lunedì 12 aprile 2010

Il lato oscuro di Madre Teresa: l'amore che non c'era


Amici miei atto IV - 10 aprile 2010, in MARCO TRAVAGLIO

da Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2010

La notizia non è che il ministro Roberto
Calderoli sia salito al Quirinale. E’ che l’abbiano fatto entrare. Il capo dello Stato ha addirittura ascoltato “la sua esposizione degli orientamenti generali del governo in materia di riforme” e ha ricevuto dalle sue mani “una prima bozza di lavoro”. Berlusconi è caduto dalle nuvole e ha derubricato la cosa come una “iniziativa personale” del rubicondo ministro. In realtà si trattava di uno dei celebri scherzi di Calderoli, per gli amici “Pota” (da non confondere con Cota e con la Trota). Lo stesso che chiese l’uscita dell’Italia dall’euro e iniziò a battere moneta padana in quel di Pontida, coniando il “calderòlo”. Lo stesso che sposò la sua prima moglie con rito celtico, alzando il calice di sidro in onore di Odino e Taranis. Lo stesso che marciò su Verona alla testa di un corteo contro il procuratore Papalia, “il più terrone che ci sia”, con tanto di bara.

Da anni il noto odontoiatra bergamasco fa di tutto per denunciare la
sua vera natura, ma viene inopinatamente scambiato per un padre costituente. In realtà è un simpatico buontempone da bar che non sfigurerebbe nel remake di “Amici Miei” (al posto del celebre Sassaroli, il Calderoli). Uno che, per tirar tardi la sera con gli amici, sarebbe disposto a inventarsi di tutto. Anche un vertice estivo in una baita del Cadore per riscrivere la Costituzione. Quando lo disse alla moglie (“Cara, esco un attimo a fare le riforme istituzionali”), la signora lo fece pedinare da uno specialista, ma alla fine scoprì che era tutto vero. Nell’allegra brigata il consorte aveva la funzione di portare i grappini. Il fatto è che lo prendono sempre sul serio anche contro la sua volontà. Nel 2004, quando lo fecero ministro delle Riforme istituzionali, dichiarò costernato al Corriere: “Su di me non avrei scommesso una lira”. Non ci credeva nemmeno lui: di qui l’espressione perennemente esterrefatta, con occhio sgranato. Una sorta di parèsi nell’atto di domandare: “Io ministro? Ma siete sicuri?”. Da allora le provò tutte per convincere i colleghi che avevano sbagliato persona.

Definì Igor Marini “meglio di Pico della Mirandola”. Chiamò gl’immigrati “bingo bongo” e li invitò a “tornare nella giungla a parlare con le scimmie”. Propose, per le riforme, il “
modello australiano”. Spiegò che “i culattoni meritano le fiamme dell’inferno”. Salutò l’elezione di Ratzinger con l’immortale “più che Benedetto XVI avrei preferito Crautus I” invocando “una Chiesa padana”. Lanciò l’idea di “castrare i pedofili con un colpo di cesoia”. Niente da fare, nessuno pensò di cacciarlo: a ogni pirlata seguiva ampio e articolato dibattito. A quel punto, à la guerre comme à la guerre, il burlone sfoderò l’arma segreta: una maglietta anti-Maometto al Tg1. Per quattro giorni non accadde nulla, poi le riprese fecero il giro del mondo arabo: tumulti, proteste, morti e feriti al consolato di Bengasi. A quel punto persino Berlusconi dovette privarsi del più moderato dei suoi ministri.

Perché fosse definitivamente chiaro che lui è lì
per sbaglio, annunciò che la sua riforma elettorale era “una porcata”. Fu subito promosso ministro della Semplificazione legislativa: lo paghiamo perché non gli vengano più in mente nuove leggi e ne cancelli qualcuna,possibilmente sua. Lui, sempre per mettere gli altri sull’avviso, ha estratto il lanciafiamme bruciando una montagna di carte asserendo che erano “375 mila leggi inutili”: se fosse vero, secondo calcoli di Gian Antonio Stella, il Parlamento italiano avrebbe dovuto lavorare “h 24” quattro giorni a settimana, compresi gli anni di guerra, dal 1861 a oggi, varando una media di 7,8 leggi inutili al giorno, più quelle utili. “Almeno ora – dev’essersi detto Calderoli – lo capiranno chi sono!”. Niente. Anzi ora ci casca pure il centrosinistra. Enrico Letta elogia il “metodo Calderoli per le riforme”. E Napolitano lo riceve al Quirinale per deliberare la sua “bozza di lavoro”. Pare che, per la forza dell’abitudine, abbia tentato addirittura di firmargliela lì, su due piedi. Al che Pota ha dovuto confessare: “Lasci stare, presidente: è la lista della spesa”.
(Vignetta di Bandanax)


