Visualizzazione post con etichetta Gelli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Gelli. Mostra tutti i post

domenica 6 giugno 2021

Strage di Bologna, il conto di Gelli. Così ha usato 15 milioni di dollari. - Gianno Barbacetto


Come un diligente ragioniere di provincia, Licio Gelli teneva il suo documento più segreto accuratamente ripiegato nel portafoglio. Il Maestro Venerabile, volonteroso funzionario dell’eversione, aveva scritto su un foglio a quadretti, in parte a macchina e in parte a mano, in stampatello, una misteriosa contabilità divisa in nove colonne: data, motivo, importo, conto, note, e poi ancora data, note, importo. Ripiegato in tre, ha l’aria di quei libretti che i bambini fabbricano per gioco. Ma qui il gioco è pericoloso. Sulla copertina, il titolo è scritto a macchina a lettere maiuscole: “BOLOGNA-525779-XS”.

Questo libretto così infantile e così terribile – secondo la Procura generale bolognese – racconta i flussi dei soldi con cui Gelli ha finanziato la strage del 2 agosto 1980. Il “Documento Bologna” è stato per quarant’anni una prova dimenticata. Invisibile, come la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe che nessuno vedeva eppure era ben esibita sopra il caminetto. A trovarla – anzi, ri-trovarla – è il sostituto procuratore generale Nicola Proto, che con il collega Umberto Palma e l’avvocato generale Alberto Candi l’ha scovata, ingiallita dal tempo, nell’Archivio di Stato di Milano, conservata insieme a centinaia di altri documenti del processo sul Banco Ambrosiano.

La stele di Rosetta e la finta corruzione del giudice.

Era stata estratta dal portafoglio di Gelli dopo il suo arresto a Ginevra, il 13 settembre 1982, e sequestrata dalle autorità svizzere. Per quattro anni era rimasta negli archivi elvetici e mandata in Italia il 16 luglio 1986, consegnata al giudice istruttore che stava indagando sul dissesto dell’Ambrosiano, Antonio Pizzi. Contrassegnata con il numero 27, è subito definita documento di “particolare interesse”. Eppure non si riesce a capirne il senso: “Bologna… non si riesce allo stato a dare un significato ben preciso”. A Gelli non vengono mai fatte le domande giuste. Adesso i magistrati bolognesi ritengono di aver interamente decifrato la stele di Rosetta della strage. Il numero 525779-XS indica un conto svizzero di Licio Gelli aperto presso l’Ubs. La denominazione “BOLOGNA” indica che lì è raccontata la storia dei soldi che finanziano la strage. Il documento allinea due flussi di denaro: il primo è chiamato “Dif. Mi” e si articola in sette operazioni bancarie tra il 3 settembre 1980 e il 15 febbraio 1981 per un totale di 10 milioni di dollari; il secondo è “Dif. Roma”, un flusso di 5 milioni di dollari che si muovono nei primi mesi del 1981. Che cosa significano “Dif. Mi” e “Dif. Roma”? E qui la storia si fa appassionante. Significano “Difesa Milano” e “Difesa Roma”. A Milano Calvi era indagato per violazioni valutarie, a Roma per concorso in bancarotta nel crac del gruppo Genghini. Il gatto e la volpe, Gelli e il suo compare Umberto Ortolani, riescono a convincere Calvi che grazie ai loro rapporti di loggia lo faranno prosciogliere, sia a Roma, sia a Milano. Ma le due operazioni hanno un costo: 10 milioni quella di Milano, 5 quella di Roma. Così il povero ragiunatt diventato padre-padrone dell’Ambrosiano risucchia 15 milioni di dollari dal Banco Ambrosiano Andino e li affida al gatto e alla volpe, che non li usano però per corrompere i giudici, come promesso, ma per finanziare se stessi e gli uomini della strage. A “UL” (cioè Umberto e Licio) vanno il 20% di “Difesa Milano” e il 30% di “Difesa Roma”: è la mediazione sul millantato credito, in cambio di una corruzione dei giudici solo promessa. È uno spettacolo di arte varia quello che il gatto e la volpe mettono in scena per convincere Calvi che stanno lavorando per lui: gli mostrano perfino una ricevuta bancaria per Ugo Ziletti, allora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Tutto finto. Non pensano affatto ai guai giudiziari del ragiunatt. Hanno di peggio da fare. Il denaro comincia a correre. Parte il flipper. Il 22 agosto 1980, i 10 milioni della “Difesa Milano” transitano dall’Andino alla società Nordeurope, poi si dividono, metà alla Noè 2 e metà alla Elia 7 (due società di Ortolani), per ricongiungersi nel conto Ubs 596757 di Gelli. A settembre passano in tre conti Ubs: Bukada, Tortuga e il fatidico 525779-XS. I primi due sono di Marco Ceruti, fido braccio destro finanziario di Gelli e suo prestanome bancario; il terzo è di Gelli in persona. È il “conto Bologna”. Nel settembre 1981 altri milioni partono dall’Andino, passano per Bellatrix, arrivano a Antonino 13 (conto di Ortolani) e finiscono a Bukada (di Ceruti). Ora arriva il bello. I magistrati bolognesi e gli uomini della Guardia di finanza guidati dal capitano Cataldo Sgarangella vedono che i soldi di Calvi cominciano a muoversi dal 22 agosto 1980. La strage è del 2 agosto. E sul “documento Bologna” c’è qualcosa che non quadra: ci sono 1.900.000 dollari segnati con “dare a saldo” (nella colonna “Motivo”) e con “restano 1.900.000” (nella colonna “Note”). Come si spiega? Lo fa capire un bigliettino sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981 nel suo ufficio di Castiglion Fibocchi, insieme a tanti altri documenti e alle liste della loggia P2. Il bigliettino è scritto a mano. Vi si legge: “A M.C. consegnato contanti 5.000.000 – 1.000.000” e “dal 20.7.80 al 30.7.80”.

