizione del dipendente, ora il lavoratore colto in flagranza potrà essere sospeso, ma solo dopo essere stato sentito. Discorso a parte per i tempi di licenziamento che con la nuova legge erano ridotti a 30 giorni. “Succede che bisognerà seguire il vecchio iter – spiega Notarianni – che consente di scegliere se sospendere il procedimento in attesa dell’eventuale processo penale, oppure se concluderlo autonomamente”.
Le amministrazioni sceglievano spesso di sospenderlo (con i conseguenti ritardi) per una questione legata alla raccolta delle prove, a maggior ragione nei casi in cui l’accertamento era partito da una procura della Repubblica, con l’utilizzo di strumenti come le cimici, tanto per fare un esempio. “In ogni caso le regole sono sempre state chiare – spiega l’avvocato – il termine per la definizione del licenziamento è di 180 giorni e, se l’iter si sospende in attesa del procedimento penale, deve poi riprendere entro 60 giorni e concludersi entro 180”.
ROMAGNOLI: “GLI EFFETTI VENGONO STRUMENTALIZZATI”. Anche il giuslavorista Umberto Romagnoli, professore emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Bologna sottolinea che “i licenziamenti nel settore pubblico si sono sempre potuti fare”. E va oltre: “Il problema è inventato, mi sembra che si strumentalizzino gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale e che si vogliano descrivere come molto più devastanti di quanto in effetti non siano”. Qualcosa cambia, però. I fannulloni sono salvi? “Ritengo sia una questione gonfiata ad arte per dimostrare che questo governo sta cambiando il Paese, mentre ci sono delle forze oscure che vogliono impedirlo”.

La storia dell'uomo che ha fatto la storia.

Referendum: Delrio, 'No' non e' catastrofe, ma instabilità.

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Il ministro dei Trasporti e infrastrutture Graziano Delrio.


Fallimento banche? No ad agitare drappi rossi in modo infondato.

 "L'Italia e' un grande Paese con istituzioni molto solide. In caso di vittoria del 'No' nessun catastrofismo. Tuttavia evidentemente avremo un periodo di relativa instabilità". Lo afferma il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Graziano Delrio su Radio24, escludendo che un'eventuale sconfitta del 'Si' possa portare al fallimento di molte banche italiane. "Si tratta di interferenze, di chi agita drappi rossi - conclude Delrio - in modo infondato".

"In Alitalia, malgrado i bilanci siano peggiori del previsto, non mi hanno parlato di esuberi ma di un piano di rilancio".

Ma è sempre meglio avere l'instabilità governativa che una oligarchia dittatoriale.
Sempre meglio avere una Costituzione che salvaguardi i diritti indiscutibili dei cittadini che dare pieno potere ad un esecutivo che legiferi senza alcuna opposizione.
In ogni caso, meglio una Costituzione che possa essere interpretata e compresa da tutti i cittadini e non solo da chi l'ha scritta e che si presta a mille interpretazioni.
Vogliamo semplificazioni, non complicazioni.
Vogliamo che le leggi che fate vengano rispettate da tutti, anche da voi che le fate, vogliamo più giustizia e meno caos.
Avete creato solo confusione e precarietà, è ora che poniate rimedio al disastro che avete provocato.
Cetta.

martedì 29 novembre 2016

Referendum, tra sindaci highlander e il Senato gonfiabile: tutti i mostri prodotti da una riforma mal scritta. - Diego Pretini

Referendum, tra sindaci highlander e il Senato gonfiabile: tutti i mostri prodotti da una riforma mal scritta

Contraddizioni, controversie, pasticci, "errori di sintassi costituzionale". Le riforme costituzionali porterebbero parecchia confusione e anche molto lavoro a Consulta e Parlamento per le leggi attuative. Seguendo il libro "non schierato" del costituzionalista Rossi, ecco un riassunto delle cose che non tornano. Come i sindaci che per la Severino vengono sospesi, ma restano senatori. O la "gattopardesca" operazione sulle competenze delle Regioni.