Flores d’Arcais: Perchè Ratzinger e Wojtyla sono responsabili per la peste pedofila


di
Paolo Flores d’Arcais, Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2010


Cinque anni fa, durante la solenne Via Crucis del venerdì santo al Colosseo, Joseph Ratzinger esclamava: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Cristo!”. In questi giorni ci è stato ripetuto che la “sporcizia” di cui si scandalizzava Ratzinger era proprio quella dei sacerdoti pedofili, a dimostrazione che la Chiesa gerarchica già allora (solo cinque anni fa, comunque) non aveva alcuna intenzione di “insabbiare”. Ma quanta di tale “sporcizia” è stata da Ratzinger realmente denunciata? Denunciata, vogliamo dire, nell’unico modo in cui si denuncia un crimine, perché sia fermato e non possa essere reiterato: ai magistrati dei diversi paesi. Quanti di quei sacerdoti pedofili? Nessuno e mai.

Non nascondiamoci perciò dietro un dito. La copertura che è stata data per anni (anzi decenni) a migliaia di preti pedofili sparsi in tutto il mondo, non denunciandoli alle autorità giudiziarie, garantendo perciò ai colpevoli un’impunità che ha consentito loro di reiterare lo stupro su decine di migliaia di minorenni (talora handicappati), chiama direttamente e personalmente in causa la responsabilità di Joseph Ratzinger e di Karol Wojtyla. Se responsabilità morale o anche giuridica, lo decideranno tra breve alcuni tribunali americani. La responsabilità morale è comunque evidenziata dagli stessi documenti che l’
Osservatore Romano (organo della Santa Sede) ha ripubblicato qualche giorno fa.

Qui non stiamo infatti considerando i casi singoli di “insabbiamento” anche nell’ambito della “giustizia” ecclesiastica, ormai accertati e riportati dalla stampa soprattutto americana e tedesca, e che vanno moltiplicandosi man mano che si allenta la cappa di omertà, paura e rassegnazione. Ci riferiamo invece alla responsabilità diretta e personale dei due pontefici per
tutti i delitti di pedofilia ecclesiastica che non sono stati denunciati alle autorità civili, molti dei quali, ripetiamolo – mai come in questa circostanza orribile repetita juvant – non sarebbero mai stati perpetrati se casi precedenti fossero stati denunciati e sanzionati nei tribunali statali.

La questione cruciale è infatti proprio questa: non la “Chiesa” in astratto, ma le sue gerarchie, e in particolare il Sommo Pontefice e il cardinal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, hanno imposto un obbligo tassativo a tutti i vescovi, sacerdoti, personale ausiliario ecc., sotto solenne giuramento sul Vangelo, di non rivelare se non ai propri superiori, e dunque di non far trapelare minimamente alle autorità civili, tutto ciò che avesse a che fare con casi di pedofilia ecclesiastica.

La confessione viene da loro stessi. L’
Osservatore Romano ha ripubblicato il motu proprio di Giovanni Paolo II, che riservava al “Tribunale apostolico della Congregazione … il delitto contro la morale”, cioè “il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età”, e la “Istruzione” attuativa della Congregazione per la Dottrina della Fede, con queste inderogabili disposizioni: “Ogni volta che l’ordinario o il gerarca avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolto un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede”.

Tutte le “notitiae criminis” devono insomma affluire ai vertici, la Congregazione per la dottrina della Fede (Prefetto il cardinal Ratzinger, segretario monsignor Bertone) e il Papa. Sarà la congregazione a decidere se avocare a sé la causa oppure “comandare all’ordinario o al gerarca, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale”. Papa e Prefetto, insomma, sono informati di tutto (sono anzi gli unici a sapere tutto) e sono loro, esclusivamente, ad avere l’ultima e la prima parola sulle procedure da seguire.

Decidano direttamente, per avocazione, o demandino il “processo” al Tribunale ecclesiastico diocesano, ovviamente la “pena” estrema (quasi mai comminata) è solo la riduzione allo stato laicale del sacerdote. In genere si limitato invece a spostare il sacerdote da una parrocchia all’altra. Dove ovviamente reitererà il suo crimine. “Pena” esclusivamente canonica, comunque. Nessuna denuncia deve invece esser fatta alle autorità civili. La Chiesa gerarchica si occuperà insomma del “peccato” (in genere con incredibile indulgenza) ma terrà segreto e coperto il “reato”. Che perciò resterà impunito. E potrà essere reiterato
impunemente. Perché l’ordinanza della Congregazione, in ottemperanza al motu proprio del Papa, è imperativa e non lascia margini di scampo: “Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”.

Di cosa si tratta? E’ spiegato in un documento vaticano del marzo 1974, una “Istruzione” emanata dall’allora segretario di Stato cardinale Jean Villot, seguendo le volontà espresse da Paolo VI in un’udienza ad hoc.

