Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 19 aprile 2010
Il film della settimana: “Green Zone” di Paul Greengrass
di Giona A. Nazzaro
Con la rutilante potenza di una macchina inarrestabile, Hollywood continua a produrre irresistibile cinema politico di massa. Apparentemente una contraddizione in termini, stando a certi pregiudizi elitisti. In realtà una genuina forma di controinformazione diretta che non è filtrata dal tetto della raccolta pubblicitaria o del pregiudizio ideologico dell’emittente o editore di turno ma solo attraverso l’efficacia spettacolare del prodotto. La velocità di un raccordo di montaggio diventa il segno di una connessione o di un’intuizione. La presunta superficialità l’arma in più per centrare il bersaglio. Con la libertà concessa solo alla grande cultura popolare e autenticamente di massa, il cinema statunitense sta offrendo uno spettacolo estremamente interessante di come si rielabora in tempo reale una guerra che non si riesce a chiudere.
In Leoni per gli agnelli, Robert Redford mostra a un studente disilluso una cicatrice sulla fronte celata alla vista dalla sua chioma ancora bionda. Il ragionamento è evidente. Per affrontare il trauma del Vietnam, il cinema americano ha impiegato molto tempo. Forse addirittura battuto sul tempo dall’effetto shock prodotto dalle immagini televisive di giornalisti impegnati in prima film contro il conflitto nel sudest asiatico.
Con le guerre in Iraq e in Afghanistan, il cinema hollywoodiano ha reagito in tempo reale offrendo l’immagine di un’industria sana e critica che i propri panni non ci pensa nemmeno lontanamente a lavarli in casa. Basti pensare ancora al superbo dramma del petrolio che è Syriana. Se Redford ha dato il via a questo particolarissimo filone, Brian De Palma con Redacted e Kathryn Bigelow con The Hurt Locker, senza contare titoli meno riusciti come The Messenger – Oltre le regole e il mediocre Brothers, hanno affrontato a testa bassa le conseguenze del conflitto iracheno e afghano trasformandolo incontestabilmente in un “fatto di cinema”.
In questo senso Green Zone di Paul Greengrass, autore dei capitoli più riusciti della saga dell’agente smemorato Bourne, che aveva esordito con Bloody Sunday, dimostra non solo che è possibile produrre un cinema schiettamente politico, ma che questo non debba affatto soccombere alla noia o al vezzo di predicare solo ai già convertiti.
Green Zone segue Matt Damon militare impegnato nella localizzazione dei siti dove sarebbero custodite le famigerate armi di distruzione di massa di Saddam. Poco alla volta al soldato Damon sorge il sospetto che ci sia qualcosa che non funziona nei flussi di informazione che l’intelligence e i servizi offrono ai militari. Poco alla volta Greengrass evidenzia come e perché è nato l’inganno delle armi di distruzione di massa. A chi serviva e chi lo ha manipolato. Di fatto spiegandoci come mai gli Stati Uniti sono ancora in guerra. Questo è cinema popolare.
Con la lucidità dei grandi film paranoici degli anni Settanta post-Watergate, Greengrass mette in piedi un universo che potrebbe essere benissimo quello del super-agente Jack Bauer di 24. Nessuno è ciò che sembra. La verità è una valuta estremamente pregiata che viaggia meglio se falsa perché più leggera. Tra le strade di Baghdad, che si trasformano poco alla volta in budelli guardati a vista da cecchini, Matt Damon tenta, con l’aiuto di un Brendan Gleeson anziano agente della CIA, di evitare che la città diventi una polveriera più di quanto non lo sia già. Fatalmente essere paranoici significa semplicemente non ti fidare di nessuno e resta in vita più che puoi.
Al di là della grande lezione etica di Green Zone, Paul Greengrass si dimostra superbo montatore di azioni frenetiche messe in scene con impeccabile chiarezza, nonostante l’abbondante uso di macchina a spalla e a mano. Lo sguardo non si smarrisce mai fra gli innumerevoli tagli di montaggio, evidenziando straordinaria abilità nell’equilibrare tutte le informazioni necessarie alla comprensione della vicenda senza sacrificare mai il tasso adrenalinico della vicenda.