Quel filo fino a “Zaff”, il capo degli Affari riservati.

Che cosa significa? “M.C.” è Marco Ceruti. Spiega in aula il capitano Sgarangella che c’era qualcosa di tanto urgente da costringere Gelli ad anticipare in contanti suoi, a luglio, quanto poi arriverà da Calvi e sarà recuperato solo a settembre, sul “conto Bologna”: il tesoretto per finanziare la strage. Un milione in contanti per gli stragisti tra il 20 e il 30 luglio 1980; più 850.000 per “Zaf” il 30 luglio; e 20.000 per “Tedeschi Artic”. Altri 4.000.000 affluiscono sui conti Bukada e Tortuga. Di questi, 340.000 vanno a Giorgio Di Nunzio – sostengono gli investigatori – per finanziare la strage. “Tedeschi” è Mario Tedeschi, allora parlamentare del Msi e direttore del Borghese, oggi accusato di essere uno dei mandanti, insieme a Gelli e insieme a “Zaff”, che riceve una bella fetta del denaro di Calvi: è “Zafferano”, ovvero Federico Umberto D’Amato, capo degli Affari riservati e gran gourmet noto per la sua incontenibile passione per lo zafferano e per i misteri neri d’Italia.

IlFQ

martedì 29 novembre 2016

La riforma costituzionale Renzi-Boschi è quasi uguale al “Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli. - Ignazio Coppola