Leggiamone i passi cruciali. “In taluni affari di maggiore importanza si richiede un particolare segreto, che viene chiamato segreto pontificio e che dev’essere custodito con obbligo grave … Sono coperti dal segreto pontificio …” e qui seguono numerosissimi casi, tra i quali due fattispecie in entrambe le quali rientrano i casi di pedofilia ecclesiastica. Il punto 4 (“le denunce extra-giudiziarie di delitti contro la fede e i costumi, e di delitti perpetrati contro il sacramento della penitenza, come pure il processo e la decisione riguardanti tali denunce”) e il punto 10 (“gli affari o le cause che il Sommo Pontefice, il cardinale preposto a un dicastero e i legati della Santa Sede considereranno di importanza tanto grave da richiedere il rispetto del segreto pontificio”).

Ancora più interessante il minuzioso elenco delle persone che “hanno l’obbligo di custodire il segreto pontificio”:
“1) I cardinali, i vescovi, i prelati superiori, gli officiali maggiori e minori, i consultori, gli esperti e il personale di rango inferiore, cui compete la trattazione di questioni coperte dal segreto pontificio; 2) I legati della Santa Sede e i loro subalterni che trattano le predette questioni, come pure tutti coloro che sono da essi chiamati per consulenza su tali cause; 3) Tutti coloro ai quali viene imposto di custodire il segreto pontificio in particolari affari; 4) Tutti coloro che in modo colpevole, avranno avuto conoscenza di documenti e affari coperti dal segreto pontificio, o che, pur avendo avuto tale informazione senza colpa da parte loro, sanno con certezza che essi sono ancora coperti dal segreto pontificio”.

Insomma, certosinamente
tutti. Non c’è persona che possa direttamente o indirettamente entrare in contatto con tale “sporcizia” a cui sia concesso il benché minimo spiraglio per poter far trapelare qualcosa alle autorità civili e quindi fermare il colpevole. La “sporcizia” dovrà restare nelle “segrete del Vaticano”, pastoralmente protetta e resa inavvicinabile dalle curiosità troppo laiche di polizie e magistrati. L’impunità penale dei sacerdoti pedofili sarà di conseguenza assoluta e garantita.
Per raggiungere questo obiettivo, che rovinerà la vita a migliaia di bambini e bambine, si esige anzi un giuramento dalla solennità sconvolgente.

Recita l’istruzione: “Coloro che sono ammessi al segreto pontificio in ragione del loro ufficio devono prestar giuramento con la formula seguente: ‘Io… alla presenza di…, toccando con la mia mano i sacrosanti vangeli di Dio, prometto di custodire fedelmente il segreto pontificio nelle cause e negli affari che devono essere trattati sotto tale segreto, cosicché in nessun modo, sotto pretesto alcuno, sia di bene maggiore, sia di causa urgentissima e gravissima, mi sarà lecito violare il predetto segreto. Prometto di custodire il segreto, come sopra, anche dopo la conclusione delle cause e degli affari, per i quali fosse imposto espressamente tale segreto. Qualora in qualche caso mi avvenisse di dubitare dell’obbligo del predetto segreto, mi atterrò all’interpretazione a favore del segreto stesso. Parimenti sono cosciente che il trasgressore di tale segreto commette un peccato grave. Che mi aiuti Dio e mi aiutino questi suoi santi vangeli che tocco di mia mano’”.
Formula solenne e terribile, che davvero non ha bisogno di commenti. Dalle conseguenze tragiche e devastanti per migliaia di esistenze.

Tutte le Istruzioni di cui sopra sono ancora in vigore. Il giuramento ha funzionato. In questi giorni di aspre polemiche, infatti, la Chiesa gerarchica non ha potuto esibire un solo caso di sua denuncia spontanea alle autorità civili, con il quale avrebbe potuto rivendicare qualche episodio di non omertà e di “buona volontà”.

Il “buon nome” della Chiesa è venuto sempre prima, sulla pelle di migliaia di bambini e infangando e calpestando quel “sinite parvulos venire ad me” (Vulgata, Matteo 19,14) del Vangelo su cui si è fatta giurare questa raccapricciante congiura del silenzio. Sempre più testimonianze confermano anzi di una Chiesa gerarchica indaffarata per decenni a “troncare e sopire”, e anzi a negare l’evidenza (in una corte si chiamerebbe spergiuro) o a intimidire le vittime (in una corte si chiamerebbe ricatto o violenza) se qualche ex-bambino ad anni di distanza trovava il coraggio di sporgere denuncia. I casi del genere ormai emersi sono talmente tanti che “il mio nome è Legione”, come dice lo “spirito immondo” di cui Marco, 5,9.