Provate a immaginare un film animato da tale autonomia e libertà in Italia. Un film diretto al grande pubblico, ovviamente, e non al solito manipolo di bene informati. Un film italiano “politico” distribuito in tutto il mondo che ti trovi tanto nei multiplex quanto nelle sale di provincia (quelle che ancora resistono all’avanzata della fine). Impossibile, vero? Immaginate i distinguo, le discussioni e le polemiche che alla fine non fanno altro che partorire il solito topolino miserrimo?Green Zone è tutt’altro: cinema. E si va a vederlo soprattutto per questa ragione. Il plusvalore del film sta in tutto ciò che lo spettatore porta a casa dopo che si sono accese le luci in sala. Paghi uno e prendi tre.
Green Zone è cinema politico. Cinema complesso. Che non rinuncia a una sola oncia di spettacolo senza praticare sconti a nessuno. E mentre in Italia si continua impunemente a blaterare di “americanate” e di “impegno”, film come Green Zonesbugiardano i governi e divertono chi paga il biglietto. A dirla così, sembra proprio una cosa comunista e invece è solo Hollywood.
(15 aprile 2010)
In ricordo di un amico
44 anni, due figlie piccole e una moglie disoccupata.
Si arrangiava cantando in alcuni locali quando lo chiamavano. Si è impiccato in garage con la corda per saltare della figlia che aveva appena accompagnato all'asilo. Un amico lo ricorda.
"Caro Beppe, ti seguo da anni e continuerò a farlo fino a quando sarà questo il posto per dare una speranza, un segno di lotta contro chi dice che tutto va bene, che la crisi non c'è stata, anzi è passata, forse sta passando, sempre se c'è stata, ormai si dice tutto e il contrario di tutto. Vorrei scrivere tante cose, ma adesso voglio solo rendere omaggio ad un caro AMICO che non c'è più, sono sicuro che gli darai un piccolo spazio per rendere giusto tributo a chi lascia il Sud (Episcopia, PZ) per cercare fortuna altrove, fino a quando dobbiamo lasciare le nostre terre per andare lavorare, fare sacrifici, e a volte anche a morire lontano dalla nostra terra? Ciao Mario."
Berlusconi-Fini, scontro finale - Paolo Flores d’Arcais
L’esito dipenderà dai modi in cui Fini arriverà allo showdown. Dando per scontato che abbia deciso, che il dado ormai sia tratto. Dovesse infatti fare marcia indietro, il patto che firmerebbe, al di là delle possibili apparenze di “compromesso”, sarebbe un “patto leonino”, in cui il ruolo della vittima da sacrificare non sarebbe certo assegnato a Berlusconi. La prima mossa di Fini, apprezzabile e coraggiosa (e comunque improcrastinabile), ha un difetto di fondo, che regala al ducetto miliardario una carta di vantaggio: appare legata a uno scontro di potere, ad una redistribuzione delle quote di influenza all’interno del Partito del predellino. Tema che certamente non è in cima ai pensieri dei cittadini, e rischia di gettare un’ombra di “avidità” che la strapotenza mediatica del Padrone amplificherà a dismisura attraverso le falangi dei suoi minzolini, di video e di penna.
Mentre se c’è una battaglia in cui un politico non è mosso da interessi piccini o inconfessabili, e anzi rischia tutto il potere e i vantaggi accumulati nei decenni, è quella che ieri ha aperto Fini. Riguarda infatti la sopravvivenza o meno dei valori della Costituzione repubblicana, le libertà di tutti e di ciascuno, un futuro europeo anziché da satrapia orientale. Non ci permettiamo consigli, che oltretutto la disinformacija di regime iscriverebbe come prova a carico del “tradimento comunista” di Fini (vedrete che ci arriveranno comunque). Ma essendo lo scontro sui principi della democrazia liberale, il banco di prova sarà sulle prossime leggi di svolta totalitaria, in primis quella che garantisce la galera ai giornalisti che continueranno a fare i giornalisti (il loro mestiere sarebbe infatti informare). Basta non votarle e spiegare il perché. Gli italiani capiranno. E se cade il governo, non è detto che non ci siano in Parlamento i numeri per un governo di “lealtà costituzionale”. E milioni di cittadini in piazza per appoggiarlo.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-posta-in-gioco-tra-berlusconi-e-fini/
domenica 18 aprile 2010
Raimondo muore, Silvio si spaventa
Raimondo muore, Silvio si spaventa
Non è stato un funerale qualunque, quello con cui si è affacciato nell’aldilà Raimondo Vianello. Non è stata la semplice scomparsa di un comico borghese che ci ha fatto sorridere delle nostre vite medie.