Promemoria  per tutti coloro che domenica 4 dicembre si recheranno alla urne per esprimere il loro voto sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi. E’ bene sapere che questa riforma trae origine dalle ‘riflessioni’ del Gran Maestro venerabile della Loggia P2, Licio Gelli, scomparso un anno fa. Come potete leggere qui di seguito, quasi tutti gli ‘obiettivi’ che i piduisti si prefiggevano di raggiungere si ritrovano nella riforma costituzionale del Governo Renzi
di Ignazio Coppola
Una riforma costituzionale che ci fa andare indietro nel tempo di 40 anni. E’ infatti datata 1976 quando fu scoperto il “Piano di Rinascita democratica”,detto anche programma di Rinascita Nazionale del piduista Licio Gelli che consisteva in un assorbimento degli apparati democratici della società italiana dentro le spire di un autoritarismo legale i cui obbiettivi essenziali consistevano in una serie di riforme e modifiche costituzionali. Il piano di Gelli si prefiggeva lo scopo di “rivitalizzare”ed “addomesticare” il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati e agli stessi cittadini elettori. Programmi a medio e a lungo termine che prevedevano, in premessa, il ritocco della Costituzione, con precisi obbiettivi di modifica degli assetti istituzionali
In un ‘intervista sul Corriere della Sera del 5 ottobre 1980, Licio Gelli Gran Maestro venerabile della loggia P2, che fu definita dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini un’associazione a delinquere, esponeva all’intervistatore Maurizio Costanzo il suo programma contenuto nel Piano di Rinascita Democratica che consisteva in alcuni punti fondamentali:
1) Il controllo dei politici (nominati e non eletti), dei partiti, delle televisioni e degli organi di informazione;
2) ridimensionamento dei sindacati;
3) privatizzazione di tutti gli enti pubblici;
4) mutamento della Repubblica in senso presidenziale;
5) accentramento dei poteri nelle mani di pochi in un regime governo-centrico a discapito delle autonomie locali (che oggi   con la riforma Renzi-Boschi troverebbe riscontro nella clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni).
Un articolato programma, quello del Piano di Rinascita democratica di Gelli, che prevedeva una svolta di stampo autoritario da imporre al Paese attraverso opportuni interventi sui principali settori della vita pubblica italiana: Parlamento, Governo, partiti politici, magistratura, informazione, sindacati.
Interventi da portare avanti non dall’esterno, in modo violento, ma dall’interno, attraverso la scalata ai vertici del mondo politico, istituzionale e dell’informazione.
Mancava l’ultima parte al disegno gelliano: quello per il raggiungimento di questi obbiettivi, finalizzato allo stravolgimento della Costituzione (oggi riforma Renzi-Boschi) e del sistema elettorale (oggi Italicum).
Dove non è riuscito Silvio Berlusconi (tessera della P2 n. 1819), troppo distratto dai bagordi e dalle cene di Arcore, ha pensato, sotto l’abile e “sapiente” regia del presidente emerito Giorgio Napolitano, a tappe forzate con il suo Governo, Matteo Renzi.
E’ di questo Governo, infatti, l’abolizione dell’art. 18; è di questo Governo l’ultimo attacco all’unità sindacale; è di questo Governo la riforma per l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati; è di questo Governo la pericolosa riforma costituzionale per rovesciare, con il “combinato disposto” con l’Italicum (legge che si può considerare la fotocopia della legge Acerbo del 1923 che fu l’anticamera del fascismo), la centralità del Parlamento a favore di un premierato forte, con un’enorme concentrazione di potere nella mani dell’esecutivo e del suo “capo”.
Un uomo solo al comando, con tutti i rischi che per la democrazia questo ovviamente comporta. Così da far dire al giudice Nino di Matteo, lo scorso 22 ottobre, a proposito delle riforma Renzi- Boschi:
“Questa riforma ha un solo obbiettivo, quello voluto dallo stesso Licio Gelli nel piano di Rinascita democratica della P2 e dai successivi governi, ossia quello di favorire il potere esecutivo a scapito del potere legislativo e giudiziario, trasformando così la democrazia in una sorta di dittatura dolce, fondata non sulla sovranità popolare, ma sul potere oligarchico che obbedisce solo alle leggi della finanza e dell’economia internazionale”.
Dalla democrazia all’oligarchia il passo è breve. Al giudice Di Matteo ha fatto poi eco il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, magistrato, esponente dello stesso partito di Renzi, il PD. Emiliano ha definito la riforma sottoposta a referendum un “attacco alla Costituzione”.
Questi sono importanti elementi di riflessione per gli elettori che, domenica prossima 4 dicembre, andranno a votare: soprattutto se pensano di votare sì.
Detto questo, se il sì dovesse vincere sorgerebbe, per Matteo Renzi, un altro costoso problema: ossia quello di pagare agli eredi di Licio Gelli, che legittimamente li rivendicherebbero, i diritti d’autore della riforma costituzionale di cui il loro congiunto era stato, a suo tempo, l’ideatore con il suo piano di Rinascita democratica ed ora riproposto agli italiani dal duo Renzi-Boschi.