Di fronte a documenti ufficiali talmente “parlanti” si resta dunque allibiti che nessuno chieda ai vertici della Chiesa gerarchica, il Papa e il Prefetto della Congregazione per la Fede, ragione di tanta squadernata responsabilità. Monsignor Bertone, all’epoca della “Istruzione” di Ratzinger vescovo di Vercelli e segretario della Congregazione (il vice di Ratzinger, insomma, allora come oggi), in un’intervista del febbraio 2002 al mensile
30Giorni, ispirato da Comunione e Liberazione e diretto da Giulio Andreotti, si stracciava le vesti dall’indignazione all’idea che un vescovo potesse denunciare il sacerdote pedofilo alle autorità giudiziarie: al giornalista che si faceva eco delle ovvie preoccupazioni dei cittadini con un: “eppure si può pensare che tutto ciò che viene detto al di fuori della confessione non rientri nel ‘segreto professionale’ di un sacerdote...” rispondeva a muso duro: “se un fedele non ha più nemmeno la possibilità di confidarsi liberamente, al di fuori della confessione, con un sacerdote … se un sacerdote non può fare lo stesso con il suo vescovo perché ha paura anche lui di essere denunciato... allora vuol dire che non c’è più libertà di coscienza”. Libertà di coscienza, proprio così.

Quella libertà di coscienza che il mondo moderno, grazie all’eroismo di spiriti eretici mandati puntualmente al rogo, e all’azione del vituperatissimo illuminismo, è riuscito a strappare contro Chiesa (che la giudicava pretesa diabolica), viene ora invocata per garantire l’impunità a migliaia di preti pedofili. Cosa si può dire di fronte a tanta … (lascio in sospeso il vocabolo, non sono riuscito a trovarne uno adeguato alla “cosa” e che rispetti il detto secondo cui “nomina sunt consequentia rerum”)?

Che senso ha, perciò, continuare a parlare di “propaganda grossolana contro il Papa e i cattolici” (l’
Osservatore Romano”), di “attacchi calunniosi e campagna diffamatoria” (idem), di “eclatante campagna diffamatoria” (Radio vaticana), di “furibonda fobia scatenata contro la Chiesa Cattolica” (Joaquin Navarro Vals), di “menzogna e violenza diabolica” (monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino), di “accuse menzognere” (cardinal Angelo Scola), di “accuse ignobili e false” (cardinal Carlo Maria Martini), e chi più ne ha più ne metta, visto che sono gli stessi documenti vaticani a confessare la linea di catafratto rifiuto della Chiesa gerarchica ad ogni ipotesi di denuncia dei colpevoli alle autorità giudiziarie secolari? E si badi, il “Motu proprio” e l’”Istruzione” del 2001 segnano un momento considerato di maggiore severità di Santa Madre Chiesa nei confronti dei sacerdoti pedofili. Possiamo immaginarci cosa fosse prima.

Davvero di fronte a questo scandalo la miglior difesa è l’attacco, come sembrano aver deciso i vertici vaticani? Punta di diamante di tale strategia è il cardinal Sodano, decano del Sacro Collegio, che sull’
Osservatore Romano del 6-7 aprile tuona: “La comunità cristiana si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura veramente incomprensibile”.

No cara eminenza, nessuno si sogna di coinvolgere in blocco la comunità cristiana, nemmeno nel più ristretto senso di comunità cattolica, qui si tratta solo della Chiesa gerarchica e delle sue massime autorità, che hanno imposto il silenzio del “segreto pontificio” e dunque impedito che le autorità statali mettessero i sacerdoti pedofili nella condizione di non nuocere. E poiché nel catechismo è scritto innumerevoli volte che si può peccare in modo equivalente “per atti o per omissioni”, vorrà convenire che attraverso questa omissione resa solenne e inderogabile attraverso il “segreto pontificio”, il Papa e il cardinal Prefetto si sono resi responsabili (di certo moralmente) delle migliaia di crimini di pedofilia che sollecite denunce alle autorità statali avrebbero invece impedito. E’ purtroppo un dato di fatto acclarato che aver voluto trattare questi crimini semplicemente all’interno del diritto canonico, e nella maggior parte dei casi limitandosi oltretutto a spostare il sacerdote violentatore da una parrocchia all’altra, ha avuto il risultato di diffondere la peste pedofila.

Tentare di corresponsabilizzare tutti i fedeli è anzi un “gioco sporco”, cara eminenza. Dubito che la grande maggioranza dei fedeli sapesse del “segreto pontificio” e delle sue implicazioni di dovere insuperabile del silenzio nei confronti di qualsiasi autorità esterna (polizie e magistrati) alle gerarchie ecclesiastiche. Dubito che se ne avesse avuto conoscenza avrebbe approvato l’idea che i nomi dei preti pedofili dovessero restare sepolti nelle “segrete del Vaticano” a tutela del “buon nome” della Chiesa.

