martedì 6 ottobre 2009

Dell’Utri, un nome da non nominare invano

ATTUALITA' Dell'Utri, l'innominato che faceva paura ieri come oggi, ma spesso presente: nelle intercettazioni mafiose, nelle testimonianze di chi poi è stato freddato, ed ora, anche nel caso Ciancimino.

«Io quello che ti voglio dire pure a te il nome di là non lo dobbiamo nominare».
«Quale… è?». «Dell’Utri… capisti? Completamente non deve esistere, non deve esistere Ni’» (Intercettazione del 4 novembre 2007 tra i mafiosi Antonino Caruso e Letterio Ruvolo). Un nome che non si deve pronunciare nemmeno per sbaglio. Troppo alto il rischio di essere intercettati e di “mascariare” colui che considerano il loro referente più importante, colui che potrebbe aiutarli a risolvere i problemi. Quello di Dell’Utri però è un nome che fa anche paura allora come oggi. Un giorno del 1994, tra l’aprile e maggio all’incirca, il colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, allora in forza al Ros, si era incontrato con il suo confidente: Luigi Ilardo. Era il reggente della famiglia di Caltanissetta e da infiltrato avrebbe dovuto portare gli inquirenti alla cattura di Bernardo Provenzano già in quegli anni. Ilardo dal suo ruolo di vertice poteva comunicare direttamente, via pizzini, con il capo di Cosa nostra ed era al corrente dei molti segreti e delle strategie messe in atto per riportare in equilibrio l’organizzazione dopo l’arresto di Riina. Parlando con il colonnello che raccoglieva e registrava le sue confidenze, e grazie alle quali aveva fatto arrestare numerosi latitanti di primo piano dell’epoca, Ilardo gli raccontò di una riunione di capi in cui si era deciso di abbandonare il progetto di un partito proprio delle cosche “Sicilia Libera” (ideato da Bagarella e gestito da Tullio Cannella per suo ordine, ndr) perché Provenzano si era incontrato con un esponente dell’entourage di Berlusconi e che quindi da quel momento in poi si sarebbe dovuto votare e sostenere Forza Italia. Quel nome Ilardo non lo fece subito. Diceva sempre che ne avrebbe parlato al momento giusto. Tuttavia qualche tempo dopo era uscito su un giornale un articolo riguardante i contrasti tra Dell’Utri e Rapisarda, e Riccio ricordandosi di quel discorso gli chiese spiegazioni. «È questo?», gli domandò indicando il giornale. «Ci ha messo tanto… se lo sai, colonnello, che me lo chiedi a fare?». Riccio non incluse questo dato nella sua abituale relazione di servizio e si limitò a segnarlo sulla sua agenda. Solo nel 1998, due anni dopo che Ilardo venne freddato per strada a Catania. a una settimana esatta dall’incontro con i magistrati di Palermo (Caselli e Principato, ndr) e Caltanissetta (Tinebra) a cui aveva dichiarato di volere formalmente collaborare con la giustizia, quel nome riemerge. Le agende di Riccio vengono infatti acquisite dai magistrati di Firenze, Chelazzi e Nicolosi, che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi e gliene chiedono conto. La settimana scorsa durante un’udienza del processo in corso a Palermo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu per la mancata cattura di Provenzano proprio a seguito delle precise indicazioni di Ilardo, il presidente del Tribunale ha chiesto a Riccio perché non aveva subito fatto il nome di Dell’Utri. Il colonnello, pluridecorato per le sue pericolose azioni antiterrorismo, ha risposto: «Per timore. Dell’Utri era il nuovo che avanzava ». E ancora meno ne aveva fatto menzione al suo superiore Mori, perché a suo dire gli aveva già «dato disposizioni di non riferire i contatti politici; se gli dico di Dell’Utri, qui succede il finimondo». Circostanza che Mori nega seccamente.

Vero e proprio terrore ha colto invece Massimo Ciancimino, l’ultimo figlio di don Vito, testimone diretto della trattativa. Durante uno dei tanti interrogatori cui lo sta sottoponendo la procura di Palermo è andato nel panico quando i magistrati gli hanno mostrato metà di una lettera indirizzata a Berlusconi nella quale si “chiedeva” all’onorevole la disponibilità di una delle sue reti televisive, pena uno spiacevole evento. Scioccato per quel ritrovamento che non si aspettava, Ciancimino ha cercato di fornire una falsa ricostruzione per poi rettificarla il giorno seguente: «Io ho paura. Quando si tratta di Berlusconi e Dell’Utri, io ho paura. Questo è un gioco molto più grande di me».