Il quadro dolente di Sandra Mondaini, non la sbirulina a cui si è voluto bene, la graziosa signorina che intepretava gradevoli bianchi e nero, ma un’anziana pietrificata dal dolore sulla sedia a rotelle, con una benda corsara all’occhio che le offendeva il viso, questo quadro insomma con al centro una donna al limite del dolore era la sintesi di una morte sintetica oltre che terrena: la fine di una gloriosa stagione televisiva, quella appunto vissuta dalla coppia Sandra&Raimondo, fatta di pacatezza e pudori, senso della misura e creatività genuina.
Un mondo che fu, e che più non è, violentato definitivamente dall’avvento di Berlusconi, l’uomo della pubblicità e delle poppe in vista. Non a caso, il premier, ha trovato il tempo e il modo per palesarsi in duomo e assistere alla cerimonia. Con l’intelligenza, anzi il fiuto che non gli difetta, ha intuito la portata dell’evento. La terminalità innegabile di una stagione italiana che si è espressa e riconosciuta attraverso il teleschermo.
Anche la televisione muore, avrà pensato con terrore il presidente del Consiglio mentre accarezzava la povera Sandra e costruiva il suo personale reality.
Anche il suo Canale 5, la sua Italia uno, il suo Retequattro, schiantati dalla banalità dell’offerta e dalla bomba tecnologica, stanno arrivando alla fine.
E così pure, clamorosamente, la sua giustificazione politica, fatta di un tutto e niente che si equivalgono e sopravvalutano.
http://bocca.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/04/18/raimondo-muore-silvio-si-spaventa/
Vilipendio di cadavere...di Marco Travaglio...
Infatti, in quel festival di botulini e siliconi, incedeva persino Lele Mora (Luciano Moggi, altro magister elegantiarum, era passato il giorno prima in una pausa del suo processo). Ho sperato con tutto il cuore che al grande Raimondo, impegnato nell’ultimo viaggio, sia stata risparmiata la vista di quello spettacolo sguaiato, volgare, fasullo: l’esatto contrario della sua vita garbata, elegante, ironica e autoironica. L’estremo oltraggio. Vianello era, politicamente, un berlusconiano. Ma, antropologicamente e artisticamente, era l’antitesi vivente del berlusconismo. Infatti han dovuto aspettare che morisse per coinvolgerlo, ormai impotente e incolpevole, in una baracconata invereconda che ricorda il feroce episodio de “I nuovi mostri” firmato da Scola, in cui Sordi, guitto di provincia, recita l’elogio funebre del capocomico al cimitero, sul bordo della tomba, rievocandone le battute più grasse e pecorecce mentre tutt’intorno si applaude e si sghignazza. Gli storici del futuro che tenteranno di interpretare l’Italia di oggi non potranno prescindere da quelle immagini, perché difficilmente troveranno miglior reperto del nostro tempo: l’epoca dei senza pudore e dei senza vergogna.
Una bara sequestrata da un anziano miliardario squilibrato, malamente pittato da giovanotto, che si crede Napoleone e monopolizza la scena con la stessa congenita volgarità con cui, proprio un anno fa, passeggiava sui cadaveri dell’Aquila accarezzando bambini, baciando vecchie, promettendo case e dentiere nuove per tutti. Una povera vedova incerottata e distrutta dalla malattia e dal dolore esposta alle telecamere e ai megascreen mentre mormora “Raimondo, io sono qua” senza neppure il diritto di farlo sottovoce, in penombra, lontano da microfoni, occhi e orecchi invadenti, pronti a trasformare tutto in “gossip”. E, tutt’intorno, nessuno che notasse lo scempio. Nemmeno un consigliere che suggerisse al capo un po’ di raccoglimento, di compostezza, di silenzio, o gli spiegasse che ai funerali non c’è niente da ridere nè da applaudire. Men che meno ai funerali di Vianello, al quale bastava e avanzava il bellissimo necrologio bianco dettato dalla sua Sandra. “Berlusconi – scrisse un giorno Montanelli – è talmente vanesio che ai matrimoni vorrebbe essere la sposa e ai funerali il morto”. Infatti, anche per evitare di ritrovarselo cianciante alle sue esequie, il vecchio Indro lasciò detto nelle sue ultime volontà: “Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili”. Forse Berlusconi non se n’è accorto, ma ieri ha seppellito sguaiatamente l’ultimo berlusconiano elegante e ironico rimasto in circolazione. Se lo capisse, se ne preoccuperebbe più che per il divorzio da Fini. Ma, se lo capisse, non sarebbe Berlusconi.
(Il Fatto Quotidiano del 18 Aprile 2010)