In questa orribile vicenda non è in discussione la Chiesa nell’accezione di “popolo di Dio” o comunità dei fedeli. E’ in discussione, cara eminenza, solo, sempre ed esclusivamente la Chiesa gerarchica e i suoi vertici. Timothy Shriver, figlio di Eunice Kennedy, dunque esponente della più famosa famiglia cattolica d’America, dunque parte della Chiesa in quanto comunità dei credenti, ha pubblicato sul
Washington Post un appello – da cattolico – in cui è detto senza mezzi termini: “Se questa Chiesa, con la sua attuale gerarchia, col suo Papa e i suoi vescovi, non saprà confessare la Verità; se continuerà a nascondere le proprie colpe, come Nixon lo scandalo Watergate; se si dimostrerà più votata al potere che a Dio, allora noi cattolici dovremo cercare altrove una guida spirituale”. Solo il 27% dei cattolici americani (la Chiesa nel senso del “popolo di Dio”), interpellati da un sondaggio della Cbs il 2 aprile, ha espresso un giudizio favorevole e di fiducia in Ratzinger e nei suoi vescovi (la Chiesa nel senso della Gerarchia). Addirittura solo uno su cinque, sulla questione specifica dell’atteggiamento verso lo scandalo dei preti pedofili.

Torniamo perciò al punto cruciale. Wojtyla e Ratzinger hanno preteso e imposto che i crimini di pedofilia venissero trattati solo come peccati, anziché come reati, o al massimo come “reati” di diritto canonico anziché reati da denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie secolari. Queste omesse denunce sono responsabili di un numero imprecisato ma altissimo di violenze pedofile che altrimenti sarebbero state evitate.

Se l’attuale regnante Pontefice ha davvero capito l’enormità della “sporcizia” e la necessità di contrastarla senza tentennamenti anche sul piano della giustizia terrena, può dimostrarlo in un modo assai semplice: abrogando immediatamente con “Motu proprio” le famigerate “Istruzioni” che fanno riferimento al “segreto pontificio” e sostituendolo con l’obbligo per ogni diocesi e ogni parrocchia di denunciare immediatamente alle autorità giudiziarie ogni caso di cui vengano a conoscenza. E spalancando gli archivi, consegnandoli a tutti i tribunali che ne facciano richiesta, visto che alcuni paesi hanno deciso di aprire per la denuncia del crimine una “finestra” di un anno per sottrarre alla prescrizione anche vicende lontane.

Se non avrà questa elementare coerenza, non si straccino le vesti il cardinal decano e tutti i cardinali del Sacro Collegio nell’anatema contro i credenti e i non credenti che insisteranno nel giudicare corrivo l’atteggiamento attualmente scelto.

Tanto più che la Chiesa gerarchica, che in tal modo si rifiuterebbe di ordinare alle proprie diocesi la collaborazione per punire come reato il peccato di pedofilia dei sui chierici e pastori, è la stessa che pretende di trasformare in reati, sanzionati dalle leggi dello Stato e relative punizioni, quelli che ritiene peccati (aborto, eutanasia, fecondazione eterologa, controllo artificiale delle nascite, ecc.), e che per tanti cittadini sono invece solo dei diritti, ancorché dolorosi o dolorosissimi.

(10 aprile 2010)



domenica 11 aprile 2010

Auto-immobilismo - Roberto Corradi


11 aprile 2010
Presentata oggi al Salone dell’auto di Ginevra la nuova nata in casa Fiat. Si chiama Fiat Pd ed è destinata a rivoluzionare il mondo dell’automobilismo. “Questa vettura unisce le più avanzate tattiche politiche di opposizione con la tecnologia che solo il 2010 poteva garantire” ci assicura il responsabile tecnico del progetto. Annunciata da tempo dalla casa torinese, la Fiat Pd non poteva che esordire sulle passerelle svizzere. “I più critici” ci spiega il presidente Fiat Luca Cordero di Montezemolo “ci rimproveravano di aver portato la vettura qui a oltre un mese dalla conclusione della kermesse che, lo ricordo, ha chiuso i battenti il 14 marzo. Poi, quando hanno saputo il nome del modello, hanno capito”. La Fiat Pd farà parlare a lungo di sé per la scelta coraggiosa ma obiettiva degli allestimenti meccanici. Cinque marce di cui solo una, lentissima, in avanti e 4 retromarce sono infatti la rivoluzionaria novità del modello.

