lunedì 18 gennaio 2010

Come evitare processi per mafia - Marco Travaglio

Come ogni assoluzione eccellente, anche quella di Calogero Mannino, arrestato 15 anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa, ha scatenato la solita grandinata di luoghi comuni, falsità e scemenze assortite. Non si sa se dovute a ignoranza o a malafede (o forse a entrambe, visto che vengono dagli stessi che accettano solo le sentenze di assoluzione, infatti stanno beatificando il pregiudicato Craxi).

1) "Mannino non andava nemmeno processato: è stata una persecuzione politica della Procura di
Caselli". In realtà la procura s’è sempre limitata a chiedere. Mannino fu arrestato da un gip e i ricorsi dei difensori furono respinti dal Riesame (3 giudici) e dalla Cassazione a sezioni unite (9 giudici); poi – consulenze medico-legali alla mano – il Tribunale di Palermo (3 giudici) respinse la richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Furono proprio i pm a farlo liberare anzitempo. Poi fu assolto con formula dubitativa in tribunale, condannato a 5 anni e 4 mesi in appello, sentenza annullata dalla Cassazione che però ritenne giusto riprocessarlo in appello, dove fu assolto sempre con formula dubitativa, sentenza confermata definitivamente l’altro giorno. Quindi una dozzina di giudici hanno stabilito che era giusto processarlo.

2) "E’ stato un errore giudiziario e ora bisogna riformare la giustizia tagliando le mani ai pm e votando il ‘processo breve’, visto che la durata del processo è colpa dei pm". Il processo è durato così a lungo perché l’Italia è l’unico paese al mondo con tre gradi di giudizio automatici che spesso, come in questo caso, diventano cinque. Ma anche perché la giustizia è senza uomini né mezzi. E, in questo caso, anche a causa della legge
Pecorella, che abolì l’appello del pm paralizzando il processo finché la Consulta non la cancellò.

In ogni caso non tutte le assoluzioni significano che l’imputato è stato processato per errore. Per capire se lo è stato, bisogna leggere le motivazioni. Qui anche i giudici che hanno assolto Mannino hanno ritenuto provati molti dei fatti contestati dall’accusa: un pranzo con un gruppo di ufficiali medici e con due boss; la partecipazione alle nozze fra
Maria Silvana Parisi e Gerlando Caruana, figlio di Leonardo, boss di Siculiana; i rapporti con gli esattori mafiosi Nino e Ignazio Salvo, ai quali Mannino – da assessore regionale alle Finanze – concesse in gestione l’esattoria di Siracusa; gli incontri in casa sua con il boss Antonio Vella e con Gioacchino Pennino, medico palermitano di Brancaccio, esponente della Dc cianciminiana, discendente di una famiglia mafiosa, amico dei boss Giuseppe Di Maggio, Totò Greco e i fratelli Graviano, per chiedere e ottenere voti.

"È acquisita la prova – scrive il tribunale che lo assolse – che nel 1980-81 Mannino aveva stipulato un accordo elettorale con un esponente della famiglia agrigentina diCosa Nostra, Antonio Vella", e poi con altri boss.

Il "patto elettorale ferreo, avallato dall’intervento di un mafioso come Vella…costituisce una chiave interpretativa della sua personalità e consente di invalidare buona parte del capitolato difensivo, volto a rappresentare Mannino come un politico immune da contaminazioni coscienti con ambienti mafiosi o addirittura vittima di chissà quali complotti".

La questione controversa, valutata diversamente nei vari gradi di giudizio, non sono i rapporti e gli accordi coi mafiosi: è la “controprestazione” fornita da Mannino aCosa Nostra, il do ut des necessario per innescare il concorso esterno. Per i giudici del primo appello, i favori alla mafia sono provati; per il secondo appello e la seconda Cassazione, non abbastanza. Certo, è seccante restare sotto processo per tanti anni. Ma c’è un sistema infallibile per non essere accusati di mafia: non incontrare mafiosi, non andare a cena con loro né ai loro matrimoni e soprattutto non stipulare con loro “patti elettorali ferrei”. E’ dura, ma ce la si può fare.