E nonostante a verbale sia evidente il tentativo di Ciancimino di ricostruire lo scenario, al processo d’appello per mafia contro il senatore Dell’Utri il presidente del tribunale non ha concesso di ascoltarlo. Aggiungendo un altro tassello alle occasioni mancate che hanno caratterizzato questo secondo grado. Il timore per l’accusa è che il clima poco rassicurante influenzi la Corte mentre la Procura generale sta confermando la prima tesi di condanna: Dell’Utri aveva chiamato Mangano a casa Berlusconi con l’imprimatur del più alto vertice di Cosa nostra. La sentenza è attesa entro dicembre.

http://www.terranews.it/news/2009/10/dell%E2%80%99utri-un-nome-da-non-nominare-invano

lunedì 5 ottobre 2009

Le contestazioni dei messinesi a Berlusconi.



Messina contesta Berlusconi - quello che non vedrete mai nella TV di regime.

IL FATTO di ENZO




A 82 anni, ormai, la mia vita se n’è andata, ma posso considerarmi fortunato perché ho fatto un lavoro che ho sempre amato e per il quale sono anche stato pagato. Inoltre questa professione è un po’ c ome un acquedotto che deve portare nelle case acqua potabile.


C’è chi la porta più o meno frizzante, ma sempre potabile deve essere.

Ultima puntata de Il fatto, 31 maggio 2002


Da: "il Fatto quotidiano" di domenica 4 ottobre 2009, pag. 16.

Lodo, le ragioni per dire no


La sospensione dei processi per i reati comuni, deroga al «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» di fronte al quale non può prevalere l’esigenza di tutelare il «sereno svolgimento» delle funzioni pubbliche.

di Lorenza Carlassare.

E’ vero che «bocciato un lodo Alfano se ne approva un altro, modificato, e lo si manda immediatamente in vigore», come scrive Vittorio Feltri su il Giornale del 14 settembre? Se
così fosse, la Costituzione e le istituzioni di garanzia non sarebbero che un’inutile farsa e
l’ordinamento intero un vuoto castello di carte smontabile a piacere. A piacere della maggioranza, s’intende, proprio il contrario di ciò che esige il costituzionalismo, il cui obiettivo è porre limiti al pote re .
Nessuno, credo, potrebbe pensarlo, anche se è già successo: dichiarata incostituzionale la legge Schifani nel 2004, nel 2008 è stata approvata la legge Alfano sulla quale ora la Corte costituzionale è chiamata a decidere.

Nell’ipotesi, a mio avviso certa, che sia dichiarata illegittima, il governo e la sua maggioranza
potrebbero tentare per la terza volta?
Bisogna rispondere con fermezza che la riapprovazione di una norma dichiarata illegittima non è consentita: e dunque, se la Corte costituzionale pronunciandosi sulla legge Alfano menzionasse fra gli altri anche questo motivo, il Presidente della Repubblica potrebbe, senza incertezze, non promulgare.
Dove sta il problema? Il governo potrebbe sostenere che la legge è «diversa» dalla precedente,
come già ora sostiene in giudizio e fuori: il ministro La Russa lo ha ribadito con vigore il 30 settembre a Linea notte affermando che la legge Alfano è stata costruita tenendo conto di tutti i rilievi mossi al precedente «lodo» nella sentenza n. 24 del 2004.

Anche se puntuali rilievi sono stati ignorati - in particolare che la posizione di chi presiede il Consiglio dei ministri e le Camere non può essere differenziata da quella degli altri membri
del collegio - qualche differenza c’è.

Le Alte cariche tutelate non sono più cinque, ma quattro.
Ne è escluso il Presidente della Corte costituzionale essendo stato dichiarato illegittimo
«accomunare in un’unica disciplina cariche diverse (…) per la natura delle funzioni».
Inoltre, ora, è possibile rinunciare al «privilegio».

Resta però immutato il vizio di fondo.
L a sospensione dei processi per i reati comuni, anche precedenti all’assunzione della carica, deroga al «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione» di fronte al quale non può prevalere l’esigenza di tutelare il «sereno svolgimento» delle funzioni pubbliche (con cui lo
si giustifica).

Quell’e s i ge n z a , «pur apprezzabile», si scontra infatti con valori fondamentali di superiore livello: il principio della parità di trattamento di fronte alla giurisdizione è alle «origini della formazione dello Stato di diritto» (sent. n. 24).
La continuità fra le due leggi è chiara: di «sereno svolgimento» delle funzioni si parla nella relazione del ministro Alfano alla legge del 2008, così come se ne parlava nel 2003, e viene invocata ancora a difesa della legge.
La debolezza dell’argomento, già respinto dalla Corte, ha indotto a richiamarsi anche al diritto di difesa (art. 24 Cost.): la sospensione dei processi disposta per la durata del mandato corrisponde
al «periodo di tempo che il legislatore ha ritenuto sufficiente per consentire alla persona che riveste l’alta carica di organizzarsi per affrontare, contemporaneamente, gli impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale», si legge nella memoria dell’Avvocatura dello Stato a difesa del presidente del Consiglio.