“All’inizio”, ci spiega Montezemolo uscendo dall’abitacolo pensato per i leader del Partito Democratico, avevamo pensato solo a una singola retromarcia velocissima. Poi però abbiamo deciso di offrire diverse possibilità di retrocessione in attesa del modello definitivo di Fiat Pd. No, è ancora troppo presto per parlarne”. Ma le indiscrezioni fioccano. Si parla di un veicolo semicubico come la Multipla primo tipo unito alla commovente assenza di prospettive della storica Duna con, di serie, cinque retromarce a trazione integrale e nessuna marcia avanti. Una bomba nel suo genere. “Di certo non riusciremo a replicare l’evento che oggi, con il lancio della Fiat Pd, siamo sicuri di aver realizzato”. Il presidente, fiero del suo gioiello fortemente voluto dal
Gotha del Partito Democratico ci illustra il progetto e le caratteristiche tecniche. Consumi e sforzi di guida disumani con prestazionirisibilisonosololapuntadidiamantediunamacchina incapace di acquistare velocità anche in discesa. Nelle prove su stradalaquartaretromarciahasoddisfattoanchegliespertidella rivista "Quattoruotediscorta", appositamente convocati per testare il prototipo: registrata una decelerazione da zero a meno cento mai vista prima d’ora. Sulle nostre strade arriverà probabilmente, se arriverà, a fine legislatura ma intanto già si plaude all’utilità delle prove di crash test. Alcuni manichini, rimasti immobili al momento del violento impatto all’indietro, sono stati infatti adocchiati come futuri leader del Partito.

da Il Misfatto, inserto satirico de Il Fatto Quotidiano del 11 aprile 2010



La guerra ai bambini - Luca Telese


11 aprile 2010
I bambini stranieri messi a pane ed acqua – e con orgoglio - daMilena Cecchetto, sindaco leghista di Montecchio Maggiore perché i loro genitori non pagavano la retta. “Non si può mangiare a sbafo”, ha spiegato con disarmante serenità, il condirettore de Il Giornale Alessandro Sallusti. I bambini stranieri esclusi dai fondi per le cure dentarie ed oculistiche elargiti (solo a gli italiani) dal comune bergamasco di Brignano Gera d'Adda. I bambini stranieri privati dell’accompagnamento scolastico ad Angolo Terme (lo ha raccontato bene sulle pagine de Il Fatto Elisabetta Reguitti), costretti da tortuosi pasticci regolamentari a pagare più degli italiani. Bambini colpiti in tutta Italia dal tetto etnico del 30% massimo nelle classi: ventilato, rimangiato, ma alla fine attuato dal ministro Gelmini. Non si capisce dove dovrebbero andare, una volta espulsi, ma non importa. E infine il divieto di iscrizione a scuola – più volte ventilato - per i figli dei clandestini.

C’è qualcosa di grave,ed incredibile, nella sottovalutazione della guerra della Lega,e dei suoi emuli contro i bambini. E’in atto una crociata che non si vuole vedere, perché nessuno collega con un unico filo storie ed episodi che rimbalzano da un capo all’altro d’Italia. In alcuni casi, il centrosinistra si oppone, più o meno blandamente. In altri sostiene addirittura che i provvedimenti dovrebbero essere più severi. Raramente ci si rende conto che questo moderno razzismo dissimulato sotto i feticci del sorriso cortese e della buona amministrazione, non è un effetto collaterale più o meno indesiderato della guerra contro gli extracomunitari adulti. Ma quello pianificato di una guerra che ha come obiettivo principale proprio i bambini. I leghisti non lo nascondono. Ho chiesto a
Mauro Borghezio perché:“I padri devono capire – mi ha risposto con sincerità – che se vengono a procreare qui da noi gli effetti ricadono sui loro figli”. La guerra ai bambini ha come obiettivo la segregazione, perché i minori sono quelli che fanno camminare sulle loro gambe l’integrazione.

Quelli che imparano l’italiano nelle scuole, e poi lo insegnano ai loro genitori. Quelli che, rompendo con fatica le barriere del pregiudizio, costruiscono la nuova Italia multi culturale. Ecco perché non va sottovalutato il manuale nuovo cattivismo. E perché va combattuto.

da Il Fatto Quotidiano dell'11 aprile 2010


Per candidarsi 200mila euro - Enrico Fierro


11 aprile 2010
Politiche 2008: il socio di Dell'Utri, Aldo Micciché, parla al telefono di richieste di soli per diventare deputato. Uno dei suoi interlocutori: "In listà c'è chi è entrato grazie ai casalesi"