Da Il Fatto Quotidiano del 17 gennaio

domenica 17 gennaio 2010

I consigli dalla latitanza di Craxi a Berlusconi




Un fax di tre pagine inviato all’amico Silvio fitto di consigli: dal "non ti fidare di Fini" ad "attacca l’ex pm di Mani Pulite"

di Leo Sisti




Raccontano le cronache politiche che il pranzo di giovedì tra
Silvio Berlusconi eGianfranco Fini si è concluso con una “tregua armata”. Cioè, per uno come il premier, abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno, male.
Eppure doveva saperlo che l’attuale presidente della Camera è un osso duro. Glielo aveva preconizzato, fin dal ‘95, Bettino Craxi, di cui martedì 19 gennaio ricorre il decennale della morte.

"Diffida di Fini", gli intimava l’ex segretario socialista, latitante ad Hammamet, in Tunisia. E lo aveva raccontato, nero su bianco, in tre paginette, trovate dallaDigos, durante un sequestro di documenti ordinato dal sostituto procuratore diMani Pulite Paolo Ielo, pm nell’inchiesta sulle tangenti alla Metropolitana milanese. Era il 7 luglio di 15 anni fa e da un archivio di via Boezio a Roma, sede della Giovine Italia, creatura socialista guidata da Luca Josi, craxiano di ferro, ecco spuntare, in mezzo a tanti scatoloni lì ammucchiati, ricchi di documenti storici del Psi, le "riflessioni" di Bettino.

Sono i consigli di un anziano e navigato leader a Berlusconi su come farsi largo nelle acque torbide della politica: gli suggerisce infatti di non "imperniare lo sviluppo politico sullo stretto binomio Berlusconi-Fini, che ha perso prima ancora di incominciare. Fini perde poco, perché si può accontentare che lo salutino. Berlusconi perde".

Nel "decalogo" Bettino scrive che Forza Italia "deve riacquistare la sua autonomia e non risultare subalterna alle esigenze di alleati infidi e ipocriti...deve riassumere il ruolo di una forza di centro, in grado di dialogare a destra e a sinistra". È la versione anticipata dell’inciucio. Craxi cita la Fininvest come protagonista di "un sistema inquinato dell’informazione politica". Raccomanda all’amico neofita alcune mosse che verranno in seguito, in parte, eseguite. Lo incita a essere intransigente ed aggressivo (contro
Massimo D’Alema e il Pci-Pds), controAntonio Di Pietro e il pool di Mani Pulite, richiedendo a gran voce una serie di inchieste parlamentari sui più svariati argomenti. Lo invita a puntare sul "rinnovamento" in un’edizione anticipata del "partito dell’amore".

La stesura dei "consigli" da Hammamet risale a giugno ‘95, all’epoca del governo di
Lamberto Dini, dopo la caduta del "Berlusconi 1". Lo si capisce dalle prime righe della nota: "La scappellata resa da Dell’Utri appena scarcerato è irresponsabile e suicida. È l’inchino degli sconfitti". Marcello Dell’Utri, storico braccio destro di Berlusconi, era stato arrestato il 26 maggio di quell’anno per le fatture false di Publitalia e liberato il 16 giugno, cinque giorni dopo il referendum, tra l’altro, su libertà di spot in tv, favorevole al Cavaliere di Arcore. Il quale, euforico per la vittoria, si proponeva di andare a festeggiare al carcere di Ivrea, sotto la cella di Dell’Utri, ancora, sia pure per pochi giorni, detenuto.

Craxi concorda: "Superato nel modo migliore il referendum". Ma se la prende con lo stesso Dell’Utri ("la scappellata"), perché, appena uscito dalla galera, elogia pubblicamente D’Alema ("È il politico maggiormente disponibile e responsabile, ha capito che l’urto frontale danneggia il solo paese").

D’Alema, lui, il nemico giurato di Bettino, così dipinto: "Il Pci-Pds è il partito che aveva più risorse e più finanziamenti illegali. Finanziato dall’interno e dall’estero. Oggi è in cattedra dando lezioni di moralizzazione. Negli ultimi anni il responsabile politico anche dell’amministrazione era D’Alema. Ora che su tutto questo non si è aperto un fronte è completamente assurdo".

La storia dimostrerà che, almeno da questo punto di vista, le cose sono andate diversamente. Perché i due, Berlusconi e D’Alema, dialogheranno insieme nella famosa Commissione bicamerale, guidata proprio da "Max" e istituita nel ‘97. Che avrebbe dovuto partorire le riforme istituzionali. E invece è stata un fallimento. Ma, Bicamerale a parte, Silvio seguirà le lezioni di Hammamet.