Ma ad evitare che chi ricopre un’alta carica sia «distolto dai suoi compiti di governo dalle necessità di difesa in sede penale» basta concordare il calendario delle udienze: «il vero è che l’ef fettiva ed esclusiva finalità perseguita dalla legge Alfano non è tanto quella di consentire all’onorevole Berlusconi di organizzare le proprie difese, ma di consentirgli di difendersi
sia “dal processo” per frode fiscale sia “dal processo” per corruzione in atti giudiziari».
Questo si legge nella memoria della procura di Milano (difesa dal professor Alessandro Pace)
dove si ricorda che, come la legge precedente, la legge Alfano fu voluta dallo stesso
Berlusconi per ritardare la celebrazione di processi penali a suo carico: la legge Schifani
«mirava a ritardare la celebrazione del processo Sme, la legge Alfano altrettanto chiaramente
mirava – e mira – a ritardare la celebrazione di almeno due altri processi a carico di Silvio Berlusconi pendenti dinanzi al Tribunale di Milano». E precisamente: il processo nel quale, oltre a Berlusconi, sono coinvolti Frank Agrama ed altri, per il reato di frode fiscale; e il processo nel
quale, oltre a Berlusconi, è coinvolto Donald David Mills per il reato di corruzione in atti giudiziari.

Con riferimento a quest’ultimo – sottolinea la stessa memoria – il secondo «lodo» ha comunque raggiunto l’obiettivo: quello di evitare che Berlusconi fosse giudicato contemporaneamente all’imputato Mills.
L ascia infine perplessi l’argomento dell’Av vo c a t u ra che «qualunque sia il reato contestato, attinente o estraneo alle funzioni pubbliche, è la pendenza del giudizio a far sorgere il problema». Che un presidente sia accusato di un reato grave e infamante, non fa già «sorgere il problema»?

I mezzi di comunicazione, dai quali «le notizie sono presentate nelle forme che suscitano maggiormente la curiosità del pubblico, utilizzando formule suggestive», sono già messi in moto dalle accuse anche se il processo non si celebra.
La «sospensione» non serve al sereno esercizio delle funzioni.
Tanto è vero che nella sentenza n. 24 il lodo Schifani era giudicato contrario al diritto di difesa anche perché non prevedeva la rinuncia dell’accusato alla sospensione «per ottenere l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole».
Per chi ricopre un’alta carica sarebbe conveniente affrettare i tempi del processo, dimostrare
la propria innocenza ed esercitare la funzione finalmente «sereno». Sempre, s’intende, che innocente lo sia davvero.


Da: "il Fatto Quotidiano" di domenica 4 ottobre, pag. 16.

Ci sono voluti..........


........millenni per ritornare al punto di partenza!


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domenica 4 ottobre 2009

Scudo fiscale, le giustificazioni del Pd



Non gli avevano spiegato bene che era un voto importante.......
Chissà in quale mondo vive!

Trentadue deputati sono responsabili di fronte ai loro elettori, e più in generale di fronte alla Nazione, di alto tradimento.

Che si tratti di tradimento della fiducia di chi li ha votati è indiscutibile.

E che sia alto pure.

Alla Camera, con il voto di fiducia sullo Scudo Fiscale potevano evitare il rientro di 300 miliardi di capitali mafiosi o sottratti al fisco e far CADERE il Governo.

Bastavano 20 voti.

Non lo hanno fatto.

Non erano in aula.

Dove si trovavano?

Io vorrei saperlo e anche voi.

Oggi parte il concorso: "Dove eravate, 32 dipendenti infedeli?".

Datemi una mano. Il blog terrà traccia delle vostre segnalazioni e le riporterà nei prossimi giorni (se corrette) con il vostro nome o nick.

Ecco l'elenco: 24 PDmenoelle: Argentin, Binetti, Bucchino, Capodicasa, Carra, Codurelli, D'Antoni, Esposito, Farina, Fioroni, Gaione, Ginefra, Giovanelli, Grassi, La Forgia, Lanzillotta, Madia, Mastromauro, Melandri, Misiani, Pistelli, Pompili, Porta, Portas.

7 UDC: Bosi, Ciccanti, Drago, Libè, Pisacane, Ruggeri, Volontè.

1 IDV: Misiti

(elenco da: Il Fatto Quotidiano 3/10/09).

Dal blog di Beppe Grillo: http://www.beppegrillo.it/2009/10/dove_eravate_32_dipendenti_infedeli.html