"In democrazia lo stronzo vale quanto un genio”. Così parlò Aldo Micciché, il faccendiere calabrese trapiantato in Venezuela. Alle ultime elezioni politiche si occupò con successo della raccolta di voti a favore del Pdl in Venezuela. Generoso, rifiutò addirittura una proposta di candidatura offertagli direttamente da un emissario di Forza Italia, Filippo Fani, braccio destro di Barbara Contini. Amico e socio di Marcello Dell'Utri e di uno dei suoi figli, settori petrolio e medicinali, è l'uomo che in una notte di tensione brucia le schede elettorali degli italiani residenti nel paese sudamericano. Di questo suo gesto informa anche Filippo Fani. Micciché, che fa da tramite tra Marcello Dell'Utri e alcuni emissari della coscaPiromalli, una delle più potenti della Piana di Gioia Tauro, è una “piovra”. “Micciché in Italia ha contatti con i capezzuni”. Gente che conta. Nomi altisonanti che colpiscono gli agenti della squadra mobile di Reggio Calabria che intercettano le sue conversazioni. “Ciò che ha colpito questi investigatori – si legge nel fascicolo inviato dalla Procura antimafia reggina alla Procura generale di Palermo – è la quantità, ma soprattutto la qualità delle conoscenze che Micciché ha sia in Italia che all'estero”. Il faccendiere conosce tutti e parla con tutti. Dell'Utri, la sede di An, quella di Forza Italia, la segretaria di Mastella, Mastella stesso, l'onorevoleTassone, oggi vicepresidente dell'Antimafia, e poi esponenti della massoneria, uomini d'affari e servizi segreti venezuelani.

Ma a tempestarlo di telefonate alla vigilia delle elezioni è
Filippo Dinacci, avvocato napoletano e cugino omonimo dell'avvocato romano legale di Previti,Berlusconi e Bertolaso. L'avvocato Dinacci in quel periodo è consulente della società che Micciché, Dell'Utri e Massimo De Caro hanno messo in piedi per il business del petrolio e del gas in Venezuela. Ma il pallino della politica non lo abbandona mai, ha fondato con Armando Pizza la nuova Dc, ha partecipato allaquerelle sul simbolo. E ora, elezioni politiche del 2008, pretende un posto in Parlamento. “Mercoledì – dice Dinacci in una telefonata alle 3 del pomeriggio del 18 febbraio 2008 – vado a Roma per la candidatura in Forza Italia”. Micciché gli dice di stare tranquillo: “Per quanto riguarda Forza Italia se riusciamo a fare l'operazione del petrolio speriamo che vada, quindi non dico ricattare, ma insomma quasi”. Petrolio e politica, in ballo ci sono gli interessi di una grande società russa. “I rapporti con il russo – dice a Filippo Dinacci – sono di Marcello (Dell'Utri, ndr) perché Berlusconi ha dato a lui questo rapporto. Chiaro?”. Chiarissimo, ma l'avvocato napoletano vuole una candidatura, grazie alla mediazione di Micciché è riuscito ad avere un incontro con Dell'Utri.

Micciché: “Tu devi apprezzare la chiarezza con la quale ti ha parlato Marcello, poi ti spiegherò tutto e che tra l'altro praticamente da parte di chi eventualmente eccetera, si pensava che ti dava una candidatura e che dovevi pure pagare. Parliamoci chiaro”. “La verità – è la replica di Dinacci – è che ci sono candidature vergognose. E poi i soldi, ma è vero che volevano 200mila euro?”. “Forse c'è bisogno di una somma superiore”, risponde il faccendiere calabrese . Danaro per candidarsi nel partito di Berlusconi? I due ne parlano. Ma la candidatura di Dinacci non arriva, si perde tempo e l'avvocato napoletano perde la pazienza. Un giorno, il 18 marzo 2008, sbotta. “Ho detto a Dell'Utri tante cose riservate, Marcello è rimasto interdetto, perché gli ho parlato pure delle situazioni con dei flash di rapporti che il Cavaliere aveva e che tiene anche dall'altra parte del Continente”. Parla troppo, l'avvocato, e Micciché risponde a monosillabi. Ma Dinacci non si tiene: “Anch'io ho le mie carte che posso giocare, gli ho detto a Marcello che ho anche gli estremi da portare in Procura per quelle schifezze che hanno fatto per le candidature in lista, i signori
Nicola Cosentino e Luigi Cesaro, gli ho detto pure questo, va bene?”.