Come quando Bettino auspicava: "Per continuare a fare politica, occorre una linea e una squadra di combattimento". Obiettivo, i pm, ad esempio: "Il caso Di Pietro deve diventare un simbolo. Bisogna andare a fondo, giacché ne esistono tutte le condizioni". Di Pietro e i suoi "traffici che sono tanti", un escamotage utile per consentire di "avviare un campagna a vasto raggio". E ancora, nel mirino, il poolmilanese, che ha "usato strumentalmente il potere giudiziario, approfittato di determinate circostanze, violato leggi, principi costituzionali, trattati internazionali".

Infine l'ultimo appello a Silvio. Fare inchieste parlamentari su tutto: sui suicidi diTangentopoli, sulle intercettazioni telefoniche, sui finanziamenti di certe campagne elettorali dal ‘92, sui rapporti tra l’onorevole
Luciano Violante e la magistratura. Craxi dixit. E il discepolo si adeguò.

Da Il Fatto Quotidiano del 16 gennaio



venerdì 15 gennaio 2010

I misteri del Sacro Volto

Da Il Fatto Quotidiano del 10 Gennaio 2010

In vista dell’imminente ostensione della Sacra Sindone, proseguono gli studi degli specialisti venuti da tutto il mondo sul sacro volto del Divino Amore finalmente liberato dalle bende dopo tre settimane di indicibili sofferenze infertegli dal Partito dell’Odio. Il viso dell’uomo, dall’apparente età di 73 anni, si presenta liscio come il culetto di un neonato, privo di cicatrici e di qualsiasi altro vestigio dell’indicibile violenza subita durante il martirio in piazza Duomo. La circostanza ha scatenato la fantasia dei soliti complottisti negazionisti che, a furia di vederlo finto e rifatto e di sentirlo mentire, non credono nemmeno alle poche cose vere che lo riguardano. Così, su Internet, è tutto un fiorire di ipotesi di autoattentato e di attentato fasullo. Ipotesi che respingiamo in radice, anche perché, se di complotto si fosse trattato, il Tartaglia sarebbe risultato abbonato al Fatto e all’Espresso e nelle sua tasche sarebbero stati rinvenuti un autografo di Santoro, un dvd di Grillo e una tessera dell’Italia dei Valori.

Resta il mistero di quelle guanciotte paffute e intonse. Tre le possibili spiegazioni.1) I danni inferti al Sacro Volto dal lancio del piccolo Duomo erano fortunatamente molto meno gravi di quelli descritti da battaglioni di medici, infermieri e badanti al seguito: una botta al naso senza fratture, un graffio alla guancia e un paio di denti rotti, peraltro non originali. 2) Durante la breve degenza al San Raffaele, lo staff sanitario ha provveduto a un trapianto cutaneo integrale, grazie a massicci prelievi di pelle da un ignaro donatore neonato, che ora si ritrova il sederino tutto rugoso e tagliuzzato, tipo mela renetta. 3) Don Verzè ha fatto il miracolo, rimarginando ogni ferita con la sola imposizione delle mani sull’illustre infermo, già da lui definito “dono della Provvidenza all’Italia”.

Resta da capire la spropositata prognosi di 90 giorni per un soggetto che dopo due settimane già zampettava giulivo tra la Brianza e il Sud della Francia, agghindato come un agente nano della polizia segreta dell’amico Putin. Ma qui una spiegazione c’è: le prognosi sono due. Una, quella mignon, a uso della politica, per consentire al Divino Amore di tornare a far danni fin da domani senza incorrere nei fulmini di Brunetta, noto cacciatore di malati immaginari. L’altra, quella extra-large, è a uso del Tribunale di Milano, dove il Cavaliere risulterà legittimamente impedito a presenziare alle udienze dei processi Mills e Mediaset per altri due mesi abbondanti, cioè finchè non sarà legge il legittimo impedimento gentilmente offerto dal feroce oppositore Piercasinando.