Senatori vuol dire “più anziani”, ma i componenti del Senato delle Autonomie potrebbero avere 18 anni. I senatori saranno per tre quarti consiglieri regionali, ma gli statuti delle Regioni speciali dicono che non si può essere contemporaneamente consiglieri regionali e parlamentari. Lo scudo dell’insindacabilità che protegge i senatori anche quando parlano da non senatori e un esempio c’è già stato (Albertini che quando parlava era europarlamentare, ma è “scudato” dal Senato). I sindaci delle grandi città che potrebbero essere esclusi dal Senato se appartenessero a partiti di minoranza nella Regione (RaggiAppendinoSala) o addirittura non avessero un partito (De Magistris). Di storie “anomale” che potrebbero nascere con la riforma costituzionale del governo ilfattoquotidiano.it ne ha raccontate parecchie.
una-costituzione-miglioreIlfatto.it ha raccolto le principali contraddizioni, le possibili controversie e gli eventuali pasticci che, se la riforma passasse, porterebbe oltre che molta confusione e molto lavoro alla Corte Costituzionale e al Parlamento per le leggi attuative che serviranno. Per farlo, la base è stata Una Costituzione migliore?, firmato da un costituzionalista, Emanuele Rossi, che insegna Diritto costituzionale al Sant’Anna di Pisa. Un libro “non schierato”, a differenza di molti volumi in libreria in queste settimane, da La Costituzione spezzata di Andrea Pertici (edizioni Lindau) a Aggiornare la Costituzione di Carlo Fusaro e Guido Crainz (Donzelli).
Edito da Pisa University PressUna Costituzione migliore? è un’analisi scientifica della riforma, quasi un’autopsia effettuata da un giurista che – già nel prologo – dichiara di non voler sposare una linea (per il sì e per il no) e effettuare solo un esame “con un linguaggio semplice ma rigoroso”, per analizzare “punti di forza e di debolezza, le scelte opportune e gli errori commessi”. Il volume, emanuele-rossia sua volta, si basa su 111 testi e 86 giuristi diversi. E capitolo dopo capitolo l’analisi del testo di Rossi è impietosa: “poco coerente“, “irrazionale”, “inserita in un comma sbagliato”, “oscuro“, “una situazione di assai ardua definizione”, “irragionevolezza”, “scarsa qualità del testo“, “singolare”, “bestiario costituzionale“, “contraddittoria”, “cattiva qualità legislativa“. “Ferme restando infatti le ‘grandi scelte politiche’ – scrive Rossi nelle conclusioni – sembra infatti evidente che il testo uscito dal Parlamento è, perlomeno da un punto di vista tecnico e quindi di funzionalità del sistema, assai deficitario”, che è dovuto a “veri e proprio errori di sintassi costituzionale” dice Rossi riprendendo un’espressione dell’ex giudice Enzo Cheli. “Vi sono alcuni evidenti errori oggettivi nel testo: com’è possibile che (almeno) questi non siano stati evitati?” si chiede ancora Rossi. Certamente, aggiunge, “vi è un problema di qualità della classe politica, come anche vi è un problema di funzionalità degli uffici di supporto”. Ma ancora di più “ci si dovrebbe interrogare se revisioni costituzionali organiche possano essere realizzate in assenza di un momento costituente vero e proprio, vale a dire in condizioni storiche e sociali a ciò adeguate: detto in altri termini, se riforme come queste possano essere prodotte dal potere costituito e non richiedano invece l’esercizio di potere costituente“.
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Ma chi voterà Si, crede veramente che la situazione economica possa cambiare?
Abbiamo uno smisurato debito pubblico che non potrà mai essere estinto a causa della cattiva gestione dell'immane quantità di denaro che entra nelle casse dello Stato e una dilagante corruzione che stagna nelle faglie delle istituzioni.
Se il governo volesse veramente adoperarsi per migliorare la situazione stagnante, dovrebbe fare leggi adeguate che seguissero una logica, criteri di giustizia e legalità e non si prestassero a libere interpretazioni. 
Non è necessario cambiare la Costituzione, perfetta nella sua stesura, è necessario cambiare modo di pensare e governanti.