Micciché non ne può più e invita Dinacci a calmarsi, cerca di interrompere la telefonata (il faccendiere è informato del fatto che il suo telefono è intercettato, è lo stesso Dinacci a chiedergli di verificare se i telefoni sono sotto controllo). L'avvocato Dinacci, però, non resiste: “Nelle liste elettorali sono entrate persone perché ci sono i casalesi. Ma che vuoi che ti dica? Che ci sono delle carte che stanno... ci stanno le carte in mano a certe persone che sono pronte ad andare in Procura... che cazzo vuoi che ti dica?”. Sono giorni durissimi, l'avvocato Dinacci è impegnato nella trattativa sul petrolio, con i russi che pongono difficoltà, e l'ansia per una candidatura che non arriva. Micciché tenta di convincerlo ad accettare un posto in lista a Genova, dove lui può manovrare un po' di voti dei portuali, ma l'avvocato vuole la Campania. Ipotesi che sfuma sempre più. E allora Dinacci ritelefona a Micciché, manca poco alle tre del pomeriggio del 6 aprile 2008, e gli prospetta una soluzione: “Ora devi essere tu a intercedere con lei (parlano di Barbara Contini, oggi deputata, ndr), io le ho prospettato anche la possibilità di inserirmi nell'impiantistica dei rifiuti perché dall'America hanno degli impianti altamente sicuri”. Poi i due passano a discutere di altro. L'avvocato chiede a Micciché: “Quello strumento è uno dei tanti perché sono a tagli da uno, oppure sono a più tagli? Comunque il totale complessivo riusciamo a coprirlo per quello che è l'esigenza, no?”. E Micciché: “Eh, almeno tre milioni, un casino quanto ne vuoi!” L'avvocato partenopeo: “Questo volevo sapere, va bene, perché verrebbero assegnati alla fondazione, giusto? Comunque io mi attivo subito, vediamo in pochi giorni di avere una risposta positiva”.

da Il Fatto Quotidiano dell'11 aprile 2010



Noi italiani siamo cosi': 400 voti e ci montiamo la testa



SCOOP! Il candidato dello Psiconano si apre alla grillista
Mamma! batte tutti sul tempo e scova nei castelli romani il primo inciucio a cinque stelle
9 aprile 2010 - Ulisse Acquaviva

In Italia basta raccattare 400 voti e si e' gia' pronti a trattare con il potere: chiedetelo ai grillini di Grottaferrata, pronti ad applaudire perfino gli emissari dello "Psiconano" a livello locale dopo aver sfanculato il loro capo a livello nazionale.

Quella che sembra una piccola vicenda di borgata e' indicativa di una cultura politica che pervade a tutto tondo anche i gruppi animati dalle migliori intenzioni: dall'alto della mia manciata di voti, mi vendo a chi offre di piu'.

Quando erano i socialisti a fare l'ago della bilancia, riuscivano almeno a mettersi in tasca qualche soldino o qualche assessorato: ma la candidata sindaco "a cinque stelle" Carla Pisani regala il suo appoggio al candidato PDL Sergio Conti portando in dote i suoi 432 voti in cambio di una vaga, indefinita e gratuita "condivisione programmatica e apertura al dialogo futuro".

Il tutto ha il sapore di un dispetto per punire l'altro candidato, Gabriele Mori, colpevole di non aver proposto ai grillini grottaferrosi "alcuna apertura di apparentamento". Un testo che sembra scritto di fretta e "di pancia" anche perche' in cima al manifesto la candidata dice che per l'imminente ballottaggio "verrebbe naturale dare per scontato il nostro astensionismo", piu' avanti smentisce Mori e chi pensa "che il nostro posizionamento sarebbe scontato verso il centro-sinistra", poi parla di "piena armonia" col candidato PDL, e infine tranquillizza i suoi seguaci dicendo che nelle urne "la liberta' di coscienza e' il primo dei nostri valori". Ci avete capito niente?

Ai nostri lettori decidere se questo manifesto (che abbiamo fotografato per voi in esclusiva mondiale) sia il frutto di un temporaneo stato confusionale, una indicazione di voto a destra nemmeno troppo velata, o piu' banalmente una colossale figura di merda.

Le voci incontrollate diffuse in queste ore raccontano di un contromanifesto diffuso da altri grillini per dissociarsi dalla loro candidata, che il manifesto sarebbe stato affisso dalla Pisani senza consultarsi con nessuno, che il marito della Pisani, tale Gianluca Mochi, avrebbe un passato da coordinatore di Forza Italia e nel 2009 si è candidato a Frascati nelle fila del PDL, che il consigliere comunale grillista Marco Giustini del Municipio Roma 16 sarebbe incazzato come una iena dopo aver appoggiato pubblicamente la Pisani "senza conoscerla, semplicemente in quanto candidata di una lista a cinque stelle", che il manifesto dice bufale perche' l'appoggio di Mori c'era eccome, che il candidato berluschino Conti sarebbe una vecchia volpe della prima repubblica con un pedigree di tutto rispetto: passato attraverso DC, UDC e PDL, da sempre schierato con il "partito dei costruttori", due mandati da sindaco a Grottaferrata di cui uno sarebbe durato appena due mesi.

Ma noi non ci lasciamo tentare dal gossip, e allora per restare nel merito delle questioni abbiamo rispolverato la "
Carta di Firenze" del movimento di Grillo, che ha quella chiarezza che manca al manifesto della Pisani.

Votate, votate, votate, e diteci quali sono secondo voi i punti di "piena armonia" e la "condivisione programmatica" tra l'emissario locale di Papi e la custode dell'hotel a cinque stelle di Grottaferrata.

http://www.mamma.am/mamma/articoli/art_5758.html