Gli studi sul Sacro Volto comunque proseguono nelle migliori università del pianeta, dove il premier italiano è usato come cavia umana per avanzatissime lezioni di scienze naturali. Un vivace dibattito fra gli esperti si sta sviluppando a proposito del misterioso avvallamento riscontrato nel centro della fronte, decisamente incompatibile con le conseguenze del vile attentato. Secondo alcuni luminari, lì fu impiantato il tirante di un precedente lifting, poi coperto alla bell’e meglio con un po’ di stucco che l’impatto di piazza Duomo ha fatto saltare. Ma alcuni geologi e speleologi che l’hanno in cura attribuiscono la fossetta frontale a un residuo delle trivellazioni che gli vengono praticate a scopo di carotaggio esplorativo, per stabilire l’esatto spessore dei vari strati di cerone accumulatisi negli anni e ormai calcificati, dunque impossibili da rimuovere. Anche perché un’asportazione non controllata potrebbe portare alla fuoriuscita di petrolio e fossili quali alghe, conchiglie e pesci pietrificati, ma anche grembiulini mesozoici, scheletri di stallieri e mazzette marmorizzate. Per la datazione delle varie stratificazioni è in corso in alcuni laboratori internazionali l’esame al Carbonio-14, anche per dissipare certe voci malevole: alcune sostengono addirittura che il premier sia un falso di epoca medievale.


http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/

"Dell'Utri trattò dopo mio padre"

Dalle carte di Ciancimino jr nuove accuse: «Favorì l’accordo fra Stato e mafia»

FRANCESCO LA LICATA
ROMA

Ci furono diverse fasi della «trattativa» fra Stato e mafia. Una iniziale, condotta da Vito Ciancimino che «parlava» a distanza con Totò Riina, attraverso il contatto del medico-boss Nino Cinà.

In questa delicata operazione l’ex sindaco di Palermo veniva «assistito» da due consiglieri d’eccezione: l’amico Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, e il misterioso «signor Franco», uomo dei servizi che non si perdeva una sola tappa di quella inquietante vicenda. Poi la «trattativa» cambiò connotazione e personaggi, fino a giungere alla fase finale, caratterizzata dalla cattura del capo di Cosa nostra, Totò Riina, e dalla comparsa di un nuovo «mediatore» che Massimo Ciancimino - teste della Procura di Palermo - identifica nel senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.

Questa la sintesi della montagna di carte depositate ieri nel processo sulla cosiddetta «mancata cattura di Provenzano», che vede imputati il generale Mori («non perquisì il covo di Riina per un precedente accordo con mio padre») e il colonnello Obinu. Ma non è, la «trattativa», il solo argomento trattato nei ventinove interrogatori confluiti nel dibattimento. Massimo Ciancimino, che alla fine di dicembre ha goduto di uno sconto di pena nel processo d’appello che lo vede imputato di riciclaggio, ha parlato di tangenti, di politici ed ha offerto anche una rilettura di alcuni dei grandi misteri del passato.

Ciò che colpisce di più, scorrendo le sue deposizioni, è il racconto della decennale frequentazione del padre con Bernardo Provenzano e col fantomatico «sig. Franco», di cui sostiene di non sapere l’identità ma che riconoscerebbe, se glielo mostrassero. Il famigerato «Papello» di Totò Riina, con le richieste che la mafia avanzava allo Stato per far cessare le stragi, dopo l’attentato di Capaci, Vito Ciancimino lo ricevette direttamente dall’emissario Cinà, ma immediatamente lo sottopose a Provenzano e a Franco, presenti anche quando si preparava una controproposta più accettabile della lista di Cosa nostra che lo stesso Provenzano riteneva «irricevibile» per l’enormità delle pretese.

E poi c’è la spiegazione della corrispondenza fra Provenzano e Vito Ciancimino, portata avanti con il collaudato sistema dei «pizzini» che Massimo riceveva spesso dalle mani del boss corleonese, quando il padre e l’amico latitante non riuscivano a incontrarsi per intuibili impedimenti. Chi è il «sen.» indicato su uno degli ultimi bigliettini recapitati a don Vito? Massimo, all’inizio cerca di svicolare, chiede addirittura se si può avvalere della facoltà di non rispondere, poi, costretto, dice: «E’ il sen. Dell’Utri, me lo ha detto mio padre. L’unico, secondo lui, in grado di scavalcarlo nella gestione della trattativa». E a Dell’Utri, secondo Ciancimino jr., era indirizzata la lettera minacciosa con la quale si chiedeva a Berlusconi di «mettere a disposizione una rete televisiva».