Cetta.

"Banca al servizio della mafia", amministrazione giudiziaria a Paceco. - Romina Marceco

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L'Istituto Grammatico avrebbe concesso prestiti agevolati ai boss del Trapanese.

Una banca a disposizione degli esponenti della mafia trapanese. Nei posti di responsabilità sedevano personaggi che agevolarono, secondo le indagini della procura di Palermo e della Finanza, le attività di soggetti legati alla criminalità organizzata.

Su 1.600 soci della Banca di credito cooperativo di Paceco “Senatore Pietro Grammatico” in 357 hanno precedenti penali e tra questi in 11 per reati riconducibili al mondo di Cosa nostra. Adesso l’istituto di credito, su disposizione della sezione misure di prevenzione di Trapani, è passata ad un’amministrazione giudiziaria per sei mesi. Il primo caso, in Italia, in cui una banca viene sottoposta a un provvedimento del genere. Altri casi in Sicilia hanno colpito aziende come la Newport e la Italgas.

Ad essere agevolata dal mancato controllo sulle operazioni sarebbe stata soprattutto la famiglia mafiosa Coppola. Uno dei Coppola, Rocco, ha occupato la sedia di direttore di una delle cinque filiali della banca, quella di Trapani. Giuseppe Coppola, socio della banca, ottenne un prestito di 40 milioni di lire nel 1996. Eppure le indagini accertarono che lui e la moglie avevano messo a disposizione la loro casa per un summit mafioso. Un occhio, anzi tutti e due, sarebbero stati chiusi sulla concessione di mutui e sulla normativa antiriciclaggio. Ma ci sarebbe di più. Alla moglie del fratello di un collaboratore di giustizia, Francesco Milazzo, venne concesso di prelevare 120 mila euro dal suo conto senza segnalare l’operazione come “sospetta”. Questa la giustificazione del responsabile dell’Antiriciclaggio: «È prevalsa la conoscenza del carattere della cliente, sensibilmente suggestionata dalle notizie negative dei telegiornali e dei mercati».

Un altro cliente della banca, Pietro Leo, padre della attuale responsabile dell’area clienti dell’istituto di credito, sarebbe vicino ad ambienti mafiosi. Eppure, hanno ricostruito dagli accertamenti i finanzieri, ha ottenuto un mutuo di 237 mila euro con un enorme vantaggio: ne doveva restituire solo 135 mila in dieci anni.


http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/11/29/news/_banca_al_servizio_della_mafia_amministrazione_giudiziaria_a_paceco-153057190/

La riforma costituzionale Renzi-Boschi è quasi uguale al “Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli. - Ignazio Coppola



Promemoria  per tutti coloro che domenica 4 dicembre si recheranno alla urne per esprimere il loro voto sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi. E’ bene sapere che questa riforma trae origine dalle ‘riflessioni’ del Gran Maestro venerabile della Loggia P2, Licio Gelli, scomparso un anno fa. Come potete leggere qui di seguito, quasi tutti gli ‘obiettivi’ che i piduisti si prefiggevano di raggiungere si ritrovano nella riforma costituzionale del Governo Renzi
di Ignazio Coppola
Una riforma costituzionale che ci fa andare indietro nel tempo di 40 anni. E’ infatti datata 1976 quando fu scoperto il “Piano di Rinascita democratica”,detto anche programma di Rinascita Nazionale del piduista Licio Gelli che consisteva in un assorbimento degli apparati democratici della società italiana dentro le spire di un autoritarismo legale i cui obbiettivi essenziali consistevano in una serie di riforme e modifiche costituzionali. Il piano di Gelli si prefiggeva lo scopo di “rivitalizzare”ed “addomesticare” il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati e agli stessi cittadini elettori. Programmi a medio e a lungo termine che prevedevano, in premessa, il ritocco della Costituzione, con precisi obbiettivi di modifica degli assetti istituzionali
In un ‘intervista sul Corriere della Sera del 5 ottobre 1980, Licio Gelli Gran Maestro venerabile della loggia P2, che fu definita dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini un’associazione a delinquere, esponeva all’intervistatore Maurizio Costanzo il suo programma contenuto nel Piano di Rinascita Democratica che consisteva in alcuni punti fondamentali:
1) Il controllo dei politici (nominati e non eletti), dei partiti, delle televisioni e degli organi di informazione;
2) ridimensionamento dei sindacati;
3) privatizzazione di tutti gli enti pubblici;
4) mutamento della Repubblica in senso presidenziale;
5) accentramento dei poteri nelle mani di pochi in un regime governo-centrico a discapito delle autonomie locali (che oggi   con la riforma Renzi-Boschi troverebbe riscontro nella clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni).
Un articolato programma, quello del Piano di Rinascita democratica di Gelli, che prevedeva una svolta di stampo autoritario da imporre al Paese attraverso opportuni interventi sui principali settori della vita pubblica italiana: Parlamento, Governo, partiti politici, magistratura, informazione, sindacati.
Interventi da portare avanti non dall’esterno, in modo violento, ma dall’interno, attraverso la scalata ai vertici del mondo politico, istituzionale e dell’informazione.
Mancava l’ultima parte al disegno gelliano: quello per il raggiungimento di questi obbiettivi, finalizzato allo stravolgimento della Costituzione (oggi riforma Renzi-Boschi) e del sistema elettorale (oggi Italicum).
Dove non è riuscito Silvio Berlusconi (tessera della P2 n. 1819), troppo distratto dai bagordi e dalle cene di Arcore, ha pensato, sotto l’abile e “sapiente” regia del presidente emerito Giorgio Napolitano, a tappe forzate con il suo Governo, Matteo Renzi.
E’ di questo Governo, infatti, l’abolizione dell’art. 18; è di questo Governo l’ultimo attacco all’unità sindacale; è di questo Governo la riforma per l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati; è di questo Governo la pericolosa riforma costituzionale per rovesciare, con il “combinato disposto” con l’Italicum (legge che si può considerare la fotocopia della legge Acerbo del 1923 che fu l’anticamera del fascismo), la centralità del Parlamento a favore di un premierato forte, con un’enorme concentrazione di potere nella mani dell’esecutivo e del suo “capo”.
Un uomo solo al comando, con tutti i rischi che per la democrazia questo ovviamente comporta. Così da far dire al giudice Nino di Matteo, lo scorso 22 ottobre, a proposito delle riforma Renzi- Boschi:
“Questa riforma ha un solo obbiettivo, quello voluto dallo stesso Licio Gelli nel piano di Rinascita democratica della P2 e dai successivi governi, ossia quello di favorire il potere esecutivo a scapito del potere legislativo e giudiziario, trasformando così la democrazia in una sorta di dittatura dolce, fondata non sulla sovranità popolare, ma sul potere oligarchico che obbedisce solo alle leggi della finanza e dell’economia internazionale”.
Dalla democrazia all’oligarchia il passo è breve. Al giudice Di Matteo ha fatto poi eco il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, magistrato, esponente dello stesso partito di Renzi, il PD. Emiliano ha definito la riforma sottoposta a referendum un “attacco alla Costituzione”.
Questi sono importanti elementi di riflessione per gli elettori che, domenica prossima 4 dicembre, andranno a votare: soprattutto se pensano di votare sì.
Detto questo, se il sì dovesse vincere sorgerebbe, per Matteo Renzi, un altro costoso problema: ossia quello di pagare agli eredi di Licio Gelli, che legittimamente li rivendicherebbero, i diritti d’autore della riforma costituzionale di cui il loro congiunto era stato, a suo tempo, l’ideatore con il suo piano di Rinascita democratica ed ora riproposto agli italiani dal duo Renzi-Boschi.

lunedì 28 novembre 2016

Omaggio a Fidel. - Lia De Feo


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Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. 
Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.  E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.
E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.
L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en  Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. 
Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. 
E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.
Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel?  Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.
da Haramlik, il blog di Lia – http://www.ilcircolo.net/