Una richiesta, «di amici di Provenzano di avere spazio, di voler dire la loro». E perché? Perché il «destinatario finale era irriconoscente, si stava scordando di certe situazioni». Il destinatario chi? «Il dott. Berlusconi». In quel pizzino si parla anche del «nuovo presidente» - secondo Massimo Ciancimino -, l’ex governatore Cuffaro in qualche modo impegnato attraverso il suo partito a «spingere» per l’amnistia, nel pizzino di Provenzano a don Vito definita «la sua sofferenza». Un lavoro politico corale rivolto a sostenere leggi favorevoli alla mafia, di cui Provenzano sembra essere addirittura il regista capace di mobilitare forze, sempre a sentire la versione del giovane Ciancimino.

Anche sull’origine dell’imprenditore Berlusconi il teste dà una versione che si intuisce faccia riferimento a soldi della mafia (Stefano Bontade ed altri) confluiti a Milano, nella seconda metà degli Anni Settanta. Ma la deposizione è interrotta da un corposo omissis. E le tangenti ai politici? Si parla di somme «consegnate da Romano Tronci all’onorevole Enrico La Loggia» (ex ministro di Forza Italia, ndr) e di 250.000 euro «personalmente consegnate al senatore Carlo Vizzini», che ha querelato Massimo Ciancimino, spiegando che quella cifra era il risultato di un precedente investimento nell’azienda del Gas del prof. Lapis. In chiusura, gli antichi misteri: Mattarella ucciso per un non meglio precisato scambio di favori tra terroristi e boss mafiosi, come spiegarono a Vito Ciancimino i soliti Provenzano e Franco.

E poi la mafia «mobilitata» «attraverso mio padre» a intervenire per «non fare liberare Aldo Moro», come da input dei vertici della Democrazia cristiana. Ma la novità più sorprendente riguarda il mistero dell’aereo caduto a Ustica. Ricorda Massimo: «Mio padre fu mobilitato dal ministro Ruffini e dai servizi e la tragedia fu motivata con un errore dell’aviazione francese che abbattè il Dc9 per errore».


http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201001articoli/51197girata.asp

martedì 12 gennaio 2010

Così è se vi pare.

Ladro è chi ruba, non ha importanza se ruba pochino o moltissimo.

Ladri eravamo anche noi quando rubavamo gli spiccioli dalla borsetta di mamma o dalla tasca di papà, lo eravamo quando rubavamo i biscotti o le caramelle che la nonna teneva nascosti nella dispensa e ci elargiva con parsimonia.

Lo facevamo senza timore perchè sapevamo che al massimo avremmo subito una punizione, sempre che se ne accorgessero.
Ma anche questi piccoli furti ci facevano star male: ci facevano sentire dei ladri.

E se non ci avessero mai puniti, o rimproverati aspramente facendoci sentire miserabili, noi avremmo continuato a fare i furbetti anche al di fuori del nucleo familiare.

L'etica e la morale, come ci hanno insegnato, erano le linee di condotta che non avremmo dovuto mai oltrepassare se avessimo voluto mantenere un contegno da persone rispettabili.

Con il pasare del tempo, però, abbiamo assistito a distorsioni di queste linee che pur se immaginarie, erano e dovevano restare ferree.

L'etica e la morale si sono modificate, come un elastico che si allarga e non ha confini delineati e definiti.

Rubare è divenuto naturale; è intelligente chi ruba, specie se lo fa copiosamente, leggi e de-(cretini) approvati dai ladri in parlamento hanno reso il furto poco punibile, quasi accettabile.

Le povere "etica" e "morale" sono state dichiarate obsolete in virtù di una predominante pressione: la mercificazione dei voti di scambio.

L'etica e la morale sono state sacrificate alla smania di potere e di opulenza.

Intestare una strada a Bettino Craxi? Un segno di distinzione per chi lo ha proposto, un merito per chi lo appoggia.

Ci stanno mandando un segnale: "così è se vi pare"!

Noi contiamo nulla, loro, con i nostri soldi, contano e fanno quello che gli pare e piace.

giovedì 7 gennaio 2010

Miracolo!


Il miracolato di Arcore a 24 giorni dall'aggressione.
Sarà merito del cerone?






http://www.corriere.it/gallery/politica/01-2010/berlusca_provenza/1/berlusconi-senza-piu-cerotti_2a1062aa-fbaf-11de-a955-00144f02aabe.